lunedì 23 febbraio 2009

La luna e Magritte

René Magritte (1898-1967), belga, l’uomo con la bombetta, dal volto occultato ora da una colomba ora da una mela verde, è anche l’autore di due dipinti in cui convoca la luna, protagonista dei seguenti quadri: Le Maître d’école [“Il maestro” (1954, olio su tela, 81 x 60 cm, Ginevra, collezione privata)] e La Robe de soirée [“L’abito da sera” (1954, olio su tela, 80 x 60 cm, Bruxelles, collezione privata)].

La sua è una luna a falce, rivolta ora a ponente ora a levante, bianchissima nella sua esiguità, su uno sfondo privo di stelle, di un blu pervinca. Essa è posta immediatamente sopra il capo di figure umane (l’uomo con la bombetta nel Maître d’école, una giovane donna nella Robe de soirée), che volgono le spalle allo spettatore del quadro. Perché? Qual è il significato di questa luna presente nelle due tele?

Magritte ha sempre pensato che la pittura dovesse essere poesia, e che la poesia chiama il mistero. Ma mistero di che? E perché la luna dovrebbe essere simbolo del mistero secondo Magritte? Intanto, i personaggi, volgendo le spalle a noi che guardiamo il rettangolo dipinto, non si presentano frontalmente, non ci offrono il loro volto e, con esso, la possibile decrittazione dei loro pensieri. D’altronde, spesso la posizione frontale “magrittiana” non apporta nulla allo spettatore, dal momento che il pittore ne copre il volto con oggetti vari (colomba, mela, lenzuolo, luce, etc.)… I motivi sono molteplici; ne do due: a) quel che deve interessare colui che si pone dinanzi al quadro non è la figura umana; b) il soggetto della tela deve rimanere misterioso.

E torniamo alla nozione di mistero collegato alla poesia. Dunque, la poesia – in questo caso, pittorica – è mistero, suo scopo è quello di porre enigmi, di renderli visibili senza per questo proporne una soluzione. Gli enigmi non si risolvono (perché non vanno risolti o non possono essere risolti); però, un linguaggio straordinario – quale è quello dell’arte – è in grado di suggerirne la penetrazione. Insomma, la pittura può – e deve – provocare in noi l’interrogazione essenziale del presentimento del mistero: un tableau doit être fulgurant (“un quadro deve essere folgorante”), scriverà Magritte nel 1958. Nel senso che il suo effetto deve essere di una sorpresa accecante agli occhi stessi del suo autore: piuttosto che cercare instancabilmente di scoprire i segreti (della vita, del suo senso non visibile), va suscitata nello spettatore l’intuizione del suo valore nascosto (qui, sulle orme di Heidegger, che pensava il mistero come qualcosa di inerente all’essenza della verità).

Ecco perché egli ci invita ad osservare il paesaggio che stanno contemplando i suoi personaggi (uomini o donne che siano), anch’essi spettatori, della manifestazione del mistero. E che cosa stanno quindi contemplando i suoi personaggi? La luna luminosa nel cielo, limpido e senza stelle (e per ciò stesso metaforico, non reale) al di sotto del quale si stende un paesaggio appena abitato (si intravedono le silhouettes di alcune case, filari di alberi in lontananza, e ciottoli su un suolo desertico in prossimità) in Le Maître d’école; mentre in La Robe de soirée lo sfondo è occupato da una distesa azzurra, d’un tono più chiaro del cielo, cioè un mare placido e senza onde.

Si sa che i titoli di Magritte sono sempre fuorvianti, e anzi apparentemente lontanissimi dal soggetto proposto. Enigmatico resta nella sua incomprensibilità il titolo del Maestro, mentre quello del secondo quadro ci aiuta a comprendere il motivo per il quale la giovane donna ritratta di spalle è nuda. L’abito da sera è quel cielo e quel mare, la luna stessa con la quale la giovane donna ha presumibilmente un appuntamento. E’ un abito meravigliosamente metaforico il suo, che la rende partecipe della comunione con la natura, l’universo; e, in ultima istanza, con la vita.

