mercoledì 5 febbraio 2014

Preludio. Viaggi mai fatti (da Antonio Tabucchi)

Per Silvia, a proposito della poetica del viaggio...

AIX, Tabucchi riceve il dottorato honoris causa - photo by JSpaccini




In ricordo di Antonio Tabucchi



 
Amore mio,
ti ricordi quando non siamo andati a Samarcanda? Scegliemmo la migliore stagione dell’anno, l’inizio dell’autunno, i boschi e i cespugli intorno a Samarcanda, laddove scendono le colline aride e spunta la vegetazione, si infiammano di foglie rosse e giallo ocra, e il clima è dolce, diceva la nostra guida, ti ricordi la nostra guida? L’avevamo comprata in una piccola libreria dell’Ile Saint-Louis, Ulysse, specializzata in libri di viaggio […].
A Samarcanda si può arrivare in vari modi, diceva la guida, e il più rapido è l’aereo, ma certo è anche il più banale. Per esempio potete partire da Parigi, da Roma o da Zurigo e volare direttamente su Mosca, ma qui dovete pernottare, perché non esiste una coincidenza aerea per l’Uzbekistan che vi consenta di arrivare in serata. E: ci conveniva pernottare a Mosca? […]
Ma era la scelta più banale, perciò la lasciammo perdere di comune accordo. Era molto preferibile il viaggio via terra, il treno, e fu per quello che decidemmo: Orient-Express e poi o Transiberiana o via Teheran. L’Orient-Express, si sa, esercita il suo fascino anche sugli intellettuali più snob, come noi non ci consideravamo magari essendolo, ed è per questo che ci dicemmo: in treno, in treno. […]
Da dove si prendeva l’Orient-Express? Ma dalla Gare de Lyon, dalla Gare de Lyon! E in quella meravigliosa stazione, che cosa c’è? Ma il Train Bleu, il più affascinante ristorante di Parigi! Te lo ricordi? Certo che te lo ricordi, non puoi non ricordartelo. Il Train Bleu sono tre enormi sale con affreschi pompiers alle pareti, divanetti di velluto rosso, lampadari di Boemia e camerieri col giacchino e un tablier immacolato che ti dicono “Bienvenus, Messieurs Dames» con l’aria di chi non gliene frega niente. Tanto per cominciare ordinammo ostriche e champagne, perché due che non partono per Samarcanda con l’Orient-Express avranno pure diritto di cominciare così, no?  […]
(…) Il vero viaggio da non fare era Samarcanda. Io ne serbo un ricordo indimenticabile, e così nitido, così dettagliato come possono darlo solo le cose vissute davvero nell’immaginazione. Sai, leggevo un filosofo francese che ha osservato come l’immaginario obbedisca a delle leggi rigorose come quelle del reale. E l’immaginario, amore mio, non è affatto l’illusorio, che è davvero un’altra cosa. Samuel Butler era proprio un bel tipo, non solo per i fantastici romanzi che ha scritto, ma per la sua maniera di vedere la vita. Mi viene in mente una sua frase: «Posso tollerare la menzogna, ma non sopporto l’imprecisione». Amore mio, menzogne ce ne siamo dette molte nella nostra vita, e tutte le abbiamo accettate reciprocamente, perché erano così vere davvero nel nostro immaginario desiderante. Ma ce n’è stata una, o, se preferisci, una multipla intorno allo stesso fatto reale, che ci ha perduti per sempre, perché era una menzogna falsa, perché era l’illusorio, e l’illusorio è necessariamente impreciso, esiste solo nella nebbia dell’autoillusione.
Nei nostri sogni avevamo sempre fatto come Don Chisciotte che spinge il suo immaginario fino in fondo, un immaginario che presuppone la follia, purché essa sia esatta: esatta nella topografia del paesaggio reale che egli attraversa con la sua immaginazione. Avevi mai pensato che il Don Chisciotte è un romanzo realistico? E invece, un giorno, ecco che all’improvviso da Don Chisciotte tu diventi Madame Bovary, con la sua incapacità di delineare i contorni di ciò che desiderava, di decifrare il luogo in cui si trovava […] Non si può dire «era un premuroso signore che mi teneva compagnia», oppure «non credo fosse amore, piuttosto una specie di tenerezza». Non si possono dire cose così, amore mio, o almeno non potevi dirle a me (…): lui era solo un uomo di una certa età con cui andavi a letto. era un tuo amante che credevi fatto d’aria, ma che era di carne. È per questo che ti ricordo il viaggio che non facemmo a Samarcanda, perché quello sì che fu vero e nostro e pieno e vissuto. […]
