martedì 20 dicembre 2011

L'arte naïf di quella che un tempo era la Jugoslavia

Dragan Mihaijlovic (1950)
Questo post è dedicato ai pittori d'arte naïf di una Jugoslavia che fu e ha come testo di riferimento un libro di 84 interviste qui in lingua francese curato da Nebojša Tomašević dal titolo L'Art naïf en Yougoslavie, edito in Belgio e stampato in Italia; non reca né il nome del traduttore né l'anno di pubblicazione (un piccolo 1975, senza il logo del copyright, compare in basso a sinistra in una pagina del libro). 
Tutto quanto scriverò sarà frutto [da me tradotto in italiano] della lettura di questo testo. Alla scuola di Hlebine, accennavo tre anni fa, ma velocemente, qui.
 * * *



Franjo Mraz
Tutto nasce  quando quella terra si chiama ancora Jugoslavia, a Hlebine, un villaggio croato a nord-est di Zagabria, verso l'Ungheria. Tutto nasce attorno ad alcuni pittori autodidatti: Ivan Generalić (1914-1992), Franjo Mraz (1910-1981), Mirko Virius (1889-1943) e Janko Brašić (1906-1994) per primo in Serbia. La scuola di Podravina (o di Hlebine, a seconda che si scelga la regione o il nome del villaggio) vede concentrarsi ben presto in una zona croata un gran numero di pittori autodidatti, agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. 

Nel 1975 si sfiorano le 700 unità di pittori, tra contadini e operai, imbianchini, fattori e giardinieri, mugnai, pescatori e pensionati d'ogni sorta. Prima degli anni Trenta, tuttavia, questa gente dipingeva già (qualcuno inizia da bambino) oppure faceva altre attività creative di tipo artigianale, del genere folkloristico, ma lo teneva nascosto, come fosse un vizio, scrive l'autore del testo in questione. Perché allora a un certo momento, comincia a fiorire e a farsi conoscere tale arte fuori di casa?
Franjo Mraz
Da questa domanda scaturiscono le 84 interviste del libro. 

Il territorio è fertile: «si fa fatica ad  immaginare un agricoltore britannico o americano che si dia alla pittura, dedicando cuore e anima a un'attività artistica, come faranno i pittori-contadini in Jugoslavia», poiché l'arte popolare riesce difficilmente a sopravvivere in Paesi fortemente industrializzati come possono esserlo le società anglofone, ove la produzione e la meccanizzazione finiscono per indebolire i legami che uniscono il contadino alla sua terra.
Mirko Virius
Ivan Generalic
È bene che si sappia: i popoli della ex-Jugoslavia hanno sempre accordato un'importanza grandissima alla poesia, alla natura, al contatto pudìco e incontaminato con le cose. C'è un'anima profonda, una spiritualità insita nei suoi popoli che ignora il materialismo più ancorato. E questo non lo dice il libro, lo dico io che ho trascorso qualche anno in quei luoghi.

Ma torniamo agli anni Trenta. Tutto ha inizio da una protesta sociale dei giovani di Hlebine, «villaggio adagiato su una pianura soggetta alle inondazioni» che si estende nella regione  croata della Podravina, cioè «intorno alla Drava», affluente del Danubio. I contadini-pittori espongono - attraverso la pittura  - la loro protesta «all'ingiustizia sociale e agli oneri economici» dell'epoca. Qualcuno continuerà a conoscere per tutta la vita un'esistenza di stenti e di sofferenze, come Mirko Virius - cupo dilettante di campagna - che troverà la morte nel campo di concentramento nazista di Zemun [Tomasevic sottolinea che l'artista verrà fucilato dall'occupante tedesco (Zemun si trova alla periferia di Belgrado). Non ho trovato conferma altrove]. 

Gli altri due capifila della scuola sono, come detto, Ivan Generalic (diverranno pittori famosi anche suo figlio Josip e suo nipote - il figlio di Josip - Goran) e Franjo Mraz.
I. Generalic
Ivan Generalic è rimasto a Hlebine,  «la fonte da cui [ha] continua[to] ad attingere la sua ispirazione» e ha rappresentato l'amico Virius morto, su di un prato verde con gli occhi bendati, circondato da ceri accesi e dal gallo di Podravina, «ornamento d'obbligo d'ogni fattoria della regione». Si nota, ma solo in un secondo momento, che la cinta di protezione del prato in realtà non è altro che filo spinato (quello del campo di concentramento dove morì Virius). 