Magritte, che è stato uno dei principali rappresentanti del Surrealismo, suggerisce allo spettatore che se esiste una chiave in grado di avvicinarci al senso nascosto del mistero (“la chiave dei sogni” è il titolo di un quadro di Magritte), essa è da ricercarsi nell’immaginazione e in quelle associazioni “inattese” che si palesano nell’arte (e nei sogni), definite poeticamente dal pittore stesso la trahison des images (il tradimento delle immagini) al riguardo del suo Ceci n’est pas une pipe (“Questa non è una pipa”, 1928/29). Non è un caso che i titoli di molti quadri magrittiani siano stati dati a partire dal gioco surrealista: una mano che pesca parole scritte su bigliettini che sono stati messi senza ordine logico in un cappello…

La luna accoglie da sempre un valore notturno metaforico (e quindi non solo astronomicamente parlando), in quanto, nell’associazione libera dei significati, ciò che è notturno è legato a ciò che non si vede, e per gli occhi che non vedono, il buio è l’ignoto, il mistero.

Nella pittura di Magritte, la luna è – una volta tanto – elemento non incongruo, più vicina alla Weltanschauung (pre)romantica che surrealista, con la differenza che all’interrogazione leopardiana (Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?) non fa riscontro nella pittura di Magritte alcun anelito di risposta: la sua luna se ne sta lassù, affissa nel suo cielo di cartapesta: non accoglie domande, bensì lo sguardo, che non vediamo, dei personaggi del quadro e il nostro, di spettatori, che nessuno vede.

Ed è bene che sia così.

[ commissionatomi e scritto il 27/03/2001]

venerdì 20 febbraio 2009

Il Caffè Europa di Slavenka Drakulić

Correva l'anno 1997...

L'Est visto da dentro



Slavenka Drakulić. Caffè Europa. Milano, Il Saggiatore, 1997, pp. 185. Traduzione di Emanuela Brock.

Dopo la prova de Il gusto di un uomo, l'ultimo suo romanzo, Slavenka Drakulić torna a una prosa più ibrida, dove il saggio è anche esperienza intima e personale, non priva di attenzioni letterarie.
Torna soprattutto ai temi della ex-Jugoslavia, a spiegare - e a spiegarsi - le ragioni e le contraddizioni che convivono, per motivi storici e non, su quei territori.
E spesso si definisce, lei per prima, "jugoslava" (a questo proposito, è interessante la differenza che lei fa tra identità e nazionalità). Forse è per questo motivo che la Drakulić è più o meno esplicitamente invisa a quella larga parte dell'intelligentsja conservatrice del suo Paese, la Croazia.
Eppure la scrittrice ha parole dure per il comunismo (o socialismo, chiamatelo come volete, ci si intende) di Tito, o meglio, per i guasti che una certa mentalità comunista ha prodotto tra la sua gente. Non risparmia neppure (anzi!) l'attuale governo al potere (all'epoca, l'HDZ, n.d.r.) e , nel capitolo riservato a Tudjman - Un incontro indimenticabile - tira bordate da seppellire un elefante.

Mi meraviglierei se dopo questo libro, Slavenka Drakulić non avesse problemi alla frontiera croata.
In modo molto personale ma cerdo profondamente autentico, partendo dalle insegne dei Caffè o dagli atteggiamenti della sua gente ai posti di frontiera, l'autrice indica perché i cosiddetti ex-Paesi dell'Est anelano a un'Europa Unita cui non appartengono e non apparterranno fintantoché continueranno a sognare di far parte di una Europa che non esiste se non nel loro immaginario (per intenderci: un'Europa che accoglie tutto e non chiede niente in cambio).

Nell'esame di coscienza che coinvolge principalmente la storia di Zagabria ma che non trascura Sofia, Bucarest, Praga, Mosca e Budapest, dando conto dei contrasti esistenti tra l'Istria e il resto della Croazia - lei vi ravvisa possibili motivi di conflitto futuri (personalmente sono più preoccupata per la questione del Cossovo e le istanze autonomistiche del Montenegro) -, la Drakulić mette a nudo le parti più miserevoli della coscienza di un popolo.

