lunedì 2 febbraio 2009

Lingua fantastica e manichini bontempelliani

Recensione al libro di Rita Fresu, Tra specchi e manichini. La lingua “fantastica” di Massimo Bontempelli. Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pp. 150, € 10,00


La lingua batte dove il testo vuole
ovvero la lingua di Massimo Bontempelli

di Jacqueline Spaccini


Può un autore essere rappresentato dalla sua lingua? Certo, va da sé. Ma i contenuti, allora? Anche quelli, ma se lo si volesse scoprire guardandolo quando costui si nega, diciamo: dal buco della serratura critica, occorrerebbe analizzare non già – non solo – il suo stile, bensì proprio l’elemento grammaticale che lo contraddistingue. Ha scritto Umberto Eco, una volta, scherzando – ma neanche troppo – che secondo lui l’elemento più rappresentativo della prosa e di un autore è l’avverbio. Personalmente diffiderei di chi si sentisse tutto conchiuso dall’aggettivo (immaginando da subito uno stile rococò o falsamente naïf). Ma estendiamo la riflessione alle figure retoriche, molto più interessanti. Massimo Bontempelli, per esempio, eccelleva nell’ironia e nell’ossimoro, e avvalendosi con maestria di questi strumenti retorico-grammaticali ha creato una lingua fantastica, uno stile “freddo” e immaginoso, una sua cifra stilistica raffinata e riconoscibile.

Proprio sulla lingua dello scrittore comasco, sulle sue caratteristiche stilistiche, quelle che ne fanno di lui uno dei più interessanti autori del nostro Novecento, Rita Fresu ha scritto un intero libro − Tra specchi e manichini. La lingua “fantastica” di Massimo Bontempelli (Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pp. 150, € 10,00) −, che si sofferma in particolare, con personalissime riflessioni, sulla lingua bontempelliana, in particolar modo per quel che riguarda il periodo “magico” della sua produzione. La Fresu – che è una linguista –, raccoglie e amplia, talvolta rielabora, i suoi numerosi interventi dell’ultimo quinquennio, al fine di mettere in evidenza la prospettiva funzionale dei fenomeni linguistici nella categoria del fantastico bontempelliano, su cui pure molti autori, prima di lei si sono soffermati, come dimostra, in appendice, la ricchissima – e inedita – rassegna bibliografica.

La studiosa ritiene che il maggior responsabile del disinteresse critico nei confronti dello stile bontempelliano sia il giudizio negativo sulla gratuità – se non addirittura aridità – del suo gioco intellettualistico, sicché indagini inerenti alle strategie linguistiche risultano tuttora assenti. Sarebbero proprio quelle strategie a trasformare i meccanismi stilistici e a far approdare la sua letteratura a quella teoria del miracolo nel quotidiano che lo stesso scrittore definì “realismo magico”.

Quel che Rita Fresu vuol dimostrare è che il côté fantastico nella narrazione di Bontempelli sta nella lingua, prima ancora che negli eventi narrati, lingua che si incarica di trasfigurare la realtà e di far precipitare quasi inconsapevolmente il lettore nella dimensione fantastica. Le analisi della saggista sono portate su La scacchiera davanti allo specchio (1922) e su due raccolte di racconti La donna dei miei sogni e altre storie d’oggi (1925) e Donna nel sole e altri idilli (1928). La costante sarebbe quella tecnica della gradualità attraverso la quale Bontempelli introduce “quasi in sordina, l’elemento surreale” (p. 17). Infatti, i testi sono costituiti da una prima parte in tutto mimetica della realtà, una seconda parte in cui “irrompe il fantastico” ed una parte conclusiva in cui si torna alla realtà, sempre con un effetto di straniamento, anche perché nel frattempo qualcosa è successo.

