Manfred Beelke non offre i suoi quadri in visione libera.. Quindi qui sentirete parlare dei suoi quadri, mma NON li vedrete .
Questa critica - che nel 2000 doveva aprire il catalogo del pittore berlinese - fu rifiutata dallo stesso Beelke (non me lo disse lui, incaricò sua moglie), in quanto giudicata "borghese".
MANFRED BEELKE o LO SGUARDO ROVESCIATO
di Jacqueline Spaccini
Che strana e (lunga) storia hanno certi colori. Prendiamo l’azzurro che negli anni Cinquanta veniva chiamato carta zucchero (perché in quella carta, avvolta a cartoccio imbutoidale veniva venduto lo zucchero sfuso).
La prima volta che l’ho visto era in un quadro di Edouard Manet (Le Déjeuner sur l’herbe, 1863). In disparte, a sinistra della tela, colmava cromaticamente qualche indumento, che un canestro di frutta messo di traverso aveva spiegazzato.
L’ho visto poi arrampicarsi sulle pieghe della gonna di una vecchia di Cézanne (e più tardi attraversare il cielo sovrastante la sua montagna provenzale); affrescare in lungo e in largo le pareti della stanza di un pittore (La Chambre de Van Gogh, 1888); cingere le belle reni di una rossa seminuda di Toulouse-Lautrec (La Toilette, 1889). Poi, il silenzio; uno spruzzo in Chagall… La scollatura di Due donne al bar di Picasso. Di altri, non mi sovvengo più.
L’ho visto riapparire, di recente, in un quadro di Manfred Beelke, Radfahrer (Ciclista, 1968). I toni sfumavano di già verso il viola gravido di temporali, conferendo all’elemento cromatico (come al soggetto) un che d’inquietante, assente nell’archetipo di Manet.
D’altronde, tutto in questo quadro mi sembra scivolare verso un “qualcosa d’altro”: la facciona che da tonda si fa quasi quadrata, l’amenità dei calzoncini del ciclista, a righe bianche rosse e blu, uguali al cinturino dell’orologio da polso (mancano solo le stelle per un rinvio palese alla bandiera statunitense), e la circolarità della tela (le due ruote che diventano tre, per effetto dell’ombra; il carter, l’orologio stesso, il volto del ciclista), divaricante verso la polposa gamba a retto acuto che pigia sul pedale… Cerulei, gli occhi a mandorla, sghembi come la bocca, una ferita dotata di denti irregolarmente regolari, tagliano la tela in senso orizzontale.
Mi è stato impossibile non riandare col pensiero a Biciclette e falci di Giuseppe Zigaina. E, invero, i tratti di comunanza, del berlinese Beelke con l’udinese Zigaina, mi sembrano essere più d’uno. Non faccio esclusivamente riferimento alla presenza della letale farfalla testa di morto – quella di Hannibal cannibal – che in Liquidation des Fortschritt (Liquidazione del progresso, 1979/80) di Beelke campeggia centrale nella tela (contribuendo a esplicitare la zona bassa, di sapore picassiano), e che in Zigaina è accennata solo per una porzione (Sui campi la farfalla notturna, 1979).
Di comune, i due pittori (che sono anche amici), hanno l’intento di configurare drammaticamente la violenza insita – e dai poteri mondiali efferatamente sollecitata – nell’uomo. Zigaina sceglie i paesaggi in cui confluisce la sua memoria personale; Beelke denuncia più manifestamente le altrui scelleratezze (tramite i manifesti che inalberano le scritte : Berlin 1919, Madrid 1936, Santiago De Chile; nella mano sollevata; e nelle maschere del volto, le teste scarnificate, il garofano rosso, insanguinato).
Di sotto, le vittime accomunate dal rosso (comunista ed emoglobinico) e dal nero luttuoso: il pugno chiuso, la citazione intertestuale del Guernica (1937), a rappresentare simbolicamente tutte le stragi originate dall’insensatezza della violenza e del potere.
Denuncia aperta quella di Beelke, ed anzi gridata. Come nel trittico Freiheit – Gleichheit – Brüderlichkeit (Afrika-Bild) [Libertà – Uguaglianza – Fraternità (Quadro dell’Africa)] del 1977.
