giovedì 27 luglio 2023

Umano troppo umano. Mostra iperrealismo scultoreo Roma Palazzo Bonaparte 2023


Vero troppo vero? Parafrasando il titolo del libro di Nietzsche, il vero viene utilizzato nell'arte iperrealistica spesso sotto forma scultorea, ma anche pittorica (cfr. Marco Condrò).

È un'arte apparentemente modernissima, nata ufficialmente negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, in netta contrappozione all'arte astratta. Si diffonde immediatamente anche in Europa. 

Nel 2003 Roma aveva ospitato una carrellata di 100 dipinti iperrealisti al Chiostro del Bramante. Ora torna, sempre a Roma, ma con sculture e nessun dipinto, a Palazzo Bonaparte (Piazza Venezia), quello stesso in cui ha trionfato la mostra dedicata ai Van Gogh di Otterlo, lo scorso inverno.

Non c'è un'unica linea: ci sono artisti che  - come George Segal - lasciano i loro lavori volutamente grezzi, chi ricorre al bronzo, chi invece utilizza il silicone per dare una parvenza quanto più vera della pelle umana (con annessi peli).





G. Segal

(questo però è Rodin)


Ecco qualche immagine della mostra da me visitata quest'oggi. Per i nomi degli autori, lascio cercare a voi.

N.B. Se cliccate sulle foto, si aprono in grande in un'altra finestra.

1. L'ABBRACCIO DI UN UOMO E UNA DONNA, VOLTO DI LEI, VOLTO DI LUI





 
 IL PIEDE, LE PIEGHE DEL CORPO


2. ANDY WARHOL

3. DALLA BANANA NASCE NOVELLA VENERE, LA CELEBRE E CRITICATISSIMA BANANA DI CATTELAN







4. IL CADAVERE DI UN UOMO DECAPITATO mi fa pensare al cadavere del Radeau de la Méduse di Géricault, ma anche e soprattutto al Fauno Barberini prima del restauro








5. LE DUE ETÀ ESTREME: LA VECCHIA SIGNORA E IL NEONATO. Chi non penserebbe alle Tre età di Klimt?




6. UNA BARBONA, UNA POETESSA? LO SGUARDO PERSO NEL VUOTO DELL'INFINITO SÉ




7. BAMBINA BARBUTA DA LONTANO








8. DONNA NUDA IN BRONZO


9. DONNA PIEGATA SU DI SÉ La più bella opera in mostra, almeno per me, è questa di Sam Jinks, realizzata con silicone, pigmento, resina e capelli umani. 

Questo non è un corpo, recita in sottofondo tutta la mostra, come la pipa di Magritte non era una pipa e la sedia di Kossuth non era una sedia. Qui si parla di un universo altro che viene rappresentato, denunciato, sbattuto in faccia con piglio eccessivamente realistico, ma per dire non già l'accuratezza della tecnica, bensì la profondità, la bellezza e la stortura umane. 






10. L'HANNO LASCIATA SOLA


11. NOI DUE ORNITOFOBE... CATTELAN, TACCITUA



12. L'UOMO SOLO E DISPERATO, PENSO AL GALATA MORENTE






13. L'UOMO CHE SEMBRA USCIRE DALLE VISCERE DELLA TERRA E FORSE È SOLO RIGURGITATO DAL PASSATO


L'opera meno riuscita,  meno interessante è per me Jonathan del duo Glaser-Kunz. Il manichino dal volto espressivo risponde al cellulare in tre inglese, italiano e francese. Vi lascio il video youtube:


Buona visita.
Jacqueline Spaccini 
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Roma, MOSTRA SEMBRA VIVO PALAZZO BONAPARTE, visitata il 27/07/2023 costo biglietto 16 euro (15 se si ha l'abbonamento ATAC). Ore 11:00-20:00


mercoledì 12 luglio 2023

Matrimoni alla fiorentina. La vita delle donne in famiglia nella Firenze rinascimentale

 



Com'era la vita delle donne nella Firenze del Rinascimento? Uguale o diversa da quella delle loro consorelle veneziane o genovesi?

