domenica 14 dicembre 2014

Analisi e commento de IL VIAGGIO di Luigi Pirandello

IL VIAGGIO 
di Luigi Pirandello

Tradizionalmente, questo racconto pirandelliano inizia con darci  un gran numero di informazioni sul personaggio principale. 
Adriana Braggi, sposatasi a 18 anni, vive reclusa in casa, senza mai uscire, da ben 13 anni (ora ne ha dunque 35) cioè da quando è rimasta vedova dopo soli 4 anni di matrimonio. Nemmeno si avvicina - come fosse sepolta viva - alle finestre di casa, e per di più in una casa lontana dal centro abitato, il quale è comunque definito come «alta cittaduzza dell'interno della Sicilia», dove la terra è arsa dalle zolfatare. 
Tutto sa di chiuso, di angusto, di limitato. Fin dall'incipit del racconto, manca l'aria, si respira appena.
Anche se il mondo è "fuori" e non ha modo di controllare il contegno di lei, la donna veste accuratamente di nero (come converrebbe a una vedova), con anche un fazzoletto che le nasconde i bei capelli castani che non presentano vanità alcuna.
Lo sguardo è mesto ma sereno e dolce; giacché se non è felice, perlomeno non è più tormentata dal marito, gelosissimo, ch'ella aveva sposato senza amore. Ma i «rigidi costumi» non si interessano alla sua condizione; infatti,  pure da vedova, ella ha un codice da osservare: dev'essere invisibile, «quasi morta per il mondo».
Gli uomini hanno modo di distrarsi, le donne no: per loro ci sono le faccende domestiche e un allenamento fin da bimbe a diventar le serve dei loro futuri mariti. Unica "distrazione" possibile per loro: stringere tra le braccia un bimbo o in assenza di esso, recitare il rosario.
Com'era questo marito geloso scomparso nei primi anni del matrimonio? «Debole di complessione». Vale a dire debole, malaticcio, fisicamente poco attraente (al contrario di un altro ben più noto personaggio, quel Renzo Tramaglino, protagonista de I Promessi Sposi, il quale ha preso come tanti altri la peste, ma che, grazie alla sua «buona complessione», vincerà il male). 
E Adriana non lo ama. Non l'ha mai amato. Da lui ne è oppressa a causa della gelosia che è ancora più forte in quanto rivolta verso il fratello maggiore, cui ha fatto un grave torto.
Secondo le regole non scritte di questa società siciliana (tuttavia sempre lontana nel racconto) che non entra dentro il microcosmo pirandelliano, perché le regole sono introiettata fin dalla nascita e anche da prima, nella famiglia Braggi, un solo uomo avrebbe dovuto sposarsi («perché le sostanze del casato non andassero sparpagliate»), secondo il diritto di maggiorasco, vale a dire il primogenito.

E il demerito (il «tradimento», dice il narratore) del defunto marito è quello di essersi sposato. E già, perché in questa storia non è lui il primogenito, bensì il fratello Cesare. Ma l'avente diritto a tutto il patrimonio nonché al diritto alle nozze, Cesare Braggi, non si è - all'apparenza - offeso, giacché il comune padre aveva disposto che il capofamiglia sarebbe rimasto lui, cui il fratello minore, seppure ammogliato, doveva comunque obbedienza, vita natural durante. Non poteva però più sposarsi, il figlio maggiore, appunto per non dividere a metà i beni familiari.

In tutto questo, Adriana si sente umiliata, giacché lei deve obbedienza al marito nonché al cognato. Non solo, ma ha appreso dal suo stesso sposo - e fin dall'inizio - che Cesare l'avrebbe chiesta in sposa, se il fratello minore non si fosse mosso in anticipo in tal senso.
Ancora più in imbarazzo si sentirà Adriana, allorquando si rende conto che il cognato la tratta come una «vera sorella»; è gentile, non esercita il suo potere su di lei, neppure dopo la morte del legittimo marito.
E anzi, l'imbarazzo che poteva instaurarsi a vivere, loro due da soli tra le pareti domestiche (Adriana ha comunque avuto due figli dal coniuge), è annullato dalla premura di Cesare che fa accorrere in casa la mamma di Adriana, ufficialmente affinché l'anziana donna le faccia compagnia.