E in ogni famiglia, si sa, è proibito lavare i panni sporchi in pubblico.
Nei Paesi cosiddetti evoluti, si dirà che è poco fine.

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pubblicato da Avvenimenti il 10.12.1997

Dolac - il mercato di Zagabria (la foto è mia)

Nota. Undici anni abbondanti dopo: la scrittrice continua a vivere in Svezia, è sempre più impegnata civilmente (clicca qui). Io qualcosa l'avevo azzeccata e qualcosa no (Cossovo sì, Montenegro no).


giovedì 19 febbraio 2009

La Commedia del Diavolo di Balzac

E un giorno Balzac si chiese: Chi mando all'inferno?

di Jacqueline Spaccini


Honoré de Balzac, La Commedia del Diavolo. Faenza, Mobydick, 1997, pp. 168.
Presentazione e traduzione di Stefano Doglio.

Che succede se un artista grandissimo, prolifico e poliedrico, la cui fame di scrittura è comparabile solo alla voracità pantagruelica, decide di partorire un'anti-divina commedia, una commedia dantesca alla rovescia?
Probabilmente, l'opera avrà la stessa sorte riservata alla Commedia del diavolo di Balzac: l'aborto.
Rovistando tra gli "scarti" dello scrittore, Stefano Doglio ha riesumato un lavoro nel quale Balzac non credeva più, tanto da lasciarlo incompiuto. Ma se anche gli scarabocchi di un Mirò sono stati esposti al grande pubblico, perché non fare la stessa cosa in materia di letteratura? E invero, persino i detrattori del genio balzacchiano (tra i quali la sottoscritta) hanno in questo modo la possibilità di stabilire confronti tra il celeberrimo, il noto e l'incunabolo; convenendo un'equazione tra quel che un autore giudica - e non giudica - degno di pubblicazione.
C'è da aggiungere che l'introduzione di Doglio è così colta e accattivante che prende subito il gusto di andarsi a leggere le pagine che seguono.


La comoedia è questa: un giorno il diavolo decide di costruire un teatro nella sua sede infuocata e convoca i dannati per scegliere un testo da rappresentare. Alla stregua di padre Dante, Balzac precipita negli inferi soggetti storicamente poco raccomandabili (Cleopatra, père Lachaise, Mazarino), così come i suoi personali nemici (Victor Cousin, per esempio, volgarizzatore nella metà dell'Ottocento delle teorie platoniche) o i pensatori a lui cordialmente antipatici (Confucio, sant'Agostino e Voltaire).



Sta di fatto che un piccolo dannato - guest star dell'intera vicenda, spalla dell'interprete principale, Satana - liquida tutti i postulanti, mandandone al macero le carte e le velleità, finché, facendosi beffe persino del suo sovrano, non viene promosso demonio sul campo.
Balzac si diverte a ridicolizzare tutti i generi (presentandone un vasto campionario) coi loro geni, spegnendone gli afflati umani o umanistici (o pretesi tali).
Sarà per questo che non volle darle il testo alle stampe? E se non fosse stato altro che una sorta di diario intimo, su cui sputare odi e livori, risentimenti e invidie?

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Pubblicato da Avvenimenti, il 5.03.1997










giovedì 12 febbraio 2009

Le inchieste del commissario Maigret


Georges Simenon Il crocevia delle tre vedove. Milano, Adelphi, 1997 et sgg. Traduzione di Emanuele Muratori.


Credo che questa sia una delle inchieste più note del commissario Maigret: per chi la conosce sarà inutile (ri)leggersi il mio sunto; all'ennesima potenza, esso risulterà fastidioso per chi non l'avesse letto. Mi venga concesso allora di spostare l'interesse dall'intreccio narrativo ad alcune considerazioni di tipo psicoletterario.

Innanzitutto il personaggio. Abbiamo da anni due soli volti che impersonificano il nome Maigret: Jean Gabin e Gino Cervi (stendo un velo pietoso sulle interpretazioni più recenti che ne hanno dato Jean Richard et Bruno Crémer). Chi dei due è più Maigret?