Per saperlo, occorre consultare le fonti. Quali? A parte gli atti notarili che suggellano non solo il matrimonio, ma anche le promesse di matrimonio (c'erano già i promessi sposi), una sorta di solenne giuramento, altre fonti storiche attendibili sono gli scritti domestici. Essi vanno dalle Ricordanze (in cui si annotavano i principali eventi familiari) ai memoriali, quando non si tratta, addirittura, di genealogie commentate. È evidente che non si parla di matrimoni tra povera gente; le famiglie di cui si possono apprendere gli eventi familiari, più o meno quotidiani, saranno quelle che appartengono all'élite politica e sociale della città.

La vita delle mogli venete e liguri summenzionate (che non è oggetto di argomento qui) era comunque migliore: l'azione di queste donne era più intraprendente, comunque meno «diretta» dal controllo maritale.

Prima dei Medici (terzo decennio del XV secolo), la città-stato di Firenze - si intenda qui quello che viene definito «il popolo grasso» ovvero la ricca borghesia -  si dava, fin dal XII secolo, di volta in volta un signore cui prestare fedeltà. Almeno fintantoché non se ne aveva abbastanza per cacciarlo  sprezzantemente dalla città. Era così stato il caso di Carlo di Calabria (1325-1328) e poi di Gualtieri di Brienne (1342-1343), alias il duca di Atene. Ci si stancava presto.


Gautier VI de Brienne


Non essendo principi né re, i ricchi borghesi amavano non solo raccontarsi negli scritti familiari ma anche farsi rappresentare. 

Seppure il secolo d'oro del ritratto borghese appartenga di diritto alla riformata Olanda del XVII secolo, si può affermare che fin dal XV secolo i fiorentini fanno capolino (è il caso di dire), insomma appaiono nei dipinti della loro epoca. Parliamo di ricchi mercanti così come degli artisti stessi. Oltre ai singoli ritratti, si pensi a Cosimo il Vecchio dipinto dal giovane Pontormo nel 1518, altre immagini coeve compaiono nelle opere d'arte. 


Cosimo il Vecchio

A dimostrazione, si vada a Palazzo Medici Riccardi. Ci si ponga dinanzi al Corteo dei Magi l'affresco della cappella Medici, voluta proprio da Cosimo il Vecchio e commissionato a Benozzo Gozzoli (1459-1462) nel bellissimo palazzo di famiglia eretto dall'architetto Michelozzo. 




Ufficialmente abbiamo i Magi, ma nel corteo ci stanno i Medici. Tutti: Cosimo, Piero, Giovanni, Lorenzo e persino il figlio illegittimo Carlo.


                                                                 Lorenzo

                                                             Giovanni e Carlo


                                                                   Piero


Cosimo

Per le famiglie di cui si ha traccia, dunque, si è detto. Sono quelle ricche, quelle che appartengono all'élite politica.

Ma le donne?
L'autrice del libro che è alla base di questa riflessione è chiara: persino i resoconti sono scritti da penne maschili. Le rare volte in cui a scrivere sono donne colte, costoro non descrivono il loro matrimonio, bensì quello delle loro figlie. E comunque non si tratta mai di raccontare COME viene vissuta questa svolta della vita.
Di che si tratta allora? 
Di ciò che avviene prima, durante e dopo la cerimonia nuziale. E soprattutto delle responsabilità muliebri durante e dopo il matrimonio (in caso di vedovanza). Ma procediamo per ordine.



Prima nota abbastanza interessante: i matrimoni erano per lo più civili. Siamo prima della riforma cattolica del Concilio di Trento (riforma del matrimonio1563), in occasione del quale la Chiesa sancirà il matrimonio come cerimonia religiosa da officiare davanti a un sacerdote e alla presenza di testimoni. 

Matrimonio o concubinato?

Matrimonio, certo. Ma se un fiorentino doveva trasferirsi per lavoro, espatriare (si fa per dire, l'espatrio poteva essere anche di poco più di un centinaio di km, per esempio, nella città di Perugia), allora era «costretto» a optare per il concubinato (a meno che non trovasse una fiorentina con la quale metter su famiglia in terra straniera). 