Nell’acrilico centrale, il quadro di Delacroix (La liberté guidant le peuple, 1830) viene riproposto, ma con diversa lettura. Il pittore francese aveva dipinto un’allegoria, che esaltava la determinazione indomita degli insorti (e per questo motivo fu tenuto a lungo nascosto per tema d’incitarne gli ammiratori alla rivolta); tutt’altro senso acquista nel quadro del pittore di Berlino. Beelke sembra volerci dire: Che fine ha fatto la libertà… quella libertà?
Guardiamola allora questa libertà, beffeggiata da un vassoio recante coca-cola e selz destinati ai testoni che se ne infischiano, e giudicano, spartiscono, ammazzano (tutti dentro, politici e militari; e di tutte le nazioni cosiddette “leader”). Il quadro c’è, l’allegoria – il memento – resta, ma “i testoni” gli voltano le spalle; a loro non interessa e diventa uno sfondo muto e cieco. Allo spettatore, posto dinanzi al quadro, trarne le dovute conseguenze: in Africa l’unica libertà che resta è quella di morire.
Dell’uomo, a Beelke interessa anche e soprattutto il corpo, o meglio, la sezione segreta della sua vita organica. Dall’esterno all’interno, dunque.
Alla fine degli anni Settanta risale la serie di Frühstückbild (Prima Colazione). Torna il volto rovesciato – privato del suo sguardo (il volto è ritratto a partire dal naso) – e in cui l’attenzione dello spettatore è rivolta alla cavità orale più o meno aperta, nell’atto d’ingollare qualcosa.
Siano essi allusione consapevole oppure no dell’artista, gli oggetti – per lo più genitoformi – rimandano a un universo sessuale, orale, femminile (la tazza umida di tè, l’uovo alla coque, ancora “tenero”, il fiotto di latte) e maschile (la tartina di Wasa imburrata, la banana sbucciata, la smilza salsiccia ancora dotata del suo filo, il sigaro). Visione non idilliaca, all’interno di un mondo di colori acidi, in cui la tovaglietta bianca assomiglia inaspettatamente ad uno specchio che nulla riflette, se non la vanità dell’esistere.
Più tardi, la visione organicistica si fa ossessiva e Beelke va all’interno del corpo umano, a rintracciarne i segreti ed i guasti.
Alludo ad alcune tele degli anni Novanta, dominate dalla presenza della morte. Questa dama incipiente, che non si annuncia (il suo biglietto da visita lo tiene tra le dita), quando viene a bussare alla porta di casa. L’ospite subdola che ci attende ai tornelli del nostro voyage au bout de la nuit. Viaggio al termine della notte non è solo un romanzo di Céline: Manfred Beelke ne prende a prestito il titolo per confinare in senso spaziale il suo Alptraum (Incubo, 1997). E la parola morte compariva per ben tre volte (nel titolo e nel rettangolo dipinto) in un suo precedente quadro, Reise in den Tod (Viaggio verso la morte, 1993): la grafia minuziosa e severa dice: forse non avrà la forza di morire di questa squallida morte e più sotto, con caratteri a stampatello: darkness unconscious.
E dunque entriamo in questa innovazione, insinuatasi molto tempo prima, che fa la particolarità della penultima produzione di Beelke: la presenza delle parole nei suoi quadri. Scriveva Michel Butor, nei lontani anni Sessanta (Les mots dans la peinture), che “ogni scritta, all’interno del quadro, attira lo sguardo, tanto più a lungo, e dunque tanto più fortemente, essa ci richiederà uno sforzo nel decifrarla”.
E invero quando inserisce all’interno di Rückkehr (Ritorno, 1996) la parola ELEIM, con caratteri cuneiformi (il quadro fa parte del ciclo “Quadri etruschi”) – certo di minor facile comprensione rispetto ai segni proposti dal computer –, Beelke esige che lo spettatore rovesci la parola e spera poi che costui conosca l’italiano (= miele = Honig). Inoltre la parola, così decrittata, non ha un’attinenza evidente col soggetto del quadro (una testa beelkiana, a terra, con la lingua in fuori su di un suolo, questo sì, color miele).
Il pittore attinge nelle riserve del suo “ museo memoriale ”. Un po’ come faceva Picabia, quando inscriveva Voilà la femme (1915) al disopra di una strana macchina geometrica (senza contare gli esempi magrittiani). La sorpresa per lo spettatore è grande, ma ancor più grande appare il suo stupore dinanzi all’oggetto – familiare per l’artista, sconosciuto a lui – che gli sfugge, forse irrimediabilmente. Il “tradimento delle immagini” è però un falso problema: un quadro – con o senza titolo – suscita sempre qualcosa di nuovo, di diverso, nello spettatore. Ha scritto, ironicamente, uno scrittore italiano (Alessandro Baricco) che “davanti a un quadro è uno dei posti migliori per esperire il sentimento dell’impotenza” (Mai un dio è stato meno dio). Non sono d’accordo, l’arte secondo me non ha il compito di confortare.