Cesare non è descritto fisicamente, bensì solamente nel suo incedere interpersonale: è di una «squisita signorilità naturale» al contrario della ruvidezza dei paesani; di modi gentili, contro l'ordinaria rozzezza degli uomini del suo tempo, con giusto un po' di «rilassata pigrizia» a fare da contraltare a tanta virtù. 
E che sia un vero uomo, un uomo vero in tutti i sensi, lo capiamo dal fatto che una volta all'anno - anche per più di un mese - il maggiore dei Braggi vada a «tuffarsi nella vita», a prendere «un bagno di civiltà»:  a Palermo, Napoli, Roma, Firenze, a Milano. Quando ne ritorna è sempre come ringiovanito.
Invece Adriana  non è mai uscita dal paese. 
E ogni volta che lui torna, la donna ha un «segreto turbamento»: non sappiamo bene dire se sia dovuto all'incontro rinnovato col cognato oppure al vagheggiamento del viaggio di lui. Forse entrambe le cose?

Quale sia l'interesse segreto rivolto al cognato dovrebbe indicarcelo il fatto che all'epoca in cui il marito era ancora in vita, Adriana si sdegnava nel sentirsi raccontare dal fratello minore le avventure galanti del fratello maggiore e provava ribrezzo nel dover poi assecondare le voglie sessuali del marito sovraeccitato...
Una timidezza, quella di Adriana, che lei stessa imputa al marito geloso (il pensiero le si è inculcato nel profondo o già non esisteva?). 

Con l'arrivo della madre di lei, tutto il suo amore si riversa sui figli e vive solo come mamma e non più (non mai) come donna. Il pretesto per sentire - senza colpe - l'assenza di Cesare è dato dalla paura che le donne avrebbero a stare di notte da sole, senza la protezione di un uomo, in casa.  Tutto ciò rivela in realtà che lei non avrebbe voluto che lui se ne andasse neanche per una volta all'anno. In verità, a parte le vacanze annuali di un mese, il maggiore dei Braggi è uno zio attento, quasi un padre. 

Ma poi anche la madre, divenuta una sorella, muore. E con essa muore in Adriana l'idea di essere ancora una figlia. Ora si sente vecchia, con quei due figli maschi di 16 e 14 anni, alti quasi quanto lo zio.

Finché a dare una svolta alla storia che finora è stata resoconto del passato, ecco che giunge la malattia di Adriana («un vago malessere, una stanchezza, una oppressione un po’ a una spalla, un po’ al petto; un certo dolor sordo che le prendeva talvolta anche tutto il braccio sinistro e che di tratto in tratto diventava lancinante e le toglieva il respiro»). Un malessere alla pleura, il suo, che si manifesta chiaramente fin da subito come un male fatale. E che si rivelerà essere un cancro.

Occorre partire per avere nuovi e più ottimistici consulti, ma Adriana non ha abiti per viaggiare. E poi non può lasciare i figliuoli da soli... Per carità, per carità. Occorre ora a Pirandello una distrazione, un ralentissement, una deroga al finale. Ed ecco dunque i vestiti. Servono anche per ricordare - se mai ve ne fosse bisogno - che Adriana è bella. E se non sembra tale è solo perché si trascura.

Si ordinano i vestiti e i cappelli a Palermo, e quando arrivano dalla città, apprendiamo che sono neri da lutto, ma eleganti. I figli per primi vogliono vedere la loro mamma - che ora  guardandosi allo specchio si vergogna per quegli abiti aderenti che la rendono fanciulla, giovane e bella. Anche i figli lo notano. E poi anche Cesare la vede e si complimenta con lei, dandole del tu. 
Agitata ma sensuale, Adriana si pettina i lunghi e tanti capelli...

Finalmente si lascia la cittaduzza, si va a Palermo, poi si lascerà anche Sicilia, dirigendosi verso il Continente. Per altri consulti ancora, forse per un rimedio. Perché si tenta il tutto per tutto. E perché Cesare, soprattutto, non vuole darsi per vinto.

«Sola con lui». 
Questo è il pensiero di Adriana. Torna il turbamento, all'apparenza ancora non riprovevole, ma in realtà portatore del vero significato dei suoi sentimenti fin lì soffocati.
Il viaggio si farà  in treno. 
Piacere e pene di quel viaggio: la meraviglia dei luoghi che ci sono sempre stati e sempre continueranno a esserci, anche senza di lei. 
Adriana guarda fuori dal finestrino, per non guardare negli occhi di lui.


A Palermo, riceve la sentenza di morte attraverso lo sguardo di «costernazione» di Cesare Braggi e l'eccessiva gentilezza («la premura affettata») del primario che li ha ricevuti in casa e che ha dato ad Adriana una mistura composta di veleni che funzionano da medicinali. Ma che non servirebbero a guarirla. 

Adriana vive la sua malattia come un'estranea, come se la morte non dovesse colpirla più di tanto, come se non già la morte di per sé non fosse interessante quanto piuttosto la sua stessa persona che ne è colpita. 
Lei si sente infatti sempre e ovunque «estranea e di passaggio», come lo siamo tutti noi, ma in lei questa modestia che è la sua qualità principale, è anche la sua catena più grande.