Questo perché fin dal XIV secolo, le consuetudini municipali incoraggiavano l'endogamia cittadina, anzi addirittura di quartiere, di «gonfalone»: sposare una «straniera» aveva come conseguenza quella di far perdere al mercante fiorentino expat i suoi diritti di cittadinanza. 

                            Bernardino Licinio, Ritratto di famiglia, 1524, Londra, coll. reale


Tuttavia, vivere una relazione more uxorio senza essere sposati portava una conseguenza spesso ineluttabile: i figli. Illegittimi. Alcuni riusciranno a essere legittimati, ma solo se il loro augusto padre non avrà figli legittimi da una consorte fiorentina. Si parla ovviamente di figli maschi. Poi ci sono i casi eccezionali di figli maschi illegittimi senza concorrenza e che resteranno tali, quale è il caso dell'architetto e intellettuale Leon Battista Alberti.

Suo padre Lorenzo, esiliato a Genova, sposò dopo la sua nascita una compatriota dalla quale non ebbe discendenza. Finì per stabilirsi a Venezia, ma non legittimò mai Leon Battista, apparentemente per proteggerlo dall'ostilità del clan Alberti (che comunque l'architetto cercherà più tardi di ingraziarsi).



Presenza di dote, assenza di dote.

Chi ha una figlia da sposare, per la quale dovrebbe presentare una dote che non ha, la farà diventare monaca (per quanto, anche per entrare in un monastero occorre una dote, se si vuol godere di una certa posizione). 


 Jan van Eyck,  Ritratto dei coniugi Arnolfini
1434, Londra, National Gallery
congiungimento delle mani


Va da sé che nel caso di matrimonio tra poveri, la dote (intesa come ) non esiste. Il matrimonio avviene davanti a un sacerdote e alla presenza di testimoni (inutile il notaio), il rito consiste nel congiungimento delle mani (le palme delle mani), dando luogo al verbo «impalmare», nel senso di «sposare», magari passandosi una mela, del vino o anche un anello.




Ma qual è l'importanza della dote? Ebbene, la registrazione della dote portata e ricevuta era la prova della validità del matrimonio stesso. L'assenza di tale dote (in caso di controversia) avrebbe destituito il connubio di ogni fondamento, relegandolo a mera relazione, convivenza in cui la moglie sarebbe stata degradata al ruolo di amante se non di prostituta, soprattutto se il matrimonio si fosse consumato nella casa della donna. Infatti, uno dei riti del matrimonio era il trasferimento della sposa dalla casa paterna a quella maritale.


La dote come investimento di capitali.

Poniamo che un padre pensi anzitempo al matrimonio della propria figliola. Prepara la dote.

Vediamo il caso di Francesco di Tommaso Giovanni, di professione mercante di seta che tutto annota nelle sue Ricordanze (siamo a metà del XV secolo).

Sua figlia Nanna (Giovanna) ha 7 anni.  Che cosa fa? Nel 1433 deposita per lei e per la sorella, ancor più piccina, Maria Anna, 143 fiorini. 
Dove? Presso la Banca delle ragazze da maritare, il Mons puellarum maritandarum.

Quei 143 fiorini costituiscono un buono fruttifero "vincolato". Esso deve maturare per undici anni per Giovanna/Nanna e quindici per Maria Anna che ha solo 3 anni. Al compimento del 18esimo anno, la dote sarà definitivamente costituita e di molto accresciuta, grazie agli interessi. 

Dote finale: Nanna riceverà 504 fiorini derivanti dal Monte delle doti e 500 in contanti e corredo per un totale di 1000 fiorini d'oro. Una dote ragguardevole.

                                 Jacopo del Sellaio, Banchetto di Assuero, 1490, Firenze, Uffizi

                     Agostino Ciampelli, Banchetto di Assuero, 1590, Firenze, Palazzo Tornabuoni


E se Nanna fosse morta prima di toccare i diciotto anni? Il padre avrebbe recuperato la somma (ovviamente perdendo gli interessi). Proprio come oggi, quando investiamo in buoni dello Stato. E se avesse optato per il convento? Allora la dote sarebbe stata incamerata dal convento.

Il nostro Francesco ebbe sei maschi e cinque femmine. Dotò tutte le sue figlie (tranne una, entrata in monastero a 9 anni) di una dote capitalizzata. 

