sabato 4 maggio 2024

C'è ancora domani: pro e contro il film di Paola Cortellesi. LES AVIS SONT PARTAGÉS

 C'È ANCORA DOMANI DI PAOLA CORTELLESI: 

UN FILM BELLO O BRUTTO?


LES AVIS SONT PARTAGÉS



Alessandro Iovinelli

Paola Cortellesi, C’è ancora domani (2023)

CONTRO

 


Il lettore mi consentirà di muovere da due premesse.

In primo luogo, a me piace Paola Cortellesi. L'ho sempre seguita con simpatia e ho ammirato la sua maturazione come interprete che l'ha portata nel 2017 a dar vita sullo schermo a un personaggio, la cui caratura tragicomica mi ha ricordato la grande Monica Vitti di Dramma della gelosia (1970) e Polvere di stelle (1973). Mi riferisco alla sua strepitosa performance nei panni di Monika, la coatta protagonista di Come un gatto in tangenziale.

Di conseguenza – ed è la seconda premessa – ho accolto con piacere la notizia dello straordinario successo di C’è ancora domani, il film che ha segnato il suo debutto nella regia, tanto più perché ha avuto pure il merito di riportare in sala il pubblico dopo gli anni della grande crisi durante e dopo la pandemia del Covid, quelli in cui il numero degli spettatori cinematografici era crollato spaventosamente.

Purtroppo, io non ho potuto vederlo nel 2023 e ho dovuto attendere il suo approdo su Netflix per colmare la mia lacuna di cinéphile in disarmo.

Perciò mi sono messo davanti alla TV ben disposto, anzi con le migliori intenzioni, anche perché tutti coloro che lo avevano visto me ne avevano parlato in termini elogiativi.

Confesso però di averne riportato un’impressione negativa fin dalla prima scena. È il risveglio della coppia: Ivano (Valerio Mastandrea) e Delia (Paola Cortellesi).

Da subito lui mostra di che pasta è fatto, giacché la prima azione che compie è quella di colpire violentemente con uno schiaffo la moglie, la quale nulla aveva detto e tanto meno fatto. E questa è soltanto la prima delle vessazioni cui la poverina sarà sottoposta nella sua tipica giornata di vita da umiliata e offesa nell’Italia patriarcale del 1946. Infatti, è lei a occuparsi di tutta la numerosa famiglia nei suoi ruoli di madre, moglie e nuora, giacché a suo carico vi è perfino il suocero infermo ed esigente (ma pur sempre molestatore),

La prima parte del film trascorre così nella descrizione di tutte le sue innumerevoli occupazioni al servizio dei familiari (che mai gliene sono grati, bensì la tartassano e tiranneggiano tutto il tempo). Peggio è fuori di casa, là dove Delia è sfruttata in tutti i suoi lavoretti non solo perché essi sono in nero e malpagati, ma anche perché lei è donna e dunque viene considerata una forza lavoro di seconda classe e senza diritti.

 


Con una rappresentazione della vita di una donna altrettanto cruda comincia il capolavoro di Carl Theodor Dreyer Ordet – La parola (1955), la cui sequenza di apertura – a parte le botte – non è molta lontana dal calvario dell’eroina di Paola Cortellesi. Tuttavia, in quel caso la descrizione mirava a sottolineare la santa abnegazione con la quale Inger, la protagonista del film di Dreyer, svolgeva tutti i compiti a lei imposti dalla famiglia e la società.

Al contrario, per C’è ancora domani sembrerebbe trattarsi piuttosto di cinema di denuncia in uno stile arrabbiato anni Settanta. Le cose stanno veramente così? Magari! Il peggio deve ancora venire. Quando la vicenda decolla, entra in scena un soldato afroamericano delle truppe di occupazione che, dopo aver incontrato Delia per strada, se ne invaghisce. Non ci sarà niente tra i due, sia chiaro – Delia non è la Maria Braun del film di Fassbinder (1979) che con Bill, anch’egli un milite americano di colore, ci fa addirittura un figlio. Ma anche il nostro William, il nero cuor gentile della MP, diventerà il deus ex macchina nello sviluppo del percorso narrativo del film: il fidanzamento della figlia primogenita, Marcella.