Tuttavia, ora Adriana sa che non c'è più nulla da fare, che non potrà guarire e tornare alla vita di sempre, che non potrà più svolgere il suo ruolo di mamma, giacché il tempo della morte si appressa, dentro di sé «appiattata là sotto la scapola sinistra»... ora, che tutto è chiaro anche per lei, ora sì, Adriana può lasciarsi andare - insieme con le lacrime liberatorie - può concedersi finalmente alla VITA.

E di città in città, a cominciare da Napoli - ora che non c'è più nessuna onorabilità da salvare o decenza da osservare, lontano da sguardi bigotti, ecco alfine che vediamo quest'amore che è sempre rimasto protetto in un alone di non-detto, di non-pensato, finanche, divellere ogni regola. 

Non c'è più posto, nel finale del racconto, per l'ironia iniziale proposta da Pirandello; non ci son più padroni uomini che rincasano, né donne sottomesse ad attendere. Ora ci sono un uomo e una donna che si amano liberamente, «senza memoria, coscienza né pensiero, in un'infinita lontananza di sogno».
Anche se ora - in quei pochi giorni vissuti felicemente -, ora che ha conosciuto tanti posti meravigliosi e l'amore a lungo taciuto di Cesare ormai condiviso, Adriana soffre perché non vorrebbe più morire. E poiché la fine è ineluttabile, allora sì, morire sì, ma nella frenesia, nella passione del vivere gli ultimi giorni della propria vita.


Non c'è via d'uscita: a Milano  la nostra protagonista ha compreso chiaramente che è finita, ma vuole concedersi - romanticamente - un' ultima tappa, Venezia: il giorno di velluto, della gondola e della bara.

L'indomani prenderà la mistura di veleni. È il momento della precipitazione degli eventi, siamo giunti alle ultime righe della storia: Adriana beve tutta la boccetta dei medicinali. Un veleno che era anche un farmaco, un farmaco che è un veleno, estremo atto con cui andarsene silenziosamente dalla vita di tutti, anticipando l'attesa dell'irrevocabile sua dipartita.

Un Pirandello forse anomalo, questo de Il viaggio, per chi è abituato a leggere il suo amaro umorismo, puntuale soprattutto nelle chiose finali come è proprio della novella. Qui, l'autore siciliano aveva iniziato a fare del sarcasmo sociale, a proposito della condizione delle donne sottomesse ai mariti-padroni, ridotte a situazioni di schiavitù psicologica, s'è detto, in una Sicilia in cui esiste un sistema di valori interiorizzato che vale più della legge dei tribunali.

Ma poi il personaggio di Adriana mette le ali e nel momento in cui esce dall'angusto luogo in cui è nata e vissuta, si apre al mondo - come una Cenerentola o una Pretty Woman - assaporando la vita, il gusto leggero e felice e gioioso della vita, che tanto più è cara quando la sentiamo venire meno. Il finale, pur tragico, è delicato, è un suicidio razionale non disperato, senza commenti né da parte della protagonista né da parte del narratore; Pirandello non deve dimostrare, né proteggersi dalla censura. Scrive nei primi anni del Novecento, pubblica sul finire degli anni '20, Non è Flaubert, non ha tra le mani Emma, bensì Adriana.  [Jacqueline Spaccini]


IL VIAGGIO film del 1974
di Vittorio De Sica
con Sophia Loren & Richard Burton
liberamente ispirato al racconto


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Il testo integrale del racconto si trova qui
L'audiotesto che consiglio è la lettura di Margaret Collina (la migliore)

venerdì 31 ottobre 2014

MONUMENTI - L'ALTARE DELLA PATRIA IIC RABAT

L'Autel de la Patrie à Rome : symbole monumental de l'Italie unieL

Letteratura :giovedì 25 settembre 2014
L'Altare della Patria a Roma: simbolo monumentale dell'Italia unita
a cura della Prof.ssa Jacqueline SPACCINI, Lettrice di italiano
Alla morte del Re Vittorio Emanuele II, nel 1878 fu indetto un concorso per la realizzazione di un’opera grandiosa, in omaggio al padre della Nazione. Il Vittoriano ( o Altare della Patria) sarà chiamato a rappresentare anche l’Italia Unita. Storia di un monumento.