L'elemosina in convento

Perché le fanciulle di buona famiglia per essere ammesse in convento debbono esser provviste  anche loro - di piccola dote. 
Quando Francesco di Tommaso Giovanni fece entrare la sua piccola Gostanza (sic!) in convento, all'età di 9 anni, la «dote», qui detta elemosina, ammontava a 100 fiorini; essa era accompagnata dal corredo (letto, cassone, biancheria, lenzuola etc.) del valore di 30 fiorini (in totale, l'11% di quanto avrebbe ricevuto il marito di sua sorella). 

Nel corso dello stesso anno, il 1446, Nanna andava promessa sposa, preceduta dalla succitata dote di 1000 fiorini (non ancora maturata),  con un (altrettanto promesso) corredo al seguito di 150 fiorini.

Gostanza vivrà fino alla morte tra le Clarisse del suo monastero di Monticelli, col nome di suor Angelica. Nanna resterà sposata fino al 1450, metterà al mondo 3 figli maschi e morirà di peste insieme col primo figlio in quell'anno, all'età di 24 anni. Suor Angelica morirà nel 1509, a 72 anni, per così dire di vecchiaia (nel convento la peste non entrerà).

Le nozze

Contratto stipulato tra due famiglie, per motivi di prestigio sociale, allenza politica e interesse economico, spesso con l'intervento di un «mezzano». Da sempre e per molti secoli a venire, il matrimonio della gente che conta si è deciso in questo modo dal pater familias. Almeno per quanto riguarda la sorte futura delle fanciulle. Spesso i maschi riuscivano a ottenere di imporre la loro volontà ai padri. Quanto alle figlie, costoro non avevano voce in capitolo, tranne in rarissimi casi.

Come ancor oggi avviene (almeno ai tempi miei è stato così), prima delle nozze religiose in chiesa, c'è il cosiddetto giuramento, la promessa di matrimonio davanti al parroco, 90 giorni prima della cerimonia.
Durante il Rinascimento, questo avveniva sul sagrato di una chiesa, senza la presenza della nubenda.

Grazie ai documenti dell'Archivio di Stato di Firenze, l'autrice del libro oggetto di questo articolo, Christiane Klapish-Zuber, ci descrive il matrimonio di un giovane Medici, Francesco di Giuliano di Averardo detto Bicci, attraverso le parole dello stesso. Ma ci interessa la sposa.

Nell'agosto del 1432, si è svolto il radunamento per la promessa. Il notaio ha redatto l'atto di matrimonio con tutte le promesse del caso: dote e sanzioni in caso di mancato o parziale rispetto dell'ammontare della somma all'atto delle nozze vere e proprie. 



    Francesco d'Antonio del Chierico, Matrimonio e dotazione di una ragazza..., 
    fine XV sec., Firenze, S. Martino del Vescovo (oratorio)

                               


Francesco racconta che il matrimonio si svolge nel palazzo del nonno, quello edificato dal Michelozzo, e se il giorno della promessa la sposa ha ricevuto un «forzierino» con collane di perle e oggetti d'argento, in quello delle nozze riceve dalle donne Medici diciassette anelli, tessuti preziosi, un testicolo di muschio (un ingrediente "base" per creare profumi). Gli anelli poi resteranno in famiglia, perché sarà dono di nozze per le figlie degli sposi, quando verrà il momento.

            Sandro Botticelli, banchetto nuziale 5a giornata Storia di Nastagio degli Onesti, 
          1483, Firenze, Palazzo Pucci


Le pietanze sono moltre, ma il clou del banchetto di nozze consiste in cinque giovenche innaffiate da duecentoventi fiaschi di Trebbiano.

Ciò detto, Francesco non menziona mai sacerdote, né rito religioso, né benedizioni di sorta: il matrimonio è un contratto e come tale un affare civile.

N.B. La sposa è Costanza Guicciardini, antenata del ben più noto Francesco.