A dire il vero, nell'intervista che rilascia, Generalic racconta che all'inizio non fu bene accolto come pittore nel suo villaggio. Il fatto è che non sapeva ben dipingere la gente, sicché - sbagliando le proporzioni - dipingeva persone con mani enormi e piedi piccolissimi, e case che sembravano sul punto di crollare. Però pittori importanti lo invitavano e ciò spingerà Ivan a sentirsi rafforzato nella sua opera. Opera che veniva pagata pochissimo, 50 - al massimo 100 - dinari, comunque (afferma che) era  una buona somma per lui che proveniva da una famiglia poverissima.

La fama di questo pittore oltrepassa i limiti nazionali per estendersi oltre l'Adriatico e la pianura pannonica: Generalic è il più famoso rappresentante dell'innocenza e dell'ingenuità pittorica del suo Paese.

Martin Jonas
A differenza di Generalic, non si fa problema di proporzioni smisurate - anzi le utilizza per farne un marchio personale di originalità - il serbo (di famiglia slovacca) Maritn Jonas (1924-1996). Senonché la sua pittura riconoscibilissima è anche fortemente segnata da una sensualità priapica, come può facilmente rilevarsi dal quadro qui riprodotto.
Franjo Filpovic



Dopo la guerra e la rivoluzione, nella nuova società i contadini-pittori trovano il modo di uscire dalla loro condizione di quasi analfabetismo [il termine corretto è illettrisme, in it. analfabetismo funzionale], ma pèrdono anche quella loro «beata solitudine».

Generalic è pittore che incoraggia altri paesani a esprimersi attraverso la pittura. Tanti altri campagnoli - evidentemente talentuosi - seguiranno il suo esempio e adotteranno la tecnica della pittura a olio su vetro (la pittura sottovetro) di grande brillantezza.

Ivan Rabuzin

Ma non tutti provengono da Hlebine: Ivan Rabuzin è di un villaggio non lontano da Varazdin (sempre ai confini con l'Ungheria). Inizialmente operaio, dipinge nel tempo libero, perché deve pur mangiare. Per lui il colore è «un'esperienza emozionale».  I suoi quadri sono assolati e i toni sono quelli del pastello, senza ombre, in un ottimismo esistenziale che indica nella natura il luogo della felicità. 

Janko Brasic
Ecco che anche nell'altra parte (all'epoca) della Repubblica Federale di Jugoslavia, nel villaggio di Oparic, in Serbia, in una zona montagnosa, si afferma un fattore che dipinge da quarant'anni, Janko Brasic. Autore di ritratti psicologici, rileva l'autore del nostro libro di riferimento, ma anche di combattimenti tra Serbi  e Turchi che evocano sempre «la fase della battaglia in cui i Serbi erano vincenti», come si rileva dall'immagine qui affianco.

Martin Paluska
E poi ci sono i contadini-pittori del villaggio slovacco di Kovacica, a 50 km da Belgrado, con  Jan Knjazovic, Martin Jonas, Mihajlo Bires e a capo di tutti, il mugnaio Martin Paluska, che dipinge da sempre, da giovanissimo,, dipingendo per istinto, senza tenere eccessivamente conto di quel che ha realizzato.Ma quel che più conta per lui - dice nell'intervista - è l'appoggio e l'entusiasmo che la gente di Kovacica ha sempre epresso nei confronti della sua pittura e di quella degli altri pittori del villaggio. E così, ogni giorno - dopo il lavoro al mulino - restano ancora 4-5 ore per dipingere. E confessa che mano a mano che invecchia, predilige il buon tempo andato, sicché rappresenta i costumi antichi, la moda di un tempo, i matrimoni tradizionali.

Anujka Maran
Spostandoci ancora di villaggio in villaggio, giungiamo a Uzdin, distretto del Banato, zona della Voivodina, verso la frontiera rumena. E infatti qui la popolazione è in maggioranza di origine rumena. E qui ci sono anche contadine-pittrici autodidatte di notevole pregio, tardive come per esempio Anujka Maran (1918-1983) che ha iniziato a 40 anni e che dipinge gli abiti rumeni (e li tesse, anche), che racconta una storia in ogni suo quadro, ma è una storia triste, che racconta con amore  le storie che dipinge e ama sopra a tutto i cavalli: memorabile il suo Cavallo rosso, 1963 (collezione privata).



Tutti questi artisti, questi agricoltori pittori, vagheggiano una nostalgia del passato rurale e lo rappresentato in maniera idilliaca, «sentimento che riflette in un certo qual modo il conservatorismo innato dei contadini», scrive Tomasevic. Vedono i miglioramenti che il progresso ha apportato nelle loro vite, ma sentono ancor più forte il dolore per la perdita delle pratiche tradizionali, dei costumi ancestrali e perciò fissano tutto ciò - per sempre - sulla tela.