Informazioni

Data: giovedì 25 settembre 2014

Orari: 18,30

Luogo: Rabat-Istituto Italiano di Cultura

Organizzato da: Istituto Italiano di Cultura-Rabat

In collaborazione con: Dipartimento di italiano-Università Mohammed V - Rabat

TABLE RONDE A RABAT - PLURILINGUISME, MULTICULTURALITÉ, BILINGUISME

Institut Cervantès: Le plurilinguisme au cœur du débat

Ranya Zoubairi
24/10/2014 13:04
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Du Mercredi 29 au jeudi 30 octobre, à 17h30, l’Institut Cervantès accueille un séminaire transnational autour du plurilinguisme et de la multi-culturalité
Selon un communiqué de l’Institut Cervantès, un séminaire multinational sera organisé du 29 au 30 Octobre. Des experts internationaux seront conviés à débattre du « phénomène complexe du plurilinguisme européen et marocain, et comme chaque pays, depuis ses différentes perspectives, le Maroc l’affronte dans son propre territoire et dans son espace plurilingue». La problématique sera ainsi traitée en tant que défi partagé entre l’Europe et le Maroc.
Cette manifestation scientifique vise, entre autres, à « acquérir une meilleure compréhension des multiples dimensions du plurilinguisme et de son rôle dans la gestion des connaissances, en particulier dans le contexte de l’apprentissage des langues. » tout en œuvrant pour « la conception d’un paysage complet de la culture (plurilinguisme =diversité culturelle) » ajoute le communiqué, soulignant que la rencontre a également comme objectif de promouvoir « le développement des compétences interculturelles chez les formateurs / enseignants ».
Une table ronde autour de la diversité linguistique se tiendra donc mercredi 29 et jeudi 30 Octobre. Les participants y traiteront la question de « l’apprentissage d’une nouvelle langue face à une réalité plurilingue». Ils y exposeront des « modèles de gestion de la diversité linguistique et identitaire, qui pourraient s’appliquer à d’autres réalités ». Les experts tenteront ainsi de repenser des notions telles que la région, la nationalité, l’identité ou le territoire à travers le prisme de la diversité culturelle.
Participeront à cette rencontre, Jan Hoogland, linguiste et directeur du NIMAR, Institut néerlandais au Maroc ; Yamina El Kirat, professeur d’anglais à l’Université de Rabat; Aïcha Bouhjar, directrice du Centre de l’Aménagement Linguistique, de l’Institut Royal de la Culture Amazighe (IRCAM), ainsi que Ieme Van der Poel, professeure de littérature française, Pays-Bas et Jacqueline Spaccini, représentante de l’Italie.pLI

martedì 8 luglio 2014

Dettagli. Non smettere di guardare un quadro.

DETTAGLI
Le cose che Daniel Arasse mi ha fatto scoprire.

Filippo Lippi, Annunciazione, Londra, National Gallery

Bella quest'opera, sì, stupenda. In origine era posta in alto, a lunetta, sopra a una porta (dessus de porte). 

Cliccate sulla foto e ingranditela.

C'è un buco sulla veste della Vergine. L'avevate visto?

Proprio davanti allo Spirito Santo, rappresentato come tradizione da una colomba, c'è una boutonnière, un'asola, come quelle che portavano alcune donne molto pie, dopo il matrimonio; insomma, un buco nella stoffa della camicia da notte per congiungersi e concepire, ma senza mostrarsi - neppure al coniuge - nella propria nudità. Certo, l'occhiello è poco sotto l'ombelico; non dimentichiamo che qui siamo inanzi a un'immacolata concezione.

Daniel Arasse qualifica questo dettaglio come segreto del pittore [1].



Quel che non si vede... appunto.

Ora fate attenzione e guardate bene questo quadro:

Francesco del Cossa, Annunciazione, Dresda, Gemäldegalerie

Cliccate sopra e ingranditelo. Sì, avete visto la chiocciola (Arasse dà una spiegazione incredibile di questa chiocciola)... ma il cane, l'avevate visto?



e quella gente che osserva dal balcone?





Dettagli, appunto.
Quante storie contiene un quadro!

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[1] Daniel Arasse, Histoire de peintures, 2004 (postumo). Come lo stesso Arasse scrive, il dettaglio fu rilevato per primo da Samuel Edgerton Jr., storico dell'arte americano.

domenica 29 giugno 2014

La Compagnia delle Poete a Rabat (12/06/2014) con lo spettacolo MADRIGNE


La Compagnia delle Poete è stata ospite dell'Istituto Italiano di Cultura a Rabat in Marocco il 12 giugno 2014.

Invitata dalla dott.ssa Pastore in fine mandato e confermata dalla dott.ssa Fortunato, attuale Direttrice, la Compagnia si è prodotta nella sala teatrale del Centre Culturel de l'Agdal grazie all'amabile disponibilità della sua Direttrice, Mme Menaouar.