La vita matrimoniale vera e propria

Durante il Rinascimento fiorentino vigono le norme suntuarie. Che cosa sono? Innanzitutto, la spia che parecchi vivevano nel lusso e, quel che è peggio, lo ostentavano. Di qui una legge, anzi una serie di norme, atte a limitarlo. A dire il vero, per primi ci avevano pensato i Romani (cfr. Lex Oppia), nel 215 a.C. Diciamo che a Firenze, lo sfarzo brilla più che mai, e già dal 1330. Nel 1546, Cosimo I de' Medici arriverà ad emare una legge destinata a regolare l'abbigliamento delle donne e degli uomini di Firenze.

                                    Agnolo Bronzino, Ritratto di Cosimo I de' Medici
                                    1545, Firenze, Uffizi

Le  case erano piene di donne, ma tutto era governato dagli uomini. Lo scopo del matrimonio per una donna (ma anche per un uomo) era  la procreazione, o meglio,  mettere al mondo figli legittimi (oggi, con le nostre lenti moderne, tutto ciò può irritare, ma dobbiamo sempre leggere la storia capendo il periodo storico di cui ci si occupa in primo luogo con gli occhi della gente del tempo) per la prosecuzione del lignaggio familiare, assicurando la discendenza. Diversamente, esisteva sempre il concubinato.

Domenico Ghirlandaio, Natività di Maria,1485-1490, 
Firenze, Cappella Tornabuoni, S. Maria Novella

L'educazione dei figli

L'educazione dei figli dunque era sotto il controllo maritale. A Firenze più che mai. S'è detto che a Venezia e a Genova (ci sono molti studi a tal proposito), l'autonomia delle donne coniugate era assai più larga. A Firenze, anche la ricchezza dei beni portati in dote dalla sposa non veniva gestita dalla donna, neppure quando - divenuta vedova - tornava alla casa paterna. In questi casi, infatti, il suo patrimonio passava nelle mani paterne o fraterne.


Piero Pollaiolo, Ritratto di giovane dama, 1470-72
Milano, Museo Poldi Pezzoli



E comunque la ricchezza delle donne. la dote, non si può né accumulare né accrescere. Può, nella migliore delle ipotesi, restare intonsa; nella peggiore, diminuire oppure svanire. La donna non è giudicata all'altezza di saper gestire questo capitale.



                Bartolomeo Veneto, Beatrice d'Este (in realtà Lucrezia Borgia), 1510, 
                South Bend, Snite Museum of Art, Indiana


Ma allora che ne è degli abiti sontuosi e dei gioielli esibiti, ostentati, nelle raffigurazioni pittoriche?
Esse servono a «onorare» la famiglia che la donna rappresenta. La sua immagine, la sua bellezza, fa di lei un mannequin, ma nel senso più disadorno del termine.

                        Giovanni di Ser Giovanni detto Lo Scheggia, La giustizia di Traiano
                        pannello di un cassone per nozze, 1440, Firenze, coll. Bruschi (coll. privata)


Per conoscere più dappresso l'importanza e il valore del corredo di una sposa fiorentina del Rinascimento, Christiane Klapisch-Zuber, illustra un cassone nuziale dipinto da Giovanni di Ser Giovanni detto Lo Scheggia (fratello di Masaccio), che dipinge (da destra verso sinistra) un episodio della Leggenda Aurea di  Jacopo da Varagine (vescovo e agiografo del XIII secolo): La giustizia di Traiano.


                                             
Lo Scheggia, La giustizia di Traiano (particolare)

                                                   (foto in b/n fondazione Zeri)

Episodio: una vedova ferma il cavallo dell'imperatore Traiano  per chiedere giustizia. Suo figlio è stato ucciso da un cavaliere. L'imperatore sta partendo per la guerra, ma ascolta la donna e le rende giustizia immediatamente. Chi è l'assassino? Il figlio stesso di Traiano che viene consegnato alla vedova in luogo del figlio morto e «riccamente dotata» dall'imperatore. 

Nel dipinto, la vedova è vestita di nero e precede la giumenta e accompagna il figlio dell'imperatore (l'assassino di suo figlio) verso la propria casa, in cui il giovane verrà accolto presumibilmente come figlio acquisito. Il principio di equità è salvo: un figlio per un figlio. Meglio vivo che morto e comunque, ai fini della nostra riflessione, «la dote ricca»,  è il corredo conservato nel cassone dipinto dallo Scheggia.