Vediamo più da vicino quel che la studiosa chiama l’organizzazione sintattica e la progressione testuale. La trasformazione del banale in evento drammatico è preparata da “alcune strutture fàtiche che spesso alludono a ciò che sta per essere raccontato […] o a cognizioni indispensabili da rendere note […] le quali generano una sorta di ellissi cataforica del tema” (ibidem). Ellissi cataforica, cioè il ritardo dell’evento: lo scrittore tiene il lettore sulla corda, anticipa ma poi non dice, allude senza concretizzare. Le espressioni linguistiche cui fa ricorso, insieme con gli elementi che ripete anaforicamente (Questo non avvenne. Avvenne di peggio. Avvenne la cosa più spaventosa, cui non avevamo pensato: la cosa più spaventosa. Spaventosa oltre ogni immaginazione possibile, in Giovane anima credula) accrescono e ispessiscono l’attesa. Senza quasi percepirne lo spostamento, il lettore si ritrova immerso nella realtà “altra”, magari con la sola introduzione di un allora incipitario (Allora accadde una cosa buffissima. Accadde che il Re Bianco […] si scosse un poco, e parlò in La Scacchiera davanti allo specchio).


la foto è tratta da Panirlipe's Weblog

Fresu passa poi ad analizzare il lessico nella sua sonorità e trova che essa è amplificata da epistrofe, anafora, complexio ed epanadiplosi in una strategia bontempelliana di avanzamento testuale; un lessico che se da un lato antropomorfizza le cose, gli oggetti ed elementi della natura, dall’altro devitalizza – scrive la studiosa – l’essere umano, riducendolo a un ruolo di marionetta o manichino (cfr. Dea, Minnie, Adria). Si attarda poi sull’uso abbondante di metafore e sinestesie che secondo Contini sono “i filtri dell’ironia” con cui Bontempelli riuscì a evocare il “magico senza magia” e il “surreale senza surrealismo” (p. 27).


Nel secondo capitolo, l’analisi linguistica è portata sui testi teatrali e particolarmente su Minnie la candida, teatralizzazione della novella Giovane anima credula, su indicazione di Luigi Pirandello. Secondo Rita Fresu, la vera differenza tra la novella e la pièce è da rintracciare nella diversa personalità di Minnie. Se nella novella, la giovane è una credula, nel testo teatrale è promossa a candida, giacché se per fare arte occorre stupore, per poter leggere il mondo è necessario il candore. Scriverà Bontempelli nella commemorazione di Pirandello (1936): la prima qualità delle anime candide, è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo […]. Spesso non […] capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. Perciò la lingua di Minnie è una lingua bizzarra nell’eloquio, ma non solo perché straniera. D’altronde, osserva Fresu, alla base della produzione bontempelliana sta la dicotomia tra ciò che è artificioso e ciò che è naturale. Di conseguenza, le scelte lessicali – e finanche la punteggiatura –, nei testi, si adegueranno al senso del discorso cui vuole approdare lo scrittore. Funzionali sono anche i nomi dei personaggi bontempelliani. Rari i cognomi, talvolta assenti persino i nomi, ancor di più gli ipocoristici, gli alterati e i soprannomi; “spesso la sola provvista di nome è la donna” (p. 59); mentre il narratore è quasi sempre anonimo. Nomi banali, comunque nomi di alta disponibilità (Anna, Maria, Mario, Luciana, Giulia), e talmente reiterata è l’omonimia nei testi, che colpisce il lettore avvertito. Si prenda Figlio di due madri: Mario è figlio di Mariano e Arianna (Anna), si tramuta un giorno in Ramiro (anagramma di Mario) e diventa figlio di Luciana, già Lucia. Ma tutto ciò ha una finalità, che è quella di “svalutare sostanzialmente il personaggio (quasi un’etichetta ‘riusata’), per richiamare l’attenzione del lettore sull’evento fantastico” (p. 64).

Conclude questo libro – non concludendolo, ché seguono oltre settanta pagine di indicazioni bibliografiche – un’ipotesi (o forse una provocazione) di Rita Fresu al riguardo della predilezione di Bontempelli per i nomi con radice MAR-, che sarebbe da ricondurre “all’implicazione semantica con marionetta, derivante come noto, attraverso il francese antico maryonete (1517), dal diminutivo di Marion, a sua volta ipocoristico del nome proprio Marie” (p. 72).


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Pubblicato in Dedalus (www.retididedalus.it) il 1.02.2009, con il titolo Un realismo magico senza magia.

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