Lo spettacolo che si è messo in scena sotto la direzione della fondatrice e  poeta, Mia Lecomte, è Madrigne - più volte sperimentato nella versione ridotta - che ha visto 5 poete in scena (Maria Candelario Romero, Mia Lecomte, Vera Lucia de Oliveira, Barbara Serdakowski e la sottoscritta, Jacqueline Spaccini) e 1 musicista (Pape Kanouté). Si avvale anche di video raffiguranti momenti di donne e di voci off, voci fuori campo di poete assenti.
Fondamentale l'aiuto tecnico del pittore e amico Cesare Oliva.







Le voci delle poete sono (come facilmente intuibile dai loro nomi e cognomi) multiculturali, anche se la lingua veicolare in cui si esprimono è l'italiano che tutto accoglie e che tutto sa modulare. La Compagnia è attiva dal 2009.



Il Signor Pirandello è desiderato al telefono




Quest'anno con i miei studenti di 1°, 2° e 3° anno ho costituito un gruppo teatrale, I Teatranti di Rabat. Nel secondo semestre ho allestito un adattamento de «Il signor Pirandello è desiderato al telefono», una pièce del compianto e amatissimo Antonio Tabucchi (scomparso il 25 marzo 2012) da presentare ai professori e agli altri studenti del Dipartimento di Studi italiani presso la facoltà Mohammed V di Rabat, in Marocco.

La maggior parte dei miei studenti era del primo e secondo anno; quasi tutti alla prima esperienza assoluta di teatro... e non è facile:

a) imparare la dizione corretta di un testo cerebrale come questo; 

b) imparare a memoria un lungo testo (con intanto corsi ed esami da affrontare. E qualche studente lavora anche!);  

c) imparare a recitare, vale a dire a dare un senso di verità a quel che si dice, a interpretarlo come fosse vita vera e muoversi sul palco, imparando a gestire la paura.

Paura di che? Di non essere all'altezza, di essere ridicoli. Paura di non credere in sé stessi.

La complicazione per me - complicazione che poi non si è rivelata tale - era 1. l'alta percentuale femminile (quando a teatro si scrive sempre al maschile) e 2. il controllo dei contenuti morali che debbo sempre tenere in considerazione (controllo di cui non ho mai tenuto conto in Europa).

Per non parlare della presenza del "velo". Perché? 
Perché il ruolo principale è di un uomo e quando è stata una donna a interpretarlo, era una donna che si presentava sotto fattezze "maschili".

Affinché il pubblico dimenticasse che un ruolo maschile era interpretato da una donna e per giunta da una donna velata, la recitazione doveva assolutamente essere non dico impeccabile, ma almeno credibile.

2 mesi di lavoro e una importante scissione di ruoli. 

Il personaggio unico dell'attore che recita il ruolo di Pessoa in un manicomio (= il pubblico - inconsapevole d'essere parte integrante del testo - per larga parte della pièce) è stato scisso e interpretato da 4 attori (3 donne e 1 uomo). 

Grazie ai diversi stati d'animo del personaggio, ho estrapolato un attore/Pessoa intimo e sensibile, uno più virile, uno cinico e uno più razionale. Li ho differenziati con l'introduzione di un noeud papillon di colore diverso.

Il coro greco è stato composto da 4 ragazze in nero, irregimentate come militari (la coscienza del popolo, la coscienza perbenista) e Pirandello al telefono - seguendo l'esempio che fu già di mio marito, regista di questo spettacolo 18 anni fa con un altro gruppo studentesco, ma in Croazia - l'ho convocato in scena.

All'interno della pièce, ho introdotto due momenti di omaggio a Tabucchi, ma anche a Maria José de Lancastre con la lettura in due parti (per forza di cose ridotta) di Libri mai scritti, viaggi mai fatti (tratto da Si sta facendo sempre più tardi).

E poi musica, tanta, un po' di ballo e canto (in portoghese) di Cançao do Mar da parte di una studentessa dalla voce di usignolo.

Non dico altro. Metto qualche foto delle prove (anche in un parco, anche a casa mia, per mancanza di palchi), dell'attimo prima dello spettacolo vero e proprio, così come del dopo.

Capirete dagli sguardi, com'è andata.
















domenica 16 marzo 2014

Questionario La Locandiera di Goldoni


QUESTIONARIO per studenti che seguono il corso M22 Histoire du théâtre

I parte: dall'Atto I all'Atto II Scena 18 (inclusa) fino a: 1h 43' 25"

* * *

Pièce di Carlo Goldoni rappresentata per la prima volta durante il Carnevale, a Venezia, nel 1753. Si tratta di una commedia in tre atti.