Ivan Lackovic
Alcuni di loro sono andati a vivere in città (Zagabria o Belgrado), ma la materia del loro dipingere è rimasto il paesello. Citiamo il postino Ivan Lackovic (1932-2004) che è diventato zagabrese ma che raffigura i paesaggi della sua Podravina in maniera lirica, tranquilla e particolarmente malinconica nel crepuscolo invernale.

«Sotto ai tetti innevati delle capanne contadine, le finestre illuminate brillano nell'oscurità e le luci pacate sembrano suggerire l'idea che all'interno di quelle umili dimore la gente vive un'esistenza piena di concordi e di perfetta felicità».

Zuzana Halupova
Un altro senso  è quello di Franjo Mraz, tra i fondatori dell'art naïf nei territori della ex-Jugoslavia che pur essendosi trasferito a Belgrado è rimasto fedele ai temi della campagna. Ci spostiamo di zona e le cose non cambiano: Pol Homonaj è andato a vivere a Novi Sad, il macedone Vangl Maumovski si è stabilitp a Ochrid e Djordje Sijkavic a Skopje, ma «le folle, i rumori cittadini sembrano non aver destato alcuna eco nelle loro coscienze; la loro opera li riporta sempre nei verdi pascoli e nei frutteti in rigogliosa fioritura».


Zusana Halupova
Vorrei terminare questa prima parte dedicata all'arte naïf serbocroata (ma anche di minoranza slovacca, rumena e macedone), dedicando qualche parola e immagine alle donne. Per esempio, Zuzana Halupova (1925-2001), contadina - e si vede - che dipinge con gaiezza la sua vita, e dipinge con amore i bambini e gli animali da cortile e tutti i personaggi hanno i suoi occhi (nel colore e nella forma) e tutti sembrano se non felici, perlomeno contenti della loro vita.
Ljubica Hladnic-Mikova
Ma penso anche a Ljubica Hladnic-Mikova che dipinge dalla prima infanzia e dipinge olio su vetro. Qui un dipinto che esprime una maternità brillante ma non del tutto rasserenata. Il momento idilliaco è un isolotto che separa la madre e il figlio dal resto del mondo, cristallizzandolo fuori dalla coppia.

Termino per ora con la pittrice Ana Oncu (1932-), di origine rumena. È una contadina che ha iniziato tardi, scoprendo la pittura della cognata, Marija Balan. Ama dipingere i pastori, le pecore, i campi, i costumi nazionali, le guardiane delle oche, particolarmente durante la stagione della primavera. E se le si chiede che cosa ne fa del denaro che ha ricavato dalle vendite dei suoi quadri, risponde senza esitare: «Li metto in banca. Spendiamo il denaro che guadagna mio marito. Io economizzo i miei soldi per mia figlia. Quando ero una ragazza dell'età di mia figlia, eravamo in sei in casa e mi era impossibile comprare degli abiti; perciò desidero che mia figlia possa farlo. Voglio che prosegua gli studi. Nostra figlia ha 13 anni [...] e desidero che abbia una vita diversa dalla mia, che non diventi una casalinga, che non debba lavorare alla fattoria. Voglio che sia istruita, allora, conoscerà una vita migliore della mia».

Sì, ma forse non diventerà mai una pittrice, dico io.



















* * *

Prima ancora che a Hlebine e all'arte dei contadini in sé - questo mio è un omaggio al museo di arte naïf di Zagabria (Hrvatski muzej naivne umjetnosti) dove talvolta trascorrevo il mio tempo, in contemplazione, e a una riproduzione di Ivan Generalić, Dvrosjece, [Tagliaboschi] che tengo appeso - ben in vista - a un muro del mio salotto italiano.

Ivan Generalic, Dvrosjece (1959)
AVVERTENZA: Le foto sono tratte dai blog croatiannaiveartinfo.blogspot.com e serbiannaiveartinfo.blogspot.com. Molte delle loro immagini sono tratte dal libro di Tomašević.



lunedì 19 dicembre 2011

La storia delle poete della Compagnia delle Poete


Per chi volesse saperne di più, sulla storia della Compagnia delle Poete (cui ho l'onore di appartenere) e sulle poete stesse, può leggere l'articolo di Helena Paraskéva, anch'ella poeta della Compagnia, riguardante una serie di interviste e pubblicato nel numero di dicembre 2011 dall'Osservatorio Romano(*), con il titolo Al crocevia di poesia e migranza: la Compagnia delle Poete (clicca qui).