Lavoravano?

La domanda è provocatoria più che pleonastica.


Francesco del Cossa, 1470, Salone dei Mesi (Marzo), Ferrara, Palazzo Schifanoia
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In genere, il lavoro di una donna sposata nella Firenze del Rinascimento non compariva da nessuna parte. Ciò avrebbe recato disdoro alla famiglia, al marito. Nei vari memoriali, nelle Ricordanze di uomini del tempo, si cita talvolta il lavoro della moglie ma più spesso per denigrarlo (e a quel punto la moglie non è più tale). È il caso di Lippo del Sega, un cambiavalute settantenne che sposa Bernarda, una vedova fiorentina, la quale - dopo la separazione - recupera parte (che il marito scialaquerà) della sua ingente dote (3 case, un terreno e ottanta pettini da tessitore), vendendo i pettini per le vie di Firenze.  Quando la sposa si fa imprenditrice (vendendo per esempio fazzoletti ricamati), la pratica viene quasi sottaciuta e comunque ridimensionata dal marito «memorialista», com'è il caso di Andrea di Tommaso Minerbetti: non sta bene che una donna sposata lavori! È degradante, è segno di declino sociale.

L'educazione  sessuale nei rapporti coniugali

Non abbiamo ovviamente una descrizione particolareggiata (e neppure generalizzata) dell'intimità delle coppie sposate. Però le Ricordanze maritali e gli elementi iconografici dell'epoca possono aiutare ad acquisire qualche elemento. 
Giovanni di Pagolo Morelli nella sua cronaca privata (di fine XIV-inizio XV secolo) raccomanda ai figli maschi di essere «temperati» con le loro mogli, al fine di procreare figli maschi (sarà stata la credenza del tempo) sani e forti. Niente passione, nessuna fantasia.

Questi uomini che raccontano la loro vita, spesso plurimatrimoniale, mettono al mondo una gran quantità di figli, uno all'anno, Questi però spessissimo non riescono a superare il diciassettesimo anno di vita e spesso nemmeno arrivano al battesimo. Conseguenza? Morte di parto (quando non è di peste) della sposa di turno e poco dopo il vedovo si risposa.

Ci vengono dati 2 esempi:
quello del mercante di seta Goro Dati e quello del patrizio Andrea di Tommaso Minerbetti.
Il primo avrà: 25 figli + 1 illegittimo, 4 mogli e una concubina tartara. Sopravvissuti: 8 (dell'illegittimo nulla si sa). 2 soli sposati.
Il secondo avrà soltanto 14 figli e 3 mogli. Sopravvissuti: 11. 6 in convento. 5 sposati.

Le prime tre mogli di Goro muoiono di parto o di malattia. L'ultima gli sopravvive e si risposerà.
Su 7 matrimoni 5 vengono interrotti dalla morte della sposa (in genere a causa di un parto o di un aborto).

Avere figli sani e maschi. I deschi da parto 

Offrire o ricevere un desco da parto era un dono simbolico per lodare un parto di successo oppure per propiziarlo. È un piatto o vassoio concepito a Firenze e a Siena.


                           Masaccio, Desco da parto, 1426, Berlino


                                          Fra' Bartolomeo di Fruosino, 1420

In alternativa, per rammentare il piacevoli doveri coniugali si poteva optare per qualcosa di più suggestivo, di più come dire «stimolante», come fece Guidobaldo II della Rovere, signore di Urbino, commissionando a Tiziano Vecellio la celeberrima Venere di Urbino che probabilmente campeggiava nella stanza degli sposi, davanti al talamo nuziale.

                                        Tiziano, Venere di Urbino, 1538, Firenze, Uffizi


Tutte così sottomesse?



