domenica 22 gennaio 2012

Ciao, Maestro (Ricordando Vincenzo Consolo)

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo è morto il 21 gennaio 2012 a Milano, dove risiedeva da tantissimi anni. Andava per i 79 anni. Tutte le mie condoglianze alla sua sposa, Caterina Consolo. 

Conferenza IIC dedicata a Leonardo Sciascia nel ventennale della sua morte

Non posso dire di essere stata sua allieva, l'ho incontrato due sole volte nella mia vita, ho scritto una parte della mia  tesi di dottorato su di lui,  lui mi ha telefonato per ringraziarmi di un lungo articolo pubblicato su Stilos (supplemento letterario de La Sicilia). L'ho incontrato l'ultima volta il 30 ottobre 2009 a una conferenza parigina dell'Istituto Italiano di Cultura. Un po' più chiuso nelle sue spalle, un po' più mesto, sempre così gentile.

Lo scrittore era come l'uomo e sicuramente in questo caso è un complimento. Non so se rivolto maggiormente all'uomo o allo scrittore. 
Uomo schivo, gentile, apparentemente chiuso, timido, corretto, onesto, che aveva in orrore i compromessi e aveva eletto Milano a sua seconda patria. 
Un esempio di integrità. Nel pensiero e nello stile letterario.
Grazie, Vincenzo Consolo.  Ciao, maestro.



Metto qui di seguito l'inizio del capitolo della mia tesi in cui parlo di lui:


Con un quadro di Antonello da Messina a fare da tema di sfondo del romanzo, non c’è da meravigliarsi che nel 1969 Consolo inviasse in lettura il primo capitolo del suo Sorriso dell’ignoto marinaio a «Paragone», la rivista d’arte e letteratura di Roberto Longhi e Anna Banti. Invio del quale Longhi non aveva dato però alcun riscontro. Sicché, quando il giovane scrittore ebbe modo di rammentare se stesso e lo scritto al critico d’arte, ottenne da Longhi la seguente replica: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del Ritratto (1)  di Antonello che rappresenta un marinaio, deve finire!». Il critico sottintendeva: il pittore messinese dipingeva su commissione e a caro prezzo; come avrebbe potuto un povero marinaio permettersi un ritratto? A un marinaio non sarebbe mai venuto in mente di commissionarne uno. Fortuna volle che Enzo Siciliano fosse di diverso avviso e che pubblicasse quello che era ancora un racconto sulla rivista «Nuovi Argomenti», di cui all’epoca era il direttore. Il romanzo  uscirà nel 1976 presso Einaudi. Soffermarsi su quest’aneddoto (che lo stesso Consolo ha raccontato in Fuga dall’Etna)  è interessante non fosse altro perché, come egli ha poi osservato, uno scrittore legge un quadro non in chiave scientifica, bensì letteraria. Non è una differenza da poco, valesse pure per un solo romanzo. Fatto sta che Consolo  è tornato a percorrere i sentieri della pittura anche in Retablo)  e ne Lo spasimo di Palermo.  Per essere una coincidenza, comincia ad essere sospetta.
Si obietterà che altri sono i temi portanti delle opere di Vincenzo Consolo: la storia, la lingua, la politica, la cultura non solo della Sicilia, bensì dell’Italia tutta. Certo, ma la pittura può essere una chiave d’accesso recondita, non per questo meno forte e pervasiva, dello scrivere consoliano. Una via percorribile in margine, o se si preferisce, una sorta di corsia di emergenza. Ed è su questo terreno che ci si muoverà.
Facendo un passo indietro, Leonardo Sciascia ha scritto che il gioco delle somiglianze (2) è in Sicilia «una sonda delicata e infinitamente sensibile, uno strumento di conoscenza». Se ciò fosse vero, a chi somiglierebbe lo sconosciuto ritratto da Antonello?(*)

Aggiungo di seguito il link della Treccani ove figura un ottimo pezzo a firma Silverio Novelli (clicca qui)

