Si è svolta in questi giorni (3-12 nov.) la sedicesima edizione di MAC 2000, la Manifestazione d’Arte Contemporanea promossa dal Ministero della Cultura e dalla Città di Parigi: i 157 artisti presenti, pittori e scultori, scelti in base a un dossier di referenza e ad una visita dell’atelier da parte degli organizzatori, disponevano tutti di uno stand personale, in cui far conoscere (e vendere) le proprie opere ai visitatori paganti della mostra.
Tra i “21 scultori [che] aprono il 21° secolo”, c’era anche e soprattutto Alessandro Montalbano, trentotto anni, nativo di Catania, bresciano per filiazione materna, cresciuto a Roma, formatosi alle Belle Arti di Firenze e da dodici anni residente a Parigi.
“Ho lasciato l’Italia perché avevo bisogno di allontanarmi dall’idealismo fiorentino: amo i grandi maestri e rispetto il Classicismo, ma dovevo uscirne se volevo trovare me stesso.” E così, dal marmo al gesso, dalla terracotta al metallo, Montalbano è infine approdato a quel bronzo che Benvenuto Cellini ci rese caro. Montalbano è di quegli artisti che curano personalmente l’esecuzione dell’opera, dall’inizio alla fine (altri inviano il calco in fonderia e amen): prima la terracotta, poi la cera, il bronzo che cola e la saldatura finale. “Ma perché proprio il bronzo?”, gli chiedo. “E’ semplice: il marmo è puro, il legno riempie, il bronzo crea i vuoti… Ed io avevo bisogno in questa fase della mia vita di creare il vuoto attraverso il pieno, e di costruire un ritmo su e con questo vuoto. Il ritmo nella scultura è essenziale.” Il ritmo come estetica, come intimo, e forse inconfessato, desiderio di ordine, accompagna con grazia virile gli angeli, le donne ed i cavalli di quest’artista che preferisce fare a meno delle teste, perché – dice – “l’anima è nel corpo e non nella testa”-
. Un comune sostrato gioioso – l’istinto erotico e insieme anelito al divino – unisce l’idea dell’animale, alto, elegante snello a quella della donna, inevitabile armonia e dea terrestre dell’ispirazione: “possa tu delicata febbre vincere i demoni che seducono in me l’inevitabile (…) perché la nebbia si cancelli da questo buio carico del mio sudore”, scrive Montalbano alla sua musa. E se posiamo poi uno sguardo, l’ultimo, sui suoi angeli, essi ci ricordano, a contrario, quelli di Wim Wenders: se infatti nel Cielo sopra Berlino, essi si struggevano di farsi umani, perché inascoltati dai loro protetti, e dunque impotenti, gli angeli di Alessandro Montalbano anelano all’alto, come le loro ali che sembrano macchinosamente voler prendere il volo in uno slancio vitale che l’umanità bisognosa trattiene a terra. Una forza aerea centrifuga ma trattenuta, dunque, ed estroversa in ultima analisi, pervade l’opera di questo artista ancora – e per buona sorte – ignaro dell’affanno fisico dell’esistenza.
Jacqueline Spaccini
Paris novembre 2000
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