GÉRARD LE MEUR
SABBIE (1)
Ho incontrato, e riconosciuto, Gérard Le Meur. Perché non so, ma Gérard è uno che riconosci in mezzo agli altri. Non saprei nemmeno riuscire a raccontare la sua vita o riassumere quel che ha scritto. Una volta mi capitò sotto mano qualche frammento, raccolto alla bell’e meglio in un vecchio quaderno, annerito da una grafia finissima, quasi indecifrabile. Dopo, decisi di andarlo a trovare. Ma era profondamente malato.
Viveva (e vive ancora) in uno dei più modesti quartieri periferici di Parigi, di quelli che non conosceranno riabilitazione (se non tra vent’anni); stretto in uno spazio angusto, una monocamera da condividere con la compagna. Un po’ a casaccio, un po’ dappertutto, mucchietti di libri d’ogni genere (poesia, per lo più) a ingombrare ripiani e un tavolino. Accanto, oggetti di prima necessità, un divano, la piastra elettrica, lo scaldabagno, un lavandino…
Lo incontro nuovamente, mi dice di stare “meglio del solito”. Ha deciso (lo farà?) di non prendere più “quelle medicine che asfissiano”, di limitare al minimo necessario le visite dal medico, di voler evitare l’andirivieni con l’adiacente ospedale; persino “i lunghi soggiorni”. E’ concentrato e dispersivo insieme, colto o ignorante a richiesta, ora delicato ora sprezzante (soprattutto nei confronti di se stesso). Parla a voce bassa e talvolta il fiato si perde in un mormorio sommesso, biascicato, è lui stesso a definirli “mormorii d’una vita dimenticata”, “sabbie”, “silenzi”. Potevo immaginare la seconda vita di un Hölderlin.
In quest’occasione, parliamo, tra l’altro, di Nerval e del suo “attraversamento dell’Acheronte” – Gérard completa, con precisione perfetta, i versi del Desdichado, confusi nella mia memoria. Fa un cenno di consenso con la testa, quando leggendo i suoi poemi, avanzo ipotesi geopsicologiche e similitudini letterarie: tra un Rimbaud che insegue le sue “penisole al largo” e un Artaud che si libera dalla “crudeltà” del suo teatro quotidiano. Mi sembra più prossimo al primo per le sue derive, al secondo per il comune destino. Una vita da recluso in cui uscire di casa equivale quasi ad una scappatella: “In tutta la mia vita, sono andato una sola volta all’île de la Cité…”
Gérard Le Meur ha cinquant’anni (è nato a Parigi nel 1948, da padre bretone e madre parigina). Scrive “da sempre”. Forse iniziò, chissà dove e come, “ancor prima di nascere”. Quando lo cito, sorride. E d’improvviso si apre, proprio mentre gli parlo di certi suoi poemi, del modo secondo il quale intendo sceglierli. “Lascia pure perdere quel che ho potuto scrivere sotto effetto degli psicofarmaci – mi interrompe – te l’ho detto, asfissiano”. Gli mostro il testo della scelta fatta, già stampata. Lo scorre rapidamente, abbozzando un gesto di benedizione (poi mi ricorda che lui non è affatto credente, semmai anarchico, forse).
La donna che siede accanto a noi ha legato la sua vita a quella di questo bretone. Il destino stesso (se Gérard mi passa il termine) li ha uniti. Anche lei è fragile, vulnerabile, improvvisamente allegra e poi di nuovo ansiosa. Non dimenticherò la limpidezza adolescente del suo sguardo, la voce di cristallo, i lineamenti delicati del suo volto. Il suo nome, Selma, viene da lontano, dai suoi antenati bosniaci; la sua lingua materna è il francese – un francese straordinariamente puro. Se parlo qui di lei è perché è parte integrante della poesia di Gérard; anzi, lei è quella parte di poesia che si concede alla speranza, che impedisce l’approssimarsi definitivo dell’oscurità nichilista e disperante. “Ci siamo spartiti la sofferenza”, dice in sordina uno dei versi della raccolta.
Gérard accetterà, non senza stupore, la pubblicazione di una selezione dei suoi scritti. Ora sono molto lieto di poterne rileggere qualche frammento nella traduzione italiana, qui, nelle pagine di Linea d’ombra.
Ho voglia di rivedere lui e Selma. In qualche modo, la pubblicazione di questi versi un anno fa e, oggi, questa prima traduzione portano alla loro vita comune un piccolo segno di riconoscimento, giustifica e riassume nel contempo il male e la fiducia. Riconforta e salva dall’oblio, quello definitivo, visto che, se all’interno del suo ospedale psichiatrico, Gérard si rende ancora conto del cambio delle stagioni e del passaggio dal giorno alla notte, non è però più in grado di dire in quale mese dell’anno siamo, né che ore sono.