Baccio Baldini Lotta tra donne e demoni,
la lotta delle brache, 1460

                                  Baccio Baldini, Lotta per le brache, incisione su rame, 
                                              1465, Monaco di Baviera

No. Prova ne è che sia pure sotto forma satirica, quando non sarcastica, incisioni varie circolano per l'Europa, da Nord a Sud, con il titolo La lotta per le brache, dove l'indumento maschile riassume metonimicamente l'uomo. E proprio a Firenze Baccio Baldini si preoccupa di restituire questo gruppo di donne che si contendono (o contendono ai demoni) i pantaloni simboli di comando (ancora oggi si può sentir dire: Chi porta i pantaloni in casa?, col significato di <in casa, chi comanda?>). Il tema di Baccio verrà replicato in forme più moderne un po' ovunque in Europa. E comunque sta a dimostrare che un po' di irrequietezza da parte delle donne - e un po' di inquietudine da parte degli uomini  - c'era.

Quando finisce un amore

Due erano i motivi della fine di un matrimonio: la morte di uno dei due coniugi oppure una separazione più o meno consensuale (leggi: l'abbandono del tetto coniugale da parte della moglie).

Così è per il Lippo del Sega di cui sopra, quello con la moglie che va a rivendere i suoi pettini in giro per Firenze: lui non registra la separazione, lei sì, dal notaio. Il divortium, la separazione dei corpi era possibile. L'annullamento del matrimonio pressoché impossibile.

Risposarsi per una vedova era lungo, complicato e difficile. Intanto, doveva recuperare la sua dote, cosa non scontata e comunque non rapida. E poi doveva trovare un nuovo marito  che la accogliesse. In genere, le statistiche archivistiche indicano che i Fiorentini si risposavano preferibilmente con donne giovani e nubili. Quindi la cosa poteva essere un po' più difficile per le vedove di Firenze. E comunque in caso di secondo matrimonio, la vedova non aveva diritto a una cerimonia pubblica. Tutto doveva svolgersi nel modo più discreto possibile.

Maestro di Bedford (attr.), Christine de Pizan istruisce 
suo figlio, 1413 ca.



Uno dei compiti più improbi per una donna che restava vedova per scelta o per necessità era quella di provvedere a mantenere il patrimonio familiare. Non era assolutamente cosa facile, tanto più se era stata tenuta in disparte dagli affari domestici ed economici. 
Lo dice Christine de Pisan  (o Pizan), veneziana di nascita e francese di adozione, nel suo memorabile Livre de la mutation de Fortune: vedova a 25 anni con madre e 3 figli a carico, padre ugualmente morto, senza protettori, deve imparare e in fretta a gestire gli affari domestici e patrimoniali della sua famiglia.

Lo farà bene e scriverà tantissimo, scegliendo la vita monastica dopo i cinquant'anni. Muore nel monastero di Poissy (a 30 km da Parigi), presumibilmente nel 1430, all'età di 66 anni.

Chi vuol più bene ai propri figli, il papà o la mamma? 

Anzi, quale affetto ha il valore più grande? Manco a dirlo: l'amore paterno, l'uomo è perfetto e la donna non lo è, alcune madri vedove abbandonano i loro figli per risposarsi.

Tale disputa è al centro di  un romanzo iniziato e non portato da termine di Alessandro Gherardi, l'architetto collega e antagonista del Brunelleschi, Il paradiso degli Alberti.




Si fronteggiano Alessandro di Ser Lamberto di Neri Cambi e una certa Cosa (Cosima?), senza cognome.

Dopo la perorazione maschile a favore dei padri, Cosa porta come esempio una gallina che aveva poco prima difeso i suoi pulcini dall'attacco di un nibbio. E sferra un ultimo attacco citando Lucio Sergio Catilina che non aveva esitato a sacrificare, uccidendolo, il figlio di primo letto che la futura mogle non sopportava. Quale madre avrebbe agito così?

Parla tanto, Cosa. Ma alla fine il Gherardi si mantiene neutrale (e poi il romanzo è incompiuto).














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Le informazioni sopra riportate sono tratte (a volte parafrasate) dal testo di seguito citato.

Fonte: Christiane Klapish-Zuber, Matrimoni rinascimentali. Donne e vita famigliare a Firenze (secc. XIV-XV), Roma, Viella libreria editrice, 2020, 201 p. Traduzione  di Anna Bellavitis.

Titolo originale: Mariages à la florentine. Femmes et vie de famille à Florence (XIVe et XVe siècles), Paris, Seuil/Gallimard, 2020