Incolpatemi pure di partigianeria, ma leggetevi i romanzi e vi sfido a non riconoscere Gino Cervi (anche se Simenon gli preferiva Pierre Renoir, fratello del più famoso Jean).

Il Maigret gabiniano è isterico, non burbero; antipatico, non diffidente; del Pernod ha il ghiaccio, non il fuoco che ti scalda le membra. Insomma, il commissario concepito e fatto vivere da Simenon è sanguigno, buono e ingenuo come sa esserlo chi è rotto a tutte le esperienze.
E poi ve lo immaginate Jean Gabin sudaticcio e con rimasugli di croque-madame agli angoli della bocca?


In seconda analisi, il luogo. Inutile farsi illusioni: la Parigi di Maigret non esiste più, neanche a volerla falsificare, neanche a volerla ricreare a Eurodisney... Eppure è la Parigi che ancora oggi sogneremmo di scovare per un attimo, in una via, in un caffè (che fine avranno fatto le uova sode luminiscenti dei banchi di zinco?)...

In terzo e ultimo luogo, lo stile dell'autore: tutto dialoghi, nessuna introspezione psicologica. Dialoghi veri, di quelli che non ci vergogneremmo di leggere ad alta voce (non come quando si pensa: Dio mio, ma chi parla così?). Semplici: domanda-risposta, ipotesi e controipotesi. Sarà che Simenon non era un francese, bensì un belga, chissà?
Brevi dialoghi perché non si è tutti Dostojevskij o Tolstoj o Balzac o Manzoni.

E c'è una bellezza, una compiutezza sopraffina nella brevità, dono saggio e parsimonioso che non a tutti è dato. A volte si vorrebbe che le inchieste di Maigret fossero come certe soap opere americane che non finiscono - loro ahimè - mai. [Jacqueline Spaccini]

Pubblicato da Avvenimenti il 22.01.1997

All'epoca dimenticai di menzionare Andreina Pagnani, nel ruolo della moglie di Jules, la lorenese Signora Maigret (il cui nome di battesimo dovrebbe essere Louise). Splendida.

venerdì 6 febbraio 2009

Io e Matvejevic' : era il 1996




Matvejević/La mia casa è il Mediterraneo

di Jacqueline Spaccini



Il nostro è stato un lungo rincorrersi telefonico e geografico, fra Roma e Zagabria. Avrei voluto che l’incontro avesse luogo davanti al suo mare, lungo le sponde amate, nella parte più italiana della Croazia, cioè nell’isola istroquarnerina di Cres. Avviene invece, quasi in sordina, nel suo appartamento romano. Predrag Matvejević è nato a Mostar (Bosnia) da padre ucraino, e madre croato-bosniaca, ha lungamente vissuto a Zagabria e a Parigi e di recente [1996, n.d.r.] si è trasferito a Roma.

È professore di Letterature Slave del Sud (croato, serbo e sloveno) alla Sapienza; insegna Letteratura comparata alla Sorbona. Romanziere e saggista, promotore di sempre nuove iniziative culturali, è un intellettuale di fama internazionale a tempo pieno. Per la sua dissidenza nei confronti del presidenzialismo tudjimaniano – e, in generale, nei confronti di tutti i regimi totalitaristi – è inviso alle autorità del suo Paese. Davanti ad una bottiglia di birra, nella calura estiva, con un brindisi semplice in lingua croata, ha inizio il nostro “dialogo affettuoso” che si svolge un po’ in italiano, un po’ in francese.

Cosa significa per lei essere croato?