Come ogni opera, c'è un dedicatario: in questo caso, Giulio Rucellai, fiorentino, professore di diritto all'università di Pisa. Da non dimenticare che Goldoni, laureato in giurisprudenza, aveva esercitato l'avvocatura anche a Pisa.

Il testo per intero, libero da copyright, è consultabile qui (wikisource, progetto teatro).

Per questo questionario, si prende come riferimento, l'allestimento di Franco Enriquez. 
Eccone la scheda tecnica:

LA LOCANDIERA
di Carlo Goldoni
(1965)
regia: Franco Enriquez
scene e costumi: Emanuele Luzzati
interpreti:
Valeria Moriconi (Mirandolina)
Paolo Graziosi (cavaliere di Ripafratta)
Glauco Mauri (marchese di Forlipopoli)
Giuseppe Porelli (conte di Albafiorita)
Luciano Melani (Fabrizio)
Adriana Innocenti (Ortensia)
Silvana De Santis (Dejanira)
Alessandro Esposito (servitore del Cavaliere)
Alfredo Piano (servitore del conte)
produzione: Teatro Stabile di Torino
debutto: Venezia, Campo San Zaccaria, 19 agosto 1965

La pièce qui di seguito è una ripresa televisiva dello spettacolo:



ATTO PRIMO
  1. Dove ci troviamo? (a) descrizione della scena e b) personaggi che aprono la scena
  2. Goldoni mette da subito in scena due personaggi. A) dire chi sono; B) dire in che cosa si distinguono (abbigliamento etc.)
  3. Perché il marchese è altezzoso con il conte? 
  4. Per quale motivo i due nobili soggiornano in quel luogo? 
  5. Da quanto tempo?
  6. Com'è possibile che una donna sia la padrona di una locanda?
  7. lessico: perché il marchese si adira quando Fabrizio lo chiama «Illustrissimo»? Come dovrebbe rivolgersi a lui?
  8. Qual è la morale dei "quattrini"? Che cosa è degno di stima?
  9. Qual è la caratteristica più importante del cavaliere di Ripafratta?
  10. Da quanto tempo è arrivato alla locanda?
  11. In che cosa Mirandolina è diversa dalle altre donne?
  12. In quale modo Mirandolina riesce a conquistare definitivamente il cuore del cavaliere?
  13. Rileggete questo scambio di battute tra Fabrizio e Mirandolina (Atto I sc. 10) e analizzatelo, dando la vostra interpretazione.

ATTO II 

  • lo svenimento di Mirandolina. Perché la donna finge di svenire?
  • quale effetto produce sul cavaliere?
  • qual è il suo (di lui) peccato di presunzione?
RIFLESSIONI

  1. Nobiltà spiantata vs ricchezza del parvenu
  2. Borghesia vs nobiltà (2 borghesi - Mirandolina e Fabrizio vs tre nobili - marchese, conte e cavaliere)
  3. commentare questo passaggio, quando - a proposito dell'amore verso Mirandolina che condivide col marchese - il conte dice al cavaliere: « Egli (Forlipopoli) pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io (Albafiorita) la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni». (Atto I Sc IV)

  4. La dichiarazione femminista ante litteram di Mirandolina (ma è un uomo che scrive il suo testo):
La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

Il cavaliere interpretato da Pino Micol (Mirandolina è Carla Gravina) 1986





I due condottieri a confronto: Antonello e Leonardo






Tutti conoscono il condottiero di Antonello da Messina.  Si dice sia opera del 1475. Si può ammirare al museo del Louvre, a Parigi, dove attira tutti gli sguardi sul suo, magnetico, con anche quel mento volitivo, quel naso importante e quella cicatrice cui si fa attenzione solo dopo aver posato gli occhi sulle labbra virili.
Ha il mento con fossetta - come certi attori americani -; gli occhi non sono verdi, bensì di un nocciola chiaro (forse l'occhio destro è glauco), ostenta una mascella virile sotto una cascata di capelli rossi, tipo il rosso mogano dell'ORÉAL.

Lo scrittore francese Georges Perec gli dedicò un romanzo, Le Condottière (pubblicato postumo), di cui si perderà ogni traccia durante un trasloco e la cui copia carbone dattiloscritta verrà ritrovata nel 1992 da un amico dello scrittore, dieci anni dopo la sua prematura scomparsa (dopo vari rifacimenti, il romanzo è stato pubblicato nella sua forma definitiva nel 2012).

Leggendo Linea di terra (ove il protagonista è il pittore Vittore Pisanello), non ho potuto fare a meno di vedere i tratti del Condottiere di Antonello nelle fattezze del sedicente Cosmo, personaggio a dir poco avventuriero e ambiguo del romanzo di Eduardo Rebulla, palermitano di nascita e di vita.

