AIX, Tabucchi riceve il dottorato honoris causa - photo by JSpaccini |
In ricordo
di Antonio Tabucchi
Amore
mio,
ti
ricordi quando non siamo andati a Samarcanda? Scegliemmo la migliore stagione
dell’anno, l’inizio dell’autunno, i boschi e i cespugli intorno a Samarcanda,
laddove scendono le colline aride e spunta la vegetazione, si infiammano di
foglie rosse e giallo ocra, e il clima è dolce, diceva la nostra guida, ti
ricordi la nostra guida? L’avevamo comprata in una piccola libreria dell’Ile
Saint-Louis, Ulysse, specializzata in libri di viaggio […].
A
Samarcanda si può arrivare in vari modi, diceva la guida, e il più rapido è l’aereo,
ma certo è anche il più banale. Per esempio potete partire da Parigi, da Roma o
da Zurigo e volare direttamente su Mosca, ma qui dovete pernottare, perché non
esiste una coincidenza aerea per l’Uzbekistan che vi consenta di arrivare in
serata. E: ci conveniva pernottare a Mosca? […]
Ma
era la scelta più banale, perciò la lasciammo perdere di comune accordo. Era molto
preferibile il viaggio via terra, il treno, e fu per quello che decidemmo:
Orient-Express e poi o Transiberiana o via Teheran. L’Orient-Express, si sa,
esercita il suo fascino anche sugli intellettuali più snob, come noi non ci consideravamo
magari essendolo, ed è per questo che ci dicemmo: in treno, in treno. […]
Da
dove si prendeva l’Orient-Express? Ma dalla Gare de Lyon, dalla Gare de Lyon! E
in quella meravigliosa stazione, che cosa c’è? Ma il Train Bleu, il più
affascinante ristorante di Parigi! Te lo ricordi? Certo che te lo ricordi, non
puoi non ricordartelo. Il Train Bleu sono tre enormi sale con affreschi
pompiers alle pareti, divanetti di velluto rosso, lampadari di Boemia e
camerieri col giacchino e un tablier immacolato che ti dicono “Bienvenus,
Messieurs Dames» con l’aria di chi non gliene frega niente. Tanto per cominciare
ordinammo ostriche e champagne, perché due che non partono per Samarcanda con l’Orient-Express
avranno pure diritto di cominciare così, no?
[…]
(…)
Il vero viaggio da non fare era Samarcanda. Io ne serbo un ricordo
indimenticabile, e così nitido, così dettagliato come possono darlo solo le
cose vissute davvero nell’immaginazione. Sai, leggevo un filosofo francese che
ha osservato come l’immaginario obbedisca a delle leggi rigorose come quelle
del reale. E l’immaginario, amore mio, non è affatto l’illusorio, che è davvero
un’altra cosa. Samuel Butler era proprio un bel tipo, non solo per i fantastici
romanzi che ha scritto, ma per la sua maniera di vedere la vita. Mi viene in
mente una sua frase: «Posso tollerare la menzogna, ma non sopporto l’imprecisione».
Amore mio, menzogne ce ne siamo dette molte nella nostra vita, e tutte le
abbiamo accettate reciprocamente, perché erano così vere davvero nel nostro
immaginario desiderante. Ma ce n’è stata una, o, se preferisci, una multipla
intorno allo stesso fatto reale, che ci ha perduti per sempre, perché era una
menzogna falsa, perché era l’illusorio, e l’illusorio è necessariamente
impreciso, esiste solo nella nebbia dell’autoillusione.