Io sono una tour de Babele. Figlio di un russo e di una croata, cresciuto in compagnia della lingua francese, nutro un sentimento croato, senza il nazionalismo che oggi può connotare il “croatismo”. Non credo però nemmeno nel panslavismo che, alla stregua del pangermanismo e dell’italianismo stesso, vagheggiato dalla mente aberrante di Mussolini, nasconde sempre una matrice fascista. Se posso essere più preciso, sento una solidarietà slava, sento la tragedia dei popoli slavi. Nei miei libri Entre asile et exil (1995, Tra asilo e esilio) e Le monde “ex” (uscirà ad ottobre per i tipi di Garzanti) parlo della gente degna e indegna della cultura russa che ho conosciuto. Distinguerei però tra la solidarietà per gli umiliati e offesi (come le definiva Dostojevski) e l’intolleranza dell’orgoglio e della vanità comunista. La verità del nostro secolo è che i totalitarismi vogliono l’etnìa pura e finiscono per essere responsabili delle purificazioni etniche. E in questo contesto, io mi sento umiliato e offeso. D’altra parte, sono convinto che un intellettuale che decida di restare ad ogni costo in patria si trova a dover scegliere tra l’obbedienza e il silenzio e l’oltraggio e il tradimento. Diversamente, chi si è ribellato a quest’alternativa e – come me – ha scelto di andare via, è costretto a vivere tra asilo e esilio.

Quanto il Matvejević scrittore ha sofferto per le scelte del Matvejević uomo?

Molto. Mi sono reso conto che spesso ho scritto opere perché sentivo il dovere morale di farlo. Ma non sempre ciò è bene. Se non avessi avuto questo imperativo categorico, probabilmente avrei scritto di più e avrei scritto meglio. Lei pensi che in passato, oltre a Sacharov, Havel e Solgenitzin, ho difeso, tra gli altri, anche l’attuale presidente della Repubblica croata, Franjo Tudjiman (hélas!), quando era perseguitato dal regime comunista… Sa però che cosa hanno scritto di me – dopo la sua elezione – gli organi di stampa dell’Hdz (il partito di governo)? Le do qualche esempio: “Predrag Matvejević è un donatore di sangue altrui”, “quando pugnala una persona lo fa con un coltello spuntato”. E queste cose sono state le accuse più pacate! Come vede, molto spesso è l’uomo a soffrire a causa di quel che fa lo scrittore. Eppure, in un percorso di assoluta depressione, mi sono messo a scrivere Breviario Mediterraneo (Hefti, 1988; Garzanti, 1988-1991), che è considerato il mio capolavoro: a tutt’oggi è stato tradotto in undici lingue.

Lei si definisce un mediterraneo. Ma in cosa consiste la “mediterraneità”? E crede poi che i popoli che su questo mare si affacciano, che di questo mare “si nutrono” e che da questo mare attingono la loro forza vitale, ne siano consci?

La mediterraneità è una coscienza assopita e condivisa da pochi. L’Europa che oggi si vuole fare è continentale, priva della sua culla, sottoposta com’è alla forza economica del Nord. Fino a pochissimi anni fa, la parola in questione esisteva per acquit de conscience (sgravio di coscienza). Neppure in Italia, che è uno dei Paesi maggiormente sostenitori della costituzione europea, nessuno menzionò il Mediterraneo, durante l’ultima campagna elettorale, né a destra, né a sinistra. Sembrerebbe quasi che appartenere al Mediterraneo, equivalga a far parte del Terzo Mondo. Ma quel che dico vale anche per la Francia, la Spagna e la Grecia. Certo, nel Mediterraneo ci sono conflitti tragici (l’Algeria), ma pure forze, risorse e culture che non sono assolutamente prese in considerazione dalle politiche di questi Paesi. Non esistono azioni di concerto. Un grande patrimonio è così lasciato a isterilirsi. La “mediterraneità” si acquisisce, non la si eredita. Non corrisponde certo all’idea che ci rimandano i mass-media (yacht ancorati in porti esclusivi, belle donne seminude a prendere il sole su scogli paradisiaci). E’ un rapporto profondo che si ha con il mare stesso, una fierezza, un mode de vie non banalizzato. Un’individualità non condivisa. Il Mediterraneo è sempre simile e diverso a sé stesso. Ci troviamo in questa similitudine e ci “particolarizziamo” in questa diversità. Purtroppo è un’identità dell’essere e non ancora del fare…


Lei si divide tra Roma, Parigi e Zagabria, senza contare i convegni che la vedono impegnata nelle storiche città del “mare nostrum”… Probabilmente i suoi continui spostamenti all’estero non sono altro che un esilio dorato: ma dov’è la sua casa?