E poi...
Poi c'è Leonardo. Anzi, Leonardo è prima, ma solo di 2 anni.

Non è granché noto, non come l'altro. È un profilo di testa di guerriero - anzi, di condottiere - con tanto di elmo.

È datato (o databile?) intorno al 1472 ed è conservato a Londra, al British Museum.
Ecco la legenda: LEONARDO da Vinci Profile of a warrior in helmet. Silverpoint on prepared paper, 285 x 207 mm. British Museum, London


La cicatrice è sempre sul labbro, ma quello inferiore. Le guance si sono scavate e la pelle è scesa. Un doppio mento evidente circonda il mento all'americana. Il naso si è appesantito e nello sguardo, pur sempre virile, c'è un non so che di spento, di disilluso, di guardingo. Non pensa più a sedurre.

L'elmo, bizzarro, e l'armatura si fanno carico di annunciare la ferocia senza pari, la crudeltà, la forza senza pietas, che nel condottiero più giovane era tutta espressa dal volto.


Sembra lo stesso condottiere di Antonello da Messina, ma 20 anni dopo.




mercoledì 5 febbraio 2014

Preludio. Viaggi mai fatti (da Antonio Tabucchi)

Per Silvia, a proposito della poetica del viaggio...

AIX, Tabucchi riceve il dottorato honoris causa - photo by JSpaccini




In ricordo di Antonio Tabucchi



 
Amore mio,
ti ricordi quando non siamo andati a Samarcanda? Scegliemmo la migliore stagione dell’anno, l’inizio dell’autunno, i boschi e i cespugli intorno a Samarcanda, laddove scendono le colline aride e spunta la vegetazione, si infiammano di foglie rosse e giallo ocra, e il clima è dolce, diceva la nostra guida, ti ricordi la nostra guida? L’avevamo comprata in una piccola libreria dell’Ile Saint-Louis, Ulysse, specializzata in libri di viaggio […].
A Samarcanda si può arrivare in vari modi, diceva la guida, e il più rapido è l’aereo, ma certo è anche il più banale. Per esempio potete partire da Parigi, da Roma o da Zurigo e volare direttamente su Mosca, ma qui dovete pernottare, perché non esiste una coincidenza aerea per l’Uzbekistan che vi consenta di arrivare in serata. E: ci conveniva pernottare a Mosca? […]
Ma era la scelta più banale, perciò la lasciammo perdere di comune accordo. Era molto preferibile il viaggio via terra, il treno, e fu per quello che decidemmo: Orient-Express e poi o Transiberiana o via Teheran. L’Orient-Express, si sa, esercita il suo fascino anche sugli intellettuali più snob, come noi non ci consideravamo magari essendolo, ed è per questo che ci dicemmo: in treno, in treno. […]
Da dove si prendeva l’Orient-Express? Ma dalla Gare de Lyon, dalla Gare de Lyon! E in quella meravigliosa stazione, che cosa c’è? Ma il Train Bleu, il più affascinante ristorante di Parigi! Te lo ricordi? Certo che te lo ricordi, non puoi non ricordartelo. Il Train Bleu sono tre enormi sale con affreschi pompiers alle pareti, divanetti di velluto rosso, lampadari di Boemia e camerieri col giacchino e un tablier immacolato che ti dicono “Bienvenus, Messieurs Dames» con l’aria di chi non gliene frega niente. Tanto per cominciare ordinammo ostriche e champagne, perché due che non partono per Samarcanda con l’Orient-Express avranno pure diritto di cominciare così, no?  […]
(…) Il vero viaggio da non fare era Samarcanda. Io ne serbo un ricordo indimenticabile, e così nitido, così dettagliato come possono darlo solo le cose vissute davvero nell’immaginazione. Sai, leggevo un filosofo francese che ha osservato come l’immaginario obbedisca a delle leggi rigorose come quelle del reale. E l’immaginario, amore mio, non è affatto l’illusorio, che è davvero un’altra cosa. Samuel Butler era proprio un bel tipo, non solo per i fantastici romanzi che ha scritto, ma per la sua maniera di vedere la vita. Mi viene in mente una sua frase: «Posso tollerare la menzogna, ma non sopporto l’imprecisione». Amore mio, menzogne ce ne siamo dette molte nella nostra vita, e tutte le abbiamo accettate reciprocamente, perché erano così vere davvero nel nostro immaginario desiderante. Ma ce n’è stata una, o, se preferisci, una multipla intorno allo stesso fatto reale, che ci ha perduti per sempre, perché era una menzogna falsa, perché era l’illusorio, e l’illusorio è necessariamente impreciso, esiste solo nella nebbia dell’autoillusione.