Ti ricordi le ultime parole di Cechov? Certo che te ne ricordi, restammo entrambi strabiliati, fra l’altro né io né te avevamo mai saputo che Cechov morendo avesse detto «Ich sterbe». Già morì in una lingua non sua.  Che strano, vero? Amò sempre in russo, soffrì in russo, odiò (poco) in russo, sorrise (molto) in russo, visse sempre in russo e morì in tedesco.  […]
Ah, l’uso improprio che facemmo a Samarcanda delle ultime parole di Cechov! […] La prima volta fu in quella specie di torre di Babele chiamato Siab Bazaar: gli odori, le spezie, i copricapi, i tappeti, l’urlìo, la calca, la folla dove si mescolavano il Turkestan, l’Europa, la Russia, la Mongolia, l’Afghanistan e io mi fermai esterrefatto e gridai: «Ich sterbe!». E “sterbere” fu da allora una parola d’ordine, un obbligo, quasi un vizio. […]
Chissà perché decidemmo di non andarci, tu te lo ricordi?, io sinceramente no. Eravamo stanchi, questo è sicuro, e poi quel viaggio era stato così intenso, e pieno di emozioni e di immagini e di volti e di paesaggi, che ci sembrò di esagerare, è come quando entri in un museo troppo grande e troppo ricco e decidi di saltare alcune sale affinché il bello non si sovrapponga al bello già visto e diventando troppo annulli il ricordo del precedente. E poi la vita ci richiamava alla realtà, la vita quotidiana a volte concede alcune fessure, ma si richiudono subito.
Mi si è riaperta solo ora, quella fessura, dopo tanti anni. E così mi sono messo a ripensare alle cose che non si sono fatte, è un bilancio difficile ma necessario, a volte può anche dare una sorta di leggerezza, come una contentezza infantile e gratuita. […]
Lo sai, amore mio, non ti avrei scritto tutto questo se non fosse così tardi, cioè se io non fossi nel rovescio dell’estate, nei giorni di sole di un dicembre. Ma le pagine di quel romanzo che non scrissi mi hanno risvegliato quel viaggio che non facemmo, forse perché parlano di stelle, e ha tante stelle il cielo che è piccolo danno che ne cada l’una o l’altra, e noi cercammo di capirne la topografia, quel ventiquattro settembre di tanti anni fa, perché una notte intera del viaggio che non facemmo a Samarcanda la passammo all’osservatorio di Ulug Beg. Che sciocchezza studiare le stelle, vero? Per terra bisogna guardare, per terra, perché la vita ci obbliga sempre ad abbassare il capo.
In questi ultimi giorni mi sono messo a studiare un po’ di uzbeko. Ma così per scherzare, come si studiano certe lingue sul manualetto del perfetto viaggiatore, e poi ho letto che studiare le lingue a una certa età previene il morbo di Alzheimer.
Ti ricordi come ci sembrava buffa questa lingua quando la sentivamo parlare? Per esempio, “arrivederci”, che poi vuol dire addio, è una parola buffa perché sembra addirittura spagnola, si dice alvido. Ma forse la formula più buffa è men olamdan ko’z yaemapman. Che tuttavia è espressione letteraria. Quella più semplice, cioè familiare, è men ko’z o’ljapman. Sai cosa vuol dire?
È un verbo. Vuol dire Ich sterbe, mio caro amore.
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Estratto ridotto da me e tratto da «Libri mai scritti, viaggi mai fatti» in Antonio Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi. Romanzo in forma di lettere, Milano, Feltrinelli, 2001.
N.B. Se ne consiglia la lettura ascoltando il Preludio Atto I del Lohengrin di Richard Wagner

1 commento:

Silvia ha detto...

Cara Artemide,
questa pagina, come del resto tutti i libri che parlano di viaggi, mi emoziona: "poesia" nella geografia, come sarà mai possibile? Cos'è che nella natura stessa del viaggio irrompe come "poesia"? Non saprei rispondere "scientificamente", ma ti assicuro che c'è una "scrittura" singolare nell'andirivieni tra un luogo e un altro, una "scrittura" diversa da persona a persona, diversa per sensibilità...fatta spesso di sofferenza, fatta di prese d'atto...fatta sopratutto di sguardi...

Ancora non riesco a dare un commento degno di questa pagina di Tabucchi. Ci ritorno.

GRAZIE,
Silvia