Mi capita a volte di risvegliarmi nel cuore della notte e di non sapere dove mi trovo. La mia condizione, vorrei definirla con un termine heideggeriano, Heimatlosigkeit o, alla francese, apatridité. Insomma, una casa non ce l’ho.

AVVENIMENTI
5 settembre 1996

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N.B. Con tutte le volte che ci siamo incontrati, che abbiamo pranzato o cenato oppure preso un tè o un caffè insieme, in Francia come in Italia o in Croazia, non ti ho mai scattato una foto.


lunedì 2 febbraio 2009

Di tutto quanto, che cosa resta?

Premio Grinzane Cavour La Stampa
Dialoghi con Cesare Pavese
Di tutto quanto, cosa resta?

Dicesti: «Sono a casa». Ma poi delle viti, non n’era rimasta alcuna che conoscevi. Ti affannasti, con quel tuo naso da tartufo, quella tua faccia da segugio, a rintracciare gli odori, a seguire le antiche tracce, muovendoti a scatti, sguardo in alto, sguardo in basso, per ritrovare la sintonia. Quella con te stesso fanciullo – che fanciullo per davvero non fosti mai.


Ora non sei più così convinto d’aver fatto bene a prendere la via del ritorno, seguendo il dialetto di quel camionista di Bubbio. E in fondo, a parte la noia, non stavi tanto male ad Oakland. Solo che quello a casa sua non poteva tornare e tu non t’eri ancora rassegnato. Ora fai il gradasso per le vie del paese e dentro tremi, temendo che qualcuno possa vederti qual veramente sei. Hai fatto i soldi (ma li hai fatti sul serio, i soldi? A frigger lardo dietro a un bancone?); ti senti un padreterno. O almeno, così ostenti sulla piazza cittadina. Come ci tieni a dir che sei alto e grosso! Dài, che sotto sotto ti senti un po’ come Edmond Dantès… Ma qui son tutti morti (o quasi) e Nuto ha appeso il clarino nell’armadio della sua casa odorosa di gerani e oleandri…


Lui un mestiere, almeno ce l’ha; tu, neanche sai vivere. Sei andato a cercare la macchia di nocciòli, quella da cui tu sai NON esser nato, ché fossi stato femmina, dall’orecchio della capra di casa avresti visto per la prima volta il mondo. Lasci credere che comprerai casa qui, magari una grande, magari la villa della Mora. Ti piace quando ti dicono l’Americano; mica lo sanno, loro, che te ne stai a Genova. Oppure sì, lo sanno, ma se un compaesano come te, è Americano, sì, certo, pur sempre straniero è, ma tutti si fa miglior figura. Un po’ come si godesse di luce riflessa, come aver fatto fortuna tutti assieme. Essere tutti un poco Americani. E dimenticare il passato.


Che cosa cerchi? Te stesso? Tutto quel peregrinare per cascine… la casa tanto non la compri, quelle che ti mostrano, le guardi appena. Queste visite ti piacciono per il bicchiere di vino che gusterai nell’aia, su un tavolaccio e sotto l’ombra fresca d’un albero primitivo. Per quel bicchiere e per le chiacchiere sul tempo andato, sperando che per caso si parlerà di te o della Mora, di qualcosa insomma cui senti di appartenere, per questo poco tanto ti sposti, tu. E ci giri attorno, a quel ricordo rimosso, vero?


La guerra c’entra, ma di striscio. Non è che tu non ricordi: è che non vuoi ricordare. Eppure sei incolpevole. La storia della luna e i falò, l’hai messa su perché temevi che il resto non bastasse a giustificare lo scritto. Erano altri tempi, per la letteratura. Senti, Anguilla: non puoi ritrovarti nemmeno qui, lo capisci? Ché se uno non ha messo radici a quarant’anni non le mette più, ché se ne hai, poi, son radicette aeree, come quelle delle mangrovie. E poi che sto a dire a te, che tu sei me, Anguilla? E il tuo posto nel mondo è in un nessun altro altrove. E stiamo bene così, tutti e due. Torna a Genova, il cerchio è chiuso: casa per me, per te, davvero, non ce n’è.
JACQUELINE SPACCINI
(NON HO VINTO)

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Le foto sono prelevate dal sito www.parcoletterario.it