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(1)  La tradizione lo vuole acquistato a Lipari nell'Ottocento dal barone Mandralisca per la sua collezione, che poco più tardi lascerà alla città di Cefalù. Nell'inventario che di questa collezione fece alla fine dell'Ottocento il Prof. Giuseppe Meli, la tavoletta fu attribuita ad Antonello da Messina e da questo momento l'attribuzione viene unanimamente accettata da tutti gli studiosi, che però non sono altrettanto concordi sulla datazione. Venturi (1915) lo data attorno al 1470, anche se per lui è posteriore al ritratto del Borghese ed a quello allora a Londra in collezione Willet e attualmente nel Metropolitan Museum di New York. Il Longhi (1953), lo vede ancora legato al tono tipologico siciliano, da cui Antonello si staccherà solo nel  1474.
(2) «A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?» si chiede Leonardo SCIASCIA (L’ordine delle somiglianze (1987) in: Cruciverba. Adelphi, Milano, 1998). «Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente assomiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore, un poeta, un sicario? Somiglia, ecco tutto». Il museo Madralisca di Cefalù è intitolato all’omonimo scienziato naturalista noto malacologo.

(*) Il resto sta qui
 

domenica 15 gennaio 2012

Tra un treno e l'altro (racconto)



Tra un treno e l’altro


racconto di Jacqueline Spaccini

L’ha vista seduta nello scompartimento C carrozza 193 d’un treno di dieci anni fa che sfogliava una carta geografica mentre al suo fianco scorreva imperterrito un paesaggio alpino, stanco e un po’ pieno di sé. Sarà stato per quel soprabito impeccabile e blu o forse per la falda del cappello anni ’40 sotto cui si scioglieva un’onda di capelli mogano… Sarà che Goethe aveva ragione (l’eterno femminino ci attira verso l’alto) e che lei era proprio lei, quella da sempre attesa, quella che già esiste allacciata ai nostri tendini fin da bimbi, sarà per quello che volete voi, Edoardo si innamorò di lei prima che potesse arrivare a scorgerne le gambe avvolte in calze 10 den. La prima cosa che pensò, senza neanche aver visto il colore dei suoi occhi fu: “Vorrei fare l’amore con questa donna”. Pensò, ma non disse nulla.
Non la rivide nei successivi dieci anni.

Ed oggi all’improvviso quando lei era null’altro che spina conficcata nell’intestino (da allora aveva inspiegabilmente sofferto di colite), è entrato nel caffè di questo hôtel che costeggia la strada ferrata e l’ha rivista. LEI. Un altro cappello, una cloche nera stavolta, su occhi bistrati di viola. Ancora non vede il colore dei suoi occhi. Edoardo è entrato per caso, è sceso dal treno per prendere una coincidenza… Non è sola, peccato. Di fronte a lei siede un’altra donna, una versione miniaturizzata di lei: si capisce subito che l’altra tenta di imitarla in tutto e per tutto. Infatti anche l’amica porta una cloche. Hanno ordinato un tè in coppette cinesi (che arroganza, quest’albergo!) e la luce che filtra dalla finestra non nasconde la scritta di un graffito murale che inizia per “SUE”. “Sue che? Susan, forse dovrei chiamarla Susanna, Susie, Sue… Che nome insulso! No, non può essere il suo”, pensa e non dice nulla Edoardo, bloccato all’ingresso del caffè. Pensa che forse è la sua ultima occasione per fermare questa donna (di tempo ne ha perso fin troppo), prima che sia troppo tardi: a occhio e croce, tra dieci altri anni, lei sarà sui cinquanta e certo neanche lui è più un fanciullo…
“Ora o mai più. Mi butto” pensa, e si dirige verso il tavolo dove siedono le due donne. Nessuno sembra fare caso a lui, la coppia del tavolo affianco è intenta a parlare sommessamente; fumano, e l’uomo si guarda le unghie. Brutto segno.
“Buongiorno, signora… signorina. Mi scusi, ma credo che ci siamo incontrati in un treno qualche tempo fa… Era nel…”
“Pardon?” fa lei.
“Oddio, è pure straniera!”, pensa terrorizzato Edoardo e subito vorrebbe recuperare gli anni di scuola in cui non volle mai approfondire lo studio delle lingue straniere.
“Ah, mi scusi. Ero soprappensiero. Mi dica… Ci siamo già conosciuti? E dove?” Edoardo ha l’impressione d’essere caduto di piatto nelle pagine d’un romanzetto rosa. Dieci anni che la cerca con gli occhi e tira fuori una frase da cliché. Con lei! Si può essere più banali? Lei nel frattempo ha perduto l’accento straniero. “Che dico ora? E se dalle toilettes sbuca un marito?” è solo un attimo, Edoardo conclude tra sé: “E se sbuca un marito, chissenefrega!”