Delia non ha inizialmente un atteggiamento ostile nei confronti della relazione tra i due giovani, né tanto meno verso il ragazzo della figlia. Anzi, sopporta stoicamente perfino l’atteggiamento sprezzante con cui le si rivolgono i futuri consuoceri, due pidocchi rifatti, ora parvenu arricchiti grazie ai loschi affari nel periodo bellico. È la scena del fidanzamento ufficiale – forse l’unica veramente riuscita, ancorché imbarazzante per l’aspra rappresentazione dell’antagonismo sottotraccia tra le due famiglie. 

L’atteggiamento di Delia verso il futuro genero però cambia radicalmente, nel momento in cui scopre che lui non è diverso da suo marito poiché, mutatis mutandis, ne condivide la stessa logica di possesso e sopraffazione, tanto da minacciare Marcella, qualora volesse lavorare il giorno che sarà diventata sua moglie.

Per impedire che la figlia faccia la sua stessa fine di serva maritata, Delia decide quindi di far saltare il matrimonio, facendo letteralmente saltare per aria il bar su cui si fondava l’attuale ricchezza della famiglia dell’infido “promesso sposo”.


Questa è la scena francamente più ridicola del film anche per chi accetta la suspension of disbelief – e io sono tra coloro che lo fanno –come caposaldo della fiction secondo la famosa formula di Coleridge: non esiste però alcuna sospensione dell’incredulità capace di farmi credere che un milite dell’esercito americano si procurasse la dinamite e poi la consegnasse a una sconosciuta (a cui non la lega nessun legame amoroso), affinché venisse distrutto il locale di un cittadino qualunque.

Stendo un velo pietoso sulla scena in sé della deflagrazione dell‘esplosivo che distrugge il bar - una sequenza indegna della tradizione degli studi di Cinecittà.

Di qui in poi la sceneggiatura implode su sé stessa, né i troppi buchi narrativi sono mascherati dalla regia che, forse non trovando più il bandolo della matassa, sceglie come soluzione della fine l’evocazione della cornice storica nella quale si svolge la vicenda di Delia, il suo matrimonio e la sua famiglia.

 

ATTENZIONE, SEGUE SPOILER!

 

Nella sequenza finale vediamo infatti Delia recarsi a votare. È il 2 giugno 1946, la data del referendum che ha segnato la vittoria della repubblica sulla monarchia, nonché l’elezione dell’Assemblea costituente. Ed è soprattutto la prima volta in cui alle donne è riconosciuto il diritto di voto. Il domani menzionato nel titolo del film comincia quel giorno, allorché il genere femminile, ovvero l’altra metà del cielo, prende in mano il suo destino.

Non dispiaccia il recupero della metafora del vecchio Mao a proposito del “secondo sesso”, dal momento che tutta la scena finale, con quella massa di donne che fa scudo a Delia contro la violenza belluina del coniuge inviperito, che avrebbe voluto impedirle di votare riportandosela a casa, fa pensare a un film degli anni Cinquanta proveniente dalla Repubblica popolare cinese.



Di fronte al bianco e nero con cui è stato girato il film, per tacere della cura certosina dei dettagli storici delle scenografie e della location in un quartiere Testaccio  credibile (aspetti da tutti elogiati, anche se un po’ troppo enfaticamente, visto che un’operazione altrettanto ineccepibile è riuscita pure al coevo adattamento televisivo della Storia realizzato da Francesca Archibugi e ambientato nella San Lorenzo del ’43 e dintorni) pensavo di trovarmi davanti alla riscoperta dei luoghi, delle atmosfere, in una parola: degli stilemi, del neorealismo, quasi fosse quella lontana stagione l’âge d’or del cinema italiano, dunque il periodo storico da riscoprire per lanciarsi in un nuovo inizio della nostra cinematografia. Devo riconoscere di essermi sbagliato. Alle soglie del nuovo millennio, Paola Cortellesi non mostra di essersi rifatta al Rossellini di Roma città aperta o al De Sica di Ladri di biciclette, meno che mai al Visconti di Ossessione. Se è vero che il senso di un film sta nel finale che il regista (o chi per lui) ha scelto (la casistica infinita mi esime dall’obbligo di citare qualche esempio chiarificatore), allora non c’è dubbio che la strada indicata da C’è ancora domani non va in direzione del neorealismo, bensì in quella del realismo socialista.