Nei nostri sogni avevamo sempre fatto come Don Chisciotte che spinge il suo immaginario fino in fondo, un immaginario che presuppone la follia, purché essa sia esatta: esatta nella topografia del paesaggio reale che egli attraversa con la sua immaginazione. Avevi mai pensato che il Don Chisciotte è un romanzo realistico? E invece, un giorno, ecco che all’improvviso da Don Chisciotte tu diventi Madame Bovary, con la sua incapacità di delineare i contorni di ciò che desiderava, di decifrare il luogo in cui si trovava […] Non si può dire «era un premuroso signore che mi teneva compagnia», oppure «non credo fosse amore, piuttosto una specie di tenerezza». Non si possono dire cose così, amore mio, o almeno non potevi dirle a me (…): lui era solo un uomo di una certa età con cui andavi a letto. era un tuo amante che credevi fatto d’aria, ma che era di carne. È per questo che ti ricordo il viaggio che non facemmo a Samarcanda, perché quello sì che fu vero e nostro e pieno e vissuto. […]
Ti ricordi le ultime parole di Cechov? Certo che te ne ricordi, restammo entrambi strabiliati, fra l’altro né io né te avevamo mai saputo che Cechov morendo avesse detto «Ich sterbe». Già morì in una lingua non sua.  Che strano, vero? Amò sempre in russo, soffrì in russo, odiò (poco) in russo, sorrise (molto) in russo, visse sempre in russo e morì in tedesco.  […]
Ah, l’uso improprio che facemmo a Samarcanda delle ultime parole di Cechov! […] La prima volta fu in quella specie di torre di Babele chiamato Siab Bazaar: gli odori, le spezie, i copricapi, i tappeti, l’urlìo, la calca, la folla dove si mescolavano il Turkestan, l’Europa, la Russia, la Mongolia, l’Afghanistan e io mi fermai esterrefatto e gridai: «Ich sterbe!». E “sterbere” fu da allora una parola d’ordine, un obbligo, quasi un vizio. […]
Chissà perché decidemmo di non andarci, tu te lo ricordi?, io sinceramente no. Eravamo stanchi, questo è sicuro, e poi quel viaggio era stato così intenso, e pieno di emozioni e di immagini e di volti e di paesaggi, che ci sembrò di esagerare, è come quando entri in un museo troppo grande e troppo ricco e decidi di saltare alcune sale affinché il bello non si sovrapponga al bello già visto e diventando troppo annulli il ricordo del precedente. E poi la vita ci richiamava alla realtà, la vita quotidiana a volte concede alcune fessure, ma si richiudono subito.
Mi si è riaperta solo ora, quella fessura, dopo tanti anni. E così mi sono messo a ripensare alle cose che non si sono fatte, è un bilancio difficile ma necessario, a volte può anche dare una sorta di leggerezza, come una contentezza infantile e gratuita. […]
Lo sai, amore mio, non ti avrei scritto tutto questo se non fosse così tardi, cioè se io non fossi nel rovescio dell’estate, nei giorni di sole di un dicembre. Ma le pagine di quel romanzo che non scrissi mi hanno risvegliato quel viaggio che non facemmo, forse perché parlano di stelle, e ha tante stelle il cielo che è piccolo danno che ne cada l’una o l’altra, e noi cercammo di capirne la topografia, quel ventiquattro settembre di tanti anni fa, perché una notte intera del viaggio che non facemmo a Samarcanda la passammo all’osservatorio di Ulug Beg. Che sciocchezza studiare le stelle, vero? Per terra bisogna guardare, per terra, perché la vita ci obbliga sempre ad abbassare il capo.
In questi ultimi giorni mi sono messo a studiare un po’ di uzbeko. Ma così per scherzare, come si studiano certe lingue sul manualetto del perfetto viaggiatore, e poi ho letto che studiare le lingue a una certa età previene il morbo di Alzheimer.
Ti ricordi come ci sembrava buffa questa lingua quando la sentivamo parlare? Per esempio, “arrivederci”, che poi vuol dire addio, è una parola buffa perché sembra addirittura spagnola, si dice alvido. Ma forse la formula più buffa è men olamdan ko’z yaemapman. Che tuttavia è espressione letteraria. Quella più semplice, cioè familiare, è men ko’z o’ljapman. Sai cosa vuol dire?
È un verbo. Vuol dire Ich sterbe, mio caro amore.
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Estratto ridotto da me e tratto da «Libri mai scritti, viaggi mai fatti» in Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi. Romanzo in forma di lettere, Milano, Feltrinelli, 2001.
N.B. Se ne consiglia la lettura ascoltando il Preludio Atto I del Lohengrin di Richard Wagner