Non sono sempre sicura che l’arte abbia un suo compito particolare; sono invece certa che Manfred Beelke ne affidi uno alla sua. Innanzitutto, è persino banale scriverlo, la pittura esprime la personale Weltanschauung di un individuo; s’incarica cioè di restituire il vissuto di una personalità artistica. Il suo passato, il suo presente; i suoi dubbi, le sue angosce; i suoi sogni e le sue delusioni; le sue vittorie e le sue sconfitte. Ma anche le sue speranze e il suo futuro.
La tela diventa – è – il percorso – ideale o meno – della sua vita. Si carica delle pulsioni ed è popolata dalle persone che circondano l’artista, che per lui contano. Come nelle tele consacrate alle malattie e al cancro, in cui Beelke evidenzia la parte colpita, lo stomaco, i polmoni (Malattia mortale I e III, 1998); le teste (e le meditazioni) tormentate di Alzheimer – Krankheit (Morbo di Alzeheimer 2 e 3, 1999): nobody knows but Jesus // the trouble I’ve seen). Beelke fa ricorso a tante lingue, sicché siamo tutti coinvolti (e chiamati a capire).
Vorrei terminare queste brevi considerazioni che le opere di Manfred Beelke mi hanno consentito di fare, con uno sguardo (à rebours) a due tele del 1997.
Sono due paesaggi (Fläming-Landschaft I e II). Li ho scelti per due motivi: il primo è che apparentemente sono due soggetti lontani dalla tematica del pittore di Berlino; il secondo è che – a mio parere – invece, essi riassumono quanto detto fin ora.
Innanzitutto, la loro bellezza. Non sono solita usare aggettivi o sostantivi qualificanti, di parte; sono convinta infatti che quel che penso – se può interessare qualcuno – si inferisce dalle parole usate, dagli argomenti addotti, ma in questo caso, la qualità evocativa dei paesaggi fiamminghi di Manfred Beelke tacita la mia intransigenza. Innanzitutto e sopra a tutto, i colori.
Nel primo, l’unico sul quale mi soffermerò, tornano – ma con diverso vigore – i rossi bianchi e blu evocati nell’ekphrasis del Radfahrer (Ciclista). Un’ampia distesa, una collina, invade tutto il rettangolo che racchiude l’universo diegetico di Fläming-Landschaft I. Probabilmente, una collina adibita a coltivazione, non più libera com’era nella sua natura primigenia. Assediata dal basso e in modo ovoidale dai rossi che si stemperano in un mattone indebolito, il blu del cielo cupissimo si insinua nella parte di sinistra e invade il terreno, cui non resta alcun scampo se non nella parte centrale, bianca.
Un temporale sta infuriando nella parte alta del paesaggio, in un istante ancora lontano (ma non per molto), a destra. In mezzo al movimento turneriano delle forze della natura, distinguo un villaggio, poche case, un punto nero nel centro.
Un campanile (una torre?) circonfuso da un soffice e tuttavia già fosco azzurro mi ricorda che laggiù – oltre questa malinconica e deserta collina – c’è la vita.
Perché in fondo è questo che lo sguardo rovesciato di Manfred Beelke mi ricorda: che c’è comunque la vita, questa nostra vita, per la quale battersi, nella quale rialzarsi, quando tutt’intorno imperversa la tempesta.
Natalija Gončarova - Il ciclista (1913)
Ricominciamo, non ci arrendiamo, ha scritto Lars Gustafsson(1).
Rovesciamo la testa, diciamo noi.
Parigi, 2 marzo 2000
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(1) Morte di un apicultore, Iperborea, 1989 (trad. Carmen Giorgetti Cima)
2 commenti:
Che bello questo nuovo luogo dove leggerti! E poi quando parli di quadri e letteratura, io resto a bocca aperta..
Se mi permetti, un brindisi al tuo nuovo blog. (champagne, certo certo!)
Grazie, grazie, Bart.
(Ma solo Veuve Clicquot, mi raccomando.)
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