Certo, la storia non si ripete mai tale e quale. Dunque, non sono ritornati i proletari in marcia di Pelizza da Volpedo e i marinai della corazzata Potemkin e le bandiere rosse. Niente paura. Non sto dicendo che nel nostro prossimo futuro appariranno i pronipoti del famigerato Ždanov dei tempi dello stalinismo o gli epigoni delle dogmatiche guardie rosse della rivoluzione culturale.

Il Novecento è finito. L’Occidente della società aperta (Popper) ha vinto la guerra fredda e il sistema capitalistico (pur se molto diverso da quello passato al setaccio da Marx nell’Ottocento) governa l’economa del pianeta, rendendo irrealistica, se non impossibile, ogni alternativa storica, meno che mai il socialismo.

Personalmente temo l’ideologia dominante, quella fondata su una sorta di ibrido tra il neopuritanesimo d’importazione statunitense, il femminismo trasformato in religione e la “cancel culture” come memoria storica deformante. Ma qui il discorso si fa troppo complesso e non è il momento di affrontarlo.

Il punto è un altro: possiamo considerare un film molto bello, anzi bellissimo, nonostante si fondi su una concezione del mondo che ci appare non condivisibile, se non addirittura opposta alla nostra.

Faccio un solo esempio che vale per tutti: Il cacciatore di Michael Cimino (1979). È il film che preannuncia l’avvento di Reagan alla presidenza degli USA e l’inizio della sua era. Tuttavia, l’ho sempre stimato un grande film e per me tale resta ancora oggi.



A mio avviso, il film di Paola Cortellesi – qualunque sia il giudizio sulla sua idea del mondo e della storia italiana – invece non lo è. Purtroppo. Perché? Per la caratterizzazione dei personaggi. Si pensi a Ivano, il marito di Delia: un vilain da filodrammatica. Per la composizione delle scene. Si pensi alla sequenza in cui Ivano picchia la moglie e poi ci copula. Per la soluzione finale – la già citata scena davanti al seggio elettorale col popolo delle donne che respinge l’attacco del maschio dispotico - là dove la regista tenta la via della conclusione epica, ma in realtà gira uno spot da campagna elettorale.

Naturalmente, questa è solo un’opinione personale che non presume di affermare il vero e avere ragione. A essere sincero, se penso che non mi sia piaciuto neppure un altro successo di questi mesi, cioè Povere creature di Yorgos Lanthimos, mi viene il dubbio di aver torto io sul film di Paola Cortellesi e di essere uno spettatore cinematografico ormai superato.

  



Jacqueline Spaccini

Paola Cortellesi, C’è ancora domani (2023)

PRO

 

Premessa: sono nata alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Non posso dire di aver conosciuto quel che il film racconta, ma posso garantire che quel che Paola Cortellesi ha scritto (insieme con Furio Andreotti e Giulia Calenda) in C’è ancora domani era possibile vederlo da vicino anche nei due decenni successivi.

 Ovviamente parlo del contesto familiare. Non necessariamente, non esclusivamente romano, ma di certo prerogativa delle classi meno abbienti. Anzi, diciamolo esplicitamente: povere.

 

Le misere stanze riprodotte nella pellicola assomigliano molto ad altre stanze da me viste da bambina; la cucina poi assomiglia molto a quella della mia nonna paterna. Anzi, a dire il vero è anche meglio di quella a me familiare. L’unica incongruenza storica da me rilevata (ma posso sbagliare) è nelle scarpe che la protagonista indossa. A mio dire, sono di fattura anni ’60 e non ’40.

 

La struttura gerarchica è quella che è rappresentata: la madre fa tutto in casa e fuori casa, subisce le violenze verbali e fisiche senza opporvisi; il marito s’inalbera contro di lei a ogni piè sospinto, forse mosso dal vino o dall’incapacità di reggere un ruolo virile; i figli maschi sono due bestioline sollecite unicamente a farsi dispetti maneschi. La figlia femmina sta nel guado: non vuole assomigliare alla mamma e non riesce proprio a capirla (perché subisce tutto senza protestare?).

 


Marcella vuole essere stimata dal padre, che le riconosce il titolo di unica vera donna della casa, a fronte di quell’incapace della madre. Non conosce, non ancora, lo spirito di sacrificio che sorregge le donne e le madri in nome dell’amore e della protezione dei figli.