La nostra Compagnia di donne poete avanza un passo dopo l'altro, con cautela e fermezza. Nella gioia.

________
(*) Osservatorio Romano sulle Migrazioni, inserto annuale dell'Osservatore Romano.

domenica 27 novembre 2011

La Regina Gertrude

La regina Gertrude di Kenneth Branagh [Julie Christie Hamlet 1996]


La Regina Gertrude è complice nell'assassinio del Re Hamlet padre. 
No, la Regina Gertrude è all'oscuro dell'omicidio del marito perpretato dal di lui fratello, Claudius, oggi nuovo re (al posto del legittimo figlio, Hamlet anch'egli) e nuovo sposo di Gertrude.

Ma chi è dunque questa regina? 
È colpevole? È innocente? 

La regina Gertrude di Laurence Olivier - photo by Matthew Dessem's blog
Shakespeare non si lascia prendere al laccio: non cede, non dice, bisogna leggere tra le righe, ché lui non prende partito. Et pour cause.
Il drammaturgo non  intende correre rischi di sorta: tra il pubblico delle sue rappresentazioni, costui può annoverare niente di meno che Giacomo VI di Scozia, figlio di quella Mary Stuart, accusata in vita di essere stata la mandante dell'omicidio del suo secondo marito (il cugino Henry, Lord Dornley) e vedova del primo marito, dopo soli due anni di matrimonio, quel Francesco, figlio di Caterina de' Medici, morto in seguito a un'infezione dovuta a un ascesso ad una delle orecchie (stessa morte apparente del padre di Amleto)... e Giacomo VI diverrà successivamente re d'Inghilterra, riunendo le due corone, alla morte di Elisabetta I. Per cui... meglio non esagerare coi riferimenti.

Gertrude & Hamlet photo by GERI'S BLOG

Ma non tutti hanno letto (o ricordano) la trama di Amleto.

To be or not to be

Gertrude - dal sito http://lionkingvshamlet.blogspot.com/

Riassumo velocemente. In Danimarca, nel castello di Elsinore, c'è un re [Claudius] e una regina [Gertrude]. Ma soprattutto c'è  il figlio [Amleto jr.] di lei. Questo giovane (insomma, ha già 30 anni) ha perduto il padre da poco. il re Amleto.  La madre (la vedova) ha osservato un breve lutto e poi si è risposata dopo appena 4 mesi con il cognato, cioè il fratello del marito (si noti che, all'epoca, la cosa era considerata un incesto).
L'erede al trono è Amleto, ma è Claudius che diventerà re del Regno di Danimarca. La regina resta regina. Amleto si è incapricciato (ma forse l'ama per davvero) di Ofelia, la figlia del ciambellano Polonius, il quale ha un altro figlio, Laerte, giovane amico di Amleto jr.
Vero e unico amico del cuore del principe danese è però Horatio che si dice romano inside (diremmo oggi). Fin qui... Il fatto scatenante è che quasi da subito compare il fantasma (lo Spettro) del padre morto il quale intima ad Amleto di far fuori Claudius (e di risparmiare la regina), giacché la morte sua (di Amleto senior) è dovuta alla mano omicida del fratello minore. Praticamente la pièce trascorre in un alternarsi di lo faccio o non lo faccio?,  che poi sarebbe la traduzione terra-terra del dubbio amletico, quel to be or not to be di granitica memoria. Come in tutte le tragedie, gli eventi precipiteranno fino alla carneficina finale.

C'è del marcio in Danimarca

Hamlet - Penny Downie & David Tennant

Un altro pensiero arrovella il giovane. Il ruolo svolto dalla madre nella triste vicenda: è forse anch'ella assassina? 

dal sito http://frankzumbach.files.wordpress.com/



l'uccisione di Polonius, la disperazione di Gertrude

Ci pensa e per un attimo lo crede anche, quando la madre lo rimprovera per l'uccisione di Polonius:

Gertrude : O, what a rash and bloody deed is this ?
Hamlet: A bloody deed, almost as bad, good mother, as kill a king and marry with his  brother. [1]
 
Gertrude - da questo sito: www.skydive1.info

Ma poi no, Amleto non può crederlo; vede la madre stupirsi, non capacitarsi, chiedergli più d'una volta what I have done... what act?. Preferisce pensare - con ribrezzo e gelosia - che Gertrude sia semmai una lussuriosa accecata dai sensi, a causa della quale persino Heaven's face does glow [2], in una lunga tirata in cui le chiede come abbia mai potuto dimenticare il marito morto (Amleto senior) a vantaggio di Claudius:

Hamlet: Could you on this fair mountain leave to feed, and batten on this moor? Ha, have you eyes? You cannot call it love [...] Sense sure you have, [...] but it reserv'd some quantity of choice to serve in such a difference. What devil was't that thus hath cozen'd hoodman-blind?[3].