Lingua fantastica e manichini bontempelliani

Recensione al libro di Rita Fresu, Tra specchi e manichini. La lingua “fantastica” di Massimo Bontempelli. Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pp. 150, € 10,00


La lingua batte dove il testo vuole
ovvero la lingua di Massimo Bontempelli

di Jacqueline Spaccini


Può un autore essere rappresentato dalla sua lingua? Certo, va da sé. Ma i contenuti, allora? Anche quelli, ma se lo si volesse scoprire guardandolo quando costui si nega, diciamo: dal buco della serratura critica, occorrerebbe analizzare non già – non solo – il suo stile, bensì proprio l’elemento grammaticale che lo contraddistingue. Ha scritto Umberto Eco, una volta, scherzando – ma neanche troppo – che secondo lui l’elemento più rappresentativo della prosa e di un autore è l’avverbio. Personalmente diffiderei di chi si sentisse tutto conchiuso dall’aggettivo (immaginando da subito uno stile rococò o falsamente naïf). Ma estendiamo la riflessione alle figure retoriche, molto più interessanti. Massimo Bontempelli, per esempio, eccelleva nell’ironia e nell’ossimoro, e avvalendosi con maestria di questi strumenti retorico-grammaticali ha creato una lingua fantastica, uno stile “freddo” e immaginoso, una sua cifra stilistica raffinata e riconoscibile.

Proprio sulla lingua dello scrittore comasco, sulle sue caratteristiche stilistiche, quelle che ne fanno di lui uno dei più interessanti autori del nostro Novecento, Rita Fresu ha scritto un intero libro − Tra specchi e manichini. La lingua “fantastica” di Massimo Bontempelli (Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pp. 150, € 10,00) −, che si sofferma in particolare, con personalissime riflessioni, sulla lingua bontempelliana, in particolar modo per quel che riguarda il periodo “magico” della sua produzione. La Fresu – che è una linguista –, raccoglie e amplia, talvolta rielabora, i suoi numerosi interventi dell’ultimo quinquennio, al fine di mettere in evidenza la prospettiva funzionale dei fenomeni linguistici nella categoria del fantastico bontempelliano, su cui pure molti autori, prima di lei si sono soffermati, come dimostra, in appendice, la ricchissima – e inedita – rassegna bibliografica.

La studiosa ritiene che il maggior responsabile del disinteresse critico nei confronti dello stile bontempelliano sia il giudizio negativo sulla gratuità – se non addirittura aridità – del suo gioco intellettualistico, sicché indagini inerenti alle strategie linguistiche risultano tuttora assenti. Sarebbero proprio quelle strategie a trasformare i meccanismi stilistici e a far approdare la sua letteratura a quella teoria del miracolo nel quotidiano che lo stesso scrittore definì “realismo magico”.

Quel che Rita Fresu vuol dimostrare è che il côté fantastico nella narrazione di Bontempelli sta nella lingua, prima ancora che negli eventi narrati, lingua che si incarica di trasfigurare la realtà e di far precipitare quasi inconsapevolmente il lettore nella dimensione fantastica. Le analisi della saggista sono portate su La scacchiera davanti allo specchio (1922) e su due raccolte di racconti La donna dei miei sogni e altre storie d’oggi (1925) e Donna nel sole e altri idilli (1928). La costante sarebbe quella tecnica della gradualità attraverso la quale Bontempelli introduce “quasi in sordina, l’elemento surreale” (p. 17). Infatti, i testi sono costituiti da una prima parte in tutto mimetica della realtà, una seconda parte in cui “irrompe il fantastico” ed una parte conclusiva in cui si torna alla realtà, sempre con un effetto di straniamento, anche perché nel frattempo qualcosa è successo.