Il pater familias, ottimamente interpretato da Valerio Mastandrea (a parte la capigliatura ridicola), rappresenta la figura meno intelligente e più involuta della storia – ma comunque «superiore» in tutto e per tutto alla sua donna (dal punto di vista dei tempi). Nel dubbio, la mena (per dirla alla romana), la picchia, anche se maldestramente, a detta dell’anziano padre, il sor Ottorino Santucci (interpretato da Giorgio Colangeli): Nun je pôi menà sempre… Sennò s’abbitua!

E già.

 


Quand’ero più giovane, c’era ancora chi, scherzando, riportava il contenuto di un sedicente detto cinese: Quando rientri a casa, picchia tua moglie con un bastone. Tu non sai perché, ma lei sì. Ignoro se tale detto esista per davvero e se per davvero sia cinese; poco importa. Quel che conta è che nel rapporto tra sessi, uno dei due deve essere sottomesso e la miglior legge è quella della forza bruta.

 Vengo ora a una prima critica mossa al film della Cortellesi: perché le scene di bòtte non sono state rappresentate in maniera realistica e al loro posto lo spettatore assiste a un balletto tra i due?

 

 


 C’era un rischio (lo ha spiegato la stessa regista-autrice-attrice in una giornata streaming in collegamento con 56000 studenti): da una parte c’è il rischio di assuefazione (anche alla violenza ci si abitua), dall’altra quello dello spostamento di interesse: non sono le bòtte il fulcro del film.

 Io aggiungerei che la visione della violenza può dar adito alla coazione a ripetere.

Quando argomenti verbali non esistono o non esistono più, la brutalità fisica è la prima strada a essere intrapresa, poiché istintiva. D’altronde, anche nel film (e nella vita), quando i figli capiscono che i genitori stanno per passare alle mani, lasciano i luoghi e si chiudono in un’altra stanza. Non assistono, ma sanno.

 Delia non fa solo la mamma per i suoi tre figli, non solo la moglie (sia pure senza nessuna partecipazione nel letto coniugale), Delia  – che al mattino come risposta al suo buongiorno riceve uno schiaffo maritale (perché a lui «gira» così) – lavora.



Ripara reggiseni e si mette qualche banconota da parte.


Ripara ottimamente ombrelli ma guadagna meno di un giovanotto inesperto al primo giorno di lavoro. Ma che c’entra, quello è n’omo!


 Gira per il quartiere facendo iniezioni a domicilio.

Mi ha ricordato in parte la Maddalena Cecconi di Anna Magnani in Bellissima (1951): anche nella pellicola di Visconti la moglie fa le iniezioni a domicilio e a causa delle sue idee troppo disinvolte (far fare cinema alla figlioletta) viene picchiata dal marito Spartaco (ma non lo vediamo).

Nel film della Magnani il riscatto a tanta miseria sarebbe venuto dalla piccolina, in quello della Cortellesi dall’imminente matrimonio della figlia Marcella, bella (e lavoratrice), con un bel ragazzo, Giulio, figlio di gente che possiede un bar e ha fatto i soldi in fretta ma che è cafona (nel senso che i genitori di lui non sono romani d.o.c. e parlano con accento “burino”).


Si è detto che è un film sconclusionato, che la trama non è avvincente, addirittura assurdo lo scoppio della bomba ordito da Delia con la compiacenza e l’alacre contributo di un soldato degno di Paisà.

 



 È vero: è assolutamente poco realistica, la faccenda. Potremmo dire che è un sogno che tutte le Delie del mondo farebbero, distruggere il sogno della figlia per permetterle di essere libera e non come lei. Delia sa che Giulio è più ricco ma non migliore di Ivano, il padre di Marcella. Quando il bar salta per aria, altrettanto accade al matrimonio tra i due. Questo NON è un film neo-neorealista. Questo è un film che prende in prestito, giocosamente e con amore, il bianco e nero dei film di un tempo e sicuramente condivide con lo spettatore qualche ricordo dei film di Rossellini, ma è fiction del XXI secolo. E Cortellesi ha visto e amato anche i film di Fellini in cui l’onirico la fa da padrone.

Ho portato le mie studentesse a vedere il film. Chissà se per tutte loro è stato come per me vedere un film peplum, con gli antichi Romani. Chissà se per davvero loro hanno capito quel che è successo e succede ancora a molte donne.

Il fatto è che uomini che pensano di schiacciare – se non peggio – le donne con arroganza, violenza e sopraffazione esistono ancora.

Gli antichi Romani, no.

 

P.S. Povere creature, a me è piaciuto.