Nessun marito sbucò per i successivi quindici anni. Siamo nel futuro e Sue si affaccia alla finestra: il tempo ha concesso una tregua. Ha sciacquato e riposto la tazzina del caffè ed ora metterà il suo cappello di paglia; va bene per agosto. Va bene per andare a trovare Edoardo, laddove riposa in pace da un mese. Poi prenderà un treno che la porti via da Cap Cod.
     
                                                                  Jacqueline Spaccini © 2003


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Edward Hopper:
1. Scompartimento C carrozza 193; 
 2. Suey’s Chop;
 3. Mattino a Cap Cod

giovedì 5 gennaio 2012

Mostra a Parigi: Exhibitions - L'Invention du Sauvage

Quando gli esseri umani venivano esibiti nei circhi

all photos by Jacqueline Spaccini ©2012
A Parigi, nelle sue ampie sale, il Museo Quai Branly (7e arrondissement) raccoglie ed espone collezioni di oggetti che appartengono alle cività dell'Africa, Asia Oceania e delle Americhe, con l'intento di diffondere la multiculturalità e  uno spirito di uguaglianza tra i popoli.


In questi giorni e fino al 3 giugno, il museo ospita la mostra Exhibitions : L'invention du sauvage (Esibizioni: l'invenzione del selvaggio). Si tratta di un lungo itinerario, ricco di foto, video (film che risalgono alla seconda metà del XIX secolo firmati: Fratelli Lumières) e testimonianze sulle conseguenze «mondane» della colonizzazione occidentale. 


Le esposizioni universali, le fiere e i circhi (come il Barnum) divennero i contenitori ideali e reali di un'attrazione nuova per il pubblico smaliziato (ma neanche troppo) dell'Europa benestante.

 

Le attrazioni erano costituite da persone appartenenti a tribù di zulù e/o pigmei trapiantati in massa in Francia, dentro riserve che assomigliano fin troppo a degli zoo. Oppure a gruppi di 3-4 uomini obbligati a saltellare con le catene alle caviglie e prendendo al volo brandelli di carne cruda (un po' come le foche)... Non di rado si vede la frusta, agitata in pubblico perloppiù come minaccia, anche se nel diario di una delle tante attrazioni di Amburgo, un Inuit (cioè un Eschimese), cristiano, vengono raccontati i tormenti cui lui, la sua famiglia e altri membri dello zoo umano sono sottoposti (tra cui, le frustate).  Nel giro di 4 mesi, perderà sua moglie e sua figlia, falciate da malattie banali, ma sconosciute e letali al popolo inuit. Nemmeno un anno dopo, sarà morto anche lui.




Ma non ci sono solo le popolazioni sottomesse dai colonizzatori a fare le belle statuine nelle varie esposizioni. Non c'è solo la ben nota e triste storia della Venere ottentotta (clicca qui). Tra il "materiale" esibito ci sono anche le persone nate con deformità. Ricorderete tutti il celebre film di David Lynch Elephant Man (1980) (qui di seguito una riproduzione dell'elephant man esibito nei circhi). E così tutta una serie di persone affette da nanismo e da gigantismo, di fratelli siamesi, di aberrazioni fisiche, di donne barbute, di esseri completamente ricoperti da peli lunghissimi (si vedono solo gli occhi), di persone tagliate a metà, etc.

C'è molto voyeurismo in noi, anche in noi che andiamo a vedere questa mostra, non bisogna nasconderselo. 

Alla fine di questa sconcertante (perlomeno per i più giovani) mostra, dopo aver visto tanti filmati (tutta una sezione è dedicata agli Indiani d'America, i pellirosse), c'è un'ultima sala in cui il visitatore viene interpellato sulle varie discriminazioni di oggi: testimonianze varie (e di vario tipo), immagini di persone di oggi a grandezza naturale, che chiedono a noi se sotto sotto non siamo razzisti davanti a un nero, un arabo, un nano (brutta parola, cui il francese cerca di porre rimedio con l'espressione personne de petite taille), un transessuale, una coppia gay, una donna grassissima...

E sulla domanda: E tu, tu come sei? Credi davvero di essere tanto diverso dai colonizzatori di 110 anni fa?, usciamo dalla mostra.





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Per raggiungere il museo: 
métro 9 ALMA-MARCEAU
bus 72