Vediamo più da vicino quel che la studiosa chiama l’organizzazione sintattica e la progressione testuale. La trasformazione del banale in evento drammatico è preparata da “alcune strutture fàtiche che spesso alludono a ciò che sta per essere raccontato […] o a cognizioni indispensabili da rendere note […] le quali generano una sorta di ellissi cataforica del tema” (ibidem). Ellissi cataforica, cioè il ritardo dell’evento: lo scrittore tiene il lettore sulla corda, anticipa ma poi non dice, allude senza concretizzare. Le espressioni linguistiche cui fa ricorso, insieme con gli elementi che ripete anaforicamente (Questo non avvenne. Avvenne di peggio. Avvenne la cosa più spaventosa, cui non avevamo pensato: la cosa più spaventosa. Spaventosa oltre ogni immaginazione possibile, in Giovane anima credula) accrescono e ispessiscono l’attesa. Senza quasi percepirne lo spostamento, il lettore si ritrova immerso nella realtà “altra”, magari con la sola introduzione di un allora incipitario (Allora accadde una cosa buffissima. Accadde che il Re Bianco […] si scosse un poco, e parlò in La Scacchiera davanti allo specchio).


la foto è tratta da Panirlipe's Weblog

Fresu passa poi ad analizzare il lessico nella sua sonorità e trova che essa è amplificata da epistrofe, anafora, complexio ed epanadiplosi in una strategia bontempelliana di avanzamento testuale; un lessico che se da un lato antropomorfizza le cose, gli oggetti ed elementi della natura, dall’altro devitalizza – scrive la studiosa – l’essere umano, riducendolo a un ruolo di marionetta o manichino (cfr. Dea, Minnie, Adria). Si attarda poi sull’uso abbondante di metafore e sinestesie che secondo Contini sono “i filtri dell’ironia” con cui Bontempelli riuscì a evocare il “magico senza magia” e il “surreale senza surrealismo” (p. 27).


Nel secondo capitolo, l’analisi linguistica è portata sui testi teatrali e particolarmente su Minnie la candida, teatralizzazione della novella Giovane anima credula, su indicazione di Luigi Pirandello. Secondo Rita Fresu, la vera differenza tra la novella e la pièce è da rintracciare nella diversa personalità di Minnie. Se nella novella, la giovane è una credula, nel testo teatrale è promossa a candida, giacché se per fare arte occorre stupore, per poter leggere il mondo è necessario il candore. Scriverà Bontempelli nella commemorazione di Pirandello (1936): la prima qualità delle anime candide, è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo […]. Spesso non […] capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. Perciò la lingua di Minnie è una lingua bizzarra nell’eloquio, ma non solo perché straniera. D’altronde, osserva Fresu, alla base della produzione bontempelliana sta la dicotomia tra ciò che è artificioso e ciò che è naturale. Di conseguenza, le scelte lessicali – e finanche la punteggiatura –, nei testi, si adegueranno al senso del discorso cui vuole approdare lo scrittore. Funzionali sono anche i nomi dei personaggi bontempelliani. Rari i cognomi, talvolta assenti persino i nomi, ancor di più gli ipocoristici, gli alterati e i soprannomi; “spesso la sola provvista di nome è la donna” (p. 59); mentre il narratore è quasi sempre anonimo. Nomi banali, comunque nomi di alta disponibilità (Anna, Maria, Mario, Luciana, Giulia), e talmente reiterata è l’omonimia nei testi, che colpisce il lettore avvertito. Si prenda Figlio di due madri: Mario è figlio di Mariano e Arianna (Anna), si tramuta un giorno in Ramiro (anagramma di Mario) e diventa figlio di Luciana, già Lucia. Ma tutto ciò ha una finalità, che è quella di “svalutare sostanzialmente il personaggio (quasi un’etichetta ‘riusata’), per richiamare l’attenzione del lettore sull’evento fantastico” (p. 64).

Conclude questo libro – non concludendolo, ché seguono oltre settanta pagine di indicazioni bibliografiche – un’ipotesi (o forse una provocazione) di Rita Fresu al riguardo della predilezione di Bontempelli per i nomi con radice MAR-, che sarebbe da ricondurre “all’implicazione semantica con marionetta, derivante come noto, attraverso il francese antico maryonete (1517), dal diminutivo di Marion, a sua volta ipocoristico del nome proprio Marie” (p. 72).


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Pubblicato in Dedalus (www.retididedalus.it) il 1.02.2009, con il titolo Un realismo magico senza magia.