È da un po' che ci penso: Gertrude è una baldracca?  Troppi anni di femminismo mi impediscono di accettare un giudizio come questo; ma riflettiamo.

Gertrude (Glenn Close) photo by Havlicek's classroom

Vediamola più da vicino, la regina Gertrude dell'infimo regno di Danimarca, nell'infimo castello di Elsinore (a 45 km da Copenhagen).
Gertrude ha sposato giovanissima Amleto padre. 

Da che cosa lo induco? Dal fatto che 1) la regina ha un'età che si aggira sui 50-53 anni (come le attrici che lo interpretano sullo schermo come a teatro); 2) lo Spettro (il fantasma del suo defunto marito, il padre di Amleto jr) è sempre rappresentato come un uomo alto, imponente... e vecchio; 3) Amleto ha 30 anni (lo si capisce dal discorso di uno dei due becchini al cimitero). Claudius è il fratello minore di Amleto senior: ignoriamo la sua età, ma è comunque più giovane del morto. Il  quale morto ha un contegno sempre severo e intuiamo che anche in vita sia stato un uomo tutto d'un pezzo, attento ad amministrare il potere da solo (altrimenti perché Amleto a trent'anni sarebbe ancora un bamboccione nullafacente?).

Gertrude (Glenn Close) e Claudius (Alan Bates) by Zeffirelli

Povera donna, aveva riversato tutto il suo desiderio d'amore sul figlio edipico e ora ha trovato un uomo forse - anzi probabilmente - più in forma del primo.  E non dimentichiamo che fino alla confessione davanti a Dio, Claudius non sembra uno spregevole assassino, bensì un re assennato e amorevole, che chiede l'affetto al nipote ora figlio acquisito.

Ma ora Amleto si trova a essere privato dell'amore della madre. Io credo che sia questo tipo di tradimento che brucia dentro di lui ben più gravemente del tradimento al cadavere ancora caldo del padre... 

dal sito http://frankzumbach.wordpress.com
Gertrude: What wilt thou do? Tho wilt not murther me? Help, help, ho!

D'altronde i sentimenti che uniscono madre e figlio, sono stati «esplicitati» con forza direi espressionistica, anzi iperrealistica, da Laurence Olivier nella sua versione di Amleto (per vedere l'immagine: clicca qui) in cui il giovane giunge a baciare in bocca sua madre (nella versione di Zeffirelli, è Gertrude che bacia in bocca suo figlio, per farlo tacere).

Il fatto è che il giovane è perseguitato dallo spettro del padre, il quale non lo ha reso adulto da vivo e che ora - per proprio tornaconto [4], esige che suo figlio sia un uomo e per giunta vendicatore e assassino a sua volta dello zio. Ma Amleto proprio non ce la fa.
E quand'è allora che riuscirà a uccidere Claudius?


Fussli - Gertrude, Amleto e lo Spettro

Solo quando la madre agonizzante, gli dirà di essere stata avvelenata. Gertrude donna di passioni, volutamente cieca, forse non innocente, ma di certo assolutamente incolpevole.
* * *

A teatro, dal 2008 - se non erro - viene rappresentata  in Francia una pièce che ha come protagonista assoluta Gertrude. Il titolo è  Gertrude - Le cri (il grido) del britannico Howard Barker.  Una Gertrude tutta diversa. Lo capirete subito dalla foto che metto qui. (vai fino in fondo alla pagina che si aprirà)

Metto di seguito l'inizio dell'Atto III Scena IV (la scena madre tra Gertrude e Amleto), quella della resa dei conti tra il giovane principe danese e sua madre, così come è stata vista da:



1. KENNETH BRANAGH, HAMLET (1996)


2. LAURENCE OLIVIER, HAMLET (1948)


3. GREGORY DORAN, HAMLET (2009)


(versione tedesca)

4. FRANCO ZEFFIRELLI, HAMLET (1990)
(versione originale inglese: clicca qui)


========

Per leggere approfonditamente di Amleto et alia, rimando all'appassionato e appassionante libro di Nadia Fusini, Di vita si muore, Mondadori, 2010.

*Le traduzioni che seguono sono del prof. Goffredo Raponi (si può leggere per intero la sua traduzione su liber liber, cliccando qui).