Nei
nostri sogni avevamo sempre fatto come Don Chisciotte che spinge il suo
immaginario fino in fondo, un immaginario che presuppone la follia, purché essa
sia esatta: esatta nella topografia del paesaggio reale che egli attraversa con
la sua immaginazione. Avevi mai pensato che il Don Chisciotte è un romanzo realistico? E invece, un giorno, ecco
che all’improvviso da Don Chisciotte tu diventi Madame Bovary, con la sua
incapacità di delineare i contorni di ciò che desiderava, di decifrare il luogo
in cui si trovava […] Non si può dire «era un premuroso signore che mi teneva
compagnia», oppure «non credo fosse amore, piuttosto una specie di tenerezza». Non
si possono dire cose così, amore mio, o almeno non potevi dirle a me (…): lui
era solo un uomo di una certa età con cui andavi a letto. era un tuo amante che
credevi fatto d’aria, ma che era di carne. È per questo che ti ricordo il
viaggio che non facemmo a Samarcanda, perché quello sì che fu vero e nostro e
pieno e vissuto. […]
Ti
ricordi le ultime parole di Cechov? Certo che te ne ricordi, restammo entrambi
strabiliati, fra l’altro né io né te avevamo mai saputo che Cechov morendo
avesse detto «Ich sterbe». Già morì in una lingua non sua. Che strano, vero? Amò sempre in russo, soffrì
in russo, odiò (poco) in russo, sorrise (molto) in russo, visse sempre in russo
e morì in tedesco. […]
Ah,
l’uso improprio che facemmo a Samarcanda delle ultime parole di Cechov! […] La
prima volta fu in quella specie di torre di Babele chiamato Siab Bazaar: gli odori,
le spezie, i copricapi, i tappeti, l’urlìo, la calca, la folla dove si
mescolavano il Turkestan, l’Europa, la Russia, la Mongolia, l’Afghanistan e io
mi fermai esterrefatto e gridai: «Ich sterbe!». E “sterbere” fu da allora una
parola d’ordine, un obbligo, quasi un vizio. […]
Chissà
perché decidemmo di non andarci, tu te lo ricordi?, io sinceramente no. Eravamo
stanchi, questo è sicuro, e poi quel viaggio era stato così intenso, e pieno di
emozioni e di immagini e di volti e di paesaggi, che ci sembrò di esagerare, è
come quando entri in un museo troppo grande e troppo ricco e decidi di saltare
alcune sale affinché il bello non si sovrapponga al bello già visto e
diventando troppo annulli il ricordo del precedente. E poi la vita ci richiamava
alla realtà, la vita quotidiana a volte concede alcune fessure, ma si
richiudono subito.
Mi
si è riaperta solo ora, quella fessura, dopo tanti anni. E così mi sono messo a
ripensare alle cose che non si sono fatte, è un bilancio difficile ma
necessario, a volte può anche dare una sorta di leggerezza, come una contentezza
infantile e gratuita. […]
Lo
sai, amore mio, non ti avrei scritto tutto questo se non fosse così tardi, cioè
se io non fossi nel rovescio dell’estate, nei giorni di sole di un dicembre. Ma
le pagine di quel romanzo che non scrissi mi hanno risvegliato quel viaggio che
non facemmo, forse perché parlano di stelle, e ha tante stelle il cielo che è
piccolo danno che ne cada l’una o l’altra, e noi cercammo di capirne la
topografia, quel ventiquattro settembre di tanti anni fa, perché una notte
intera del viaggio che non facemmo a Samarcanda la passammo all’osservatorio di
Ulug Beg. Che sciocchezza studiare le stelle, vero? Per terra bisogna guardare,
per terra, perché la vita ci obbliga sempre ad abbassare il capo.
In
questi ultimi giorni mi sono messo a studiare un po’ di uzbeko. Ma così per
scherzare, come si studiano certe lingue sul manualetto del perfetto
viaggiatore, e poi ho letto che studiare le lingue a una certa età previene il
morbo di Alzheimer.
Ti
ricordi come ci sembrava buffa questa lingua quando la sentivamo parlare? Per esempio,
“arrivederci”, che poi vuol dire addio, è una parola buffa perché sembra
addirittura spagnola, si dice alvido.
Ma forse la formula più buffa è men olamdan
ko’z yaemapman. Che tuttavia è espressione letteraria. Quella più semplice,
cioè familiare, è men ko’z o’ljapman.
Sai cosa vuol dire?
È
un verbo. Vuol dire Ich sterbe, mio
caro amore.
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Estratto
ridotto da me e tratto da «Libri mai scritti, viaggi mai fatti» in Antonio
Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi. Romanzo in forma di lettere,
Milano, Feltrinelli, 2001.
N.B.
Se ne consiglia la lettura ascoltando il Preludio Atto I del Lohengrin
di Richard Wagner
1 commento:
Cara Artemide,
questa pagina, come del resto tutti i libri che parlano di viaggi, mi emoziona: "poesia" nella geografia, come sarà mai possibile? Cos'è che nella natura stessa del viaggio irrompe come "poesia"? Non saprei rispondere "scientificamente", ma ti assicuro che c'è una "scrittura" singolare nell'andirivieni tra un luogo e un altro, una "scrittura" diversa da persona a persona, diversa per sensibilità...fatta spesso di sofferenza, fatta di prese d'atto...fatta sopratutto di sguardi...
Ancora non riesco a dare un commento degno di questa pagina di Tabucchi. Ci ritorno.
GRAZIE,
Silvia
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