[1] Gertrude: Oh, quale azione truce e sanguinosa è mai questa!
Amleto: Un’azione sanguinosa! Quasi così cattiva, buona madre, come quella di assassinare un re
e sposarne il fratello.

[2] Amleto: persino il Cielo avvampa di rossore

[3] Amleto: Ma gli occhi, li avete? Come avete potuto abbandonare i pascoli di questo monte aprico per grufolare in questo immondezzaio? Avete occhi, dico?... Discernimento certo ne avete, ma non fu mai tanto asservito al vaneggiare da non sapere conservare in sé un minimo di facoltà di scelta
di fronte ad un sì chiaro paragone. Qual è stato il demonio che v’ha presa così a mosca cieca?

[4] Il padre di Amleto è morto senza confessione né assoluzione, quindi in peccato (evidentemente, mortale). Ed è costretto a vagare tra l'inferno e il mondo dei vivi, fintantoché non sarà vendicato con la morte - per mano altrui - del fratello suo assassino (sia detto tra noi, strano modo di redimere la propria anima).

martedì 15 novembre 2011

Fiori che passano inosservati nei quadri famosi


 
              Guardate questi tre particolari. Sono tratti da un grande dipinto che è possibile vedere ravvicinato grazie al sito haltadefinizione.com. 


Si tratta dei fiori bianchi, viola e blu contenuti nella Primavera botticelliana.

Li ho recuperati per la loro discreta bellezza.


Un articolo di Rosanna Morace sulla Compagnia delle Poete

photo 2011©Dino Ignani

Rosanna Morace ha scritto sulla Compagnia delle Poete (cui ho l'onore di appartenere), interpretando les tenants et les aboutissants[1] dello spirito del nostro Gruppo con sensibilità, empatia e grande intelligenza. Grazie.

URTARE, CONTRAFFARE, ENTRARE
ANCORA IN UN INIZIO

La "Compagnia delle poete"
di Rosanna Morace

               Buio. Silenzio. Rumore di tacchi. Silenzio.
Poi, una voce, e un’altra, e un’altra ancora, e l’una si disperde nell’altra con armonia in un ininterrotto filo, l’una diventa l’altra conservando la propria unicità, il proprio timbro, il proprio accento più o meno straniero. Diversi modi di intendere, fare e pronunciare poesia si amalgamano e si integrano con la musica, in una ritrovata dimensione lirica, orale e corale del fatto poetico. La poesia come prima e più primitiva forma di comunicazione, al pari dell’immagine. Poesia semplice, comunicativa, istantanea, fatta di immagini che emergono con forza dal magma di suoni e voci. Poesia scritta per essere detta, e detta da colei che l’ha scritta.
 [Continua a leggere]

________________
[1] Gli annessi e i connessi, i perché e i per come...

lunedì 31 ottobre 2011

La città di Saint-Cloud come location (e non solo) di film

Quel che segue sono le annotazioni da me prese durante la visita guidata alla mostra clodoaldiana:


Le Cinéma à Saint-Cloud. Le rêve et l'industrie 
(Musée des Avelines, 6-10-201129.01.2012)

Aggiungi didascalia
Il museo delle Avelines  nasce come residenza privata che  un facoltoso farmacista e collezionista, Alfred Daniel Brunet si fa costruire nel 1935. Lo stile che l'architetto Mourot segue - per l'esterno - è quello  (falsamente) neoclassico. Personalmente a me fa venire in mente l'edificio a sinistra di questo quadro (un capriccio) di Claude Lorrain:
Il porto con l'mbarco di S. Orsola 
Il nostro collezionista però muore due anni dopo e la vedova vende villa e terreno. Quando la città di Saint-Cloud acquista  la villa, quest'ultima cade a pezzi e il comune la concede in affitto per girarvi dei film.


Questi i film girati nella villa:


1) Tout feu, tout flamme di Jean-Paul Rappeneau (1981)
commento di Isabelle Adjani sul film (clicca qui)
2) La Belle Captive di Alain Robbe-Grillet (1983) - film girato in 20 giorni e - come si dice in francese - en doublage (come si usa fare in Italia) e non in presa diretta, il che contribuisce a dare un'atmosfera artificiale (voluta) nel film. Con Daniel Mesguich (gli italiani ricorderanno un suo Napoleone), oggi Direttore del Conservatorio di Arte Drammatica, a Parigi.


3) L'amour par terre di Jacques Rivette (1984), il quale inventava la storia del film giorno dopo giorno.



Si vede bene l'interno della casa e anche qualche esterno del piccolo parco.

Sempre a Saint-Cloud, benché NON all'interno dell'attuale Musée des Avelines, sono stati girati i seguenti film:

ZÉRO DE CONDUITE di Jean Vigo (nel cuore del Village)

LE GRAND RESTAURANT (?!?)
LE FOU DU LABO (près de la Passerelle)
UN ÉLÉPHANT, ÇA TROMPE ÉNORMÉMENT (Bureaux de la Colline, rue  Maurice Ravel)

TENDRE POULET  (Trois Pierrots-Val d'Or)

MORT D'UN POURRI (place Magenta)


VATEL (dans les Allées du Parc de Saint-Cloud)


HOMMAGE AUX JUSTES DE FRANCE (Village, près de l'hôpital)
(PAS DE VIDÉO)
LES LIENS DU SANG (parc de Saint-Cloud)


POLA X (quartiere Coteaux)


MEMORY LANE (Parc de Saint-Cloud)


Per non parlare del film di animazione Renaissance (per davvero in bianco e nero, senza grigi) e dei laboratori LTS di Saint-Cloud.
Grazie alla guida di domenica scorsa.






domenica 23 ottobre 2011

Atelier del racconto on line (racconti a partire da quadri)


Due racconti miei pubblicati anni fa sulla rivista ATELIER DEL RACCONTO (p. 10-121)  sono ora anche  on line.

I racconti erano 4 (on line ne troverete solo 2), tutti ispirati a quadri. Fanno parte di una piccola raccolta dal titolo  Donne alla finestra.


1. Fruscio d'acque. Medioevo futuro: 

J. E. Millais, Marianna

2. Quella volta:
S. Dalì, Ragazza alla finestra



mercoledì 31 agosto 2011

Si va in scena, fuori il copione!

 
una scena a Ferrara (foto di Dino Ignani©2011)

La sera del 1° ottobre 2011 la Compagnia delle Poete  - alla quale mi onoro di appartenere - si  produrrà in uno spettacolo di poesie e musica nell'ambito del Festival Internazionale di Ferrara al teatro Sala Estense (piazza del Municipio).

Siete tutti invitati, o voi che leggete

La foto è di Sien ed è prelevata da qui

 Qui (clicca qui) trovate il copione con tutte le poesie, le musiche e le scene. Il libretto, insomma.
Un esempio di spettacolo della Compagnia delle Poete






lunedì 22 agosto 2011

L'ordine del disordine in un quadro: quegli oggetti sparsi sul pavimento

William Mulready Scegliendo l'abito da sposa (1845)
Quando mi trovo davanti a dei quadri, in genere è per motivi di studio. E mentre cerco di analizzare il soggetto del dipinto, inferendone il messaggio, annotando i particolari stilistici, ecco che, di fronte a certi elementi che a rigore non rientrano nella mia ricerca... rimango incantata, non so perché.

Gerolamo Induno, La lettera dal campo (1859)
Uno degli elementi che mi fa dimenticare il reale motivo del mio interessamento al quadro è la presenza di oggetti disseminati a terra.  La prima volta mi è capitato con un quadro fiammingo (il penultimo che ho qui postato). 
Sì, perché se c'è una cosa che salta agli occhi guardando i dipinti fiamminghi è il loro estremo rigore, il loro ordine asciutto quasi metafisico (penso a certi interni di de Hooch). Sicché incontrarne di simili, da un lato mi lascia perplessa. E dall'altro mi mette allegria.
Jah H. Steen La gioviale famiglia (1668)


C'è da chiedersi che razza di garzoni di bottega, di massaie o di governanti ci fossero all'epoca: non vi pare esagerato gettare a terra cucchiai, padellami vari, forbici o rudimentali ferri da stiro, lasciare un cavolo su uno sgabello?

Quiringh Gerrtsz van Brekelenkam, La sartoria (1661)
E non è questione di classe sociale qui: nella bottega del sarto è tutto ben curato (pavimento escluso): le clienti e persino il sarto, tutto in ordine; i borghesi di campagna del quadro di Induno non sono poveracci. Eppure.

Nelle case dei poveri non v'è disordine, neppure nei quadri dei fratelli Le Nain (a parte un mestolo): ovunque compostezza.
(Antoine ou Louis) Le Nain, Famiglia di contadini (1642?).
Povertà esige rigore e rigore esige ordine. Al massimo, disordine può arrecarlo la presenza di animali domestici: gatti, galline (già!), cani (incredibile come cambino le razze dei cani nei secoli).

A me resta il divertimento di perdermi in pensieri oziosi e piacevoli. Credere per un attimo che anche l'inconsueto abbia un suo sottile senso che non riuscirò a scoprire.

E che mi fa compagnia, come quel quadro di van Brekelenkam che vidi ad Amsterdam ormai 2 anni fa. 

giovedì 7 luglio 2011

POETI CHE PARLANO DI POESIA (Ungaretti, Montale, Caproni, Spaziani e Bellezza)




Perché si fa poesia? Giuseppe Ungaretti racconta dove e come ha scritto la prima raccolta di poesia.
A volte è un lavoro lungo e a volte è un lavoro che si fa in pochi momenti.
A volte [le poesie] non sono mai a posto, si seguono con  l'orecchio [...] l'orecchio va dietro al significato, va dietro al suono
______________



________________

I due poeti amati da Ungaretti: Leopardi e Mallarmé.
La poesia è poesia quando porta in sé un segreto.


_________________

Eugenio Montale:
La poesia diventa sempre più prosastica... ma credo che rimarrà sempre una distinzione. La poesia ha bisogno di una certà verticalità della parola.


______________

Giorgio Caproni:

Credo che non lo sappia dire nessuno che cos'è la poesia. [...] Ricerca della mia identità. Penso che il poeta sia un po' come il minatore finché trova un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli uomini. Scopre gli altri in se stesso.
________________
Maria Luisa Spaziani racconta come vive un poeta:
La vita da poeta non esiste. Esistono i poeti che  vivono.
Dario Bellezza:

I poeti vivono come tutti gli altri. [...] Andare a fare la spesa, mangiare o scrivere una poesia è la stessa cosa. Se uno è un vero poeta. Poi, se uno deve fare uno sforzo per esserlo, è inutile che lo fa. [...] Tutti quelli che scrivono poesie non è che sono poeti. [...] Come diceva Cristo: molti sono i chiamati e pochi gli eletti




:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

domenica 12 giugno 2011

Lavorare un personaggio (a teatro)

TEATRO AMBRA JOVINELLI appartenuto alla famiglia di mio marito
interno dell'attuale teatro Jovinelli

Solo di recente, da quando pratico il teatro, in qualità di attrice, mi sono resa conto che esistono 2 modi di «lavorare» un personaggio. Un personaggio che non abbia nulla in comune con noi stessi, voglio dire.

Faccio un esempio personalissimo: dopo mesi di preparazione, domenica 19 e lunedì 20 giugno vado in scena al teatro ECLA di Saint-Cloud con un personaggio importante, quello di una madre.

La mia è une mère abusive, si dice in francese; una madre scorretta, esigente, colpevolizzante, che usa il suo potere sulla figlia, la castra, la domina, vuole che faccia quel che lei vuole. 
Per esempio che diventi bella (quando la poverina non lo è affatto e/o non è interessata alla cosa). 
Una madre che vorrebbe nella figlia una replica di sé. 
Insomma, avete capito il tipo.

Depardieu (metodo Stanislavskij)
Ruolo molto interessante e quanto mai lontano dalla mia persona (sono una madre cool, non avendo ancora  rotto il legame con l'adolescenza, tendo a immedesimarmi nei sentimenti del figlio).
Quanto mai lontano ancor di più, dalla mia di madre, che è stata (ed è) agli antipodi.

E dunque, come recitare tale ruolo? 
Come poter essere una convincente madre «abusiva» che pretende di accamparsi nella vita di una figlia a suo dire banale?

Gilles, il regista dello spettacolo, mi aveva dato due possibilità: o ispirarmi a una persona di mia conoscenza (me, mia madre, una madre simile) oppure pensare: Se io fossi una madre del genere, come sarei? (il famoso metodo Stanislavskij). 

Auteuil (avvicina a sé i personaggi)
Scartata la prima opzione, per i motivi che ho detto sopra, non credo di essere riuscita pienamente a mettere in opera la seconda. Non lo volevo. Sì, certo quando sono in scena ricreo il flusso interiore del mio personaggio, però...

Sennonché, ho trovato una terza via: avvicinare il personaggio alla mia persona.
Pur avendo un testo terribile, in cui la madre non fa di certo una bella figura, l'intonazione che ho cercato di dare è stato quello di una madre sinceramente disperata per l'avvilimento fisico e spirituale della figlia.
Una madre che sbaglia pensando di fare bene, di volere il meglio per la figlia, perché questa sua deludente e sconfortante figlia, lei, la ama.

Il mio pezzo aveva per titolo La mère abusive. Ora invece si chiama La mère lumineuse.
Insomma, non tutto è scontato. Neppure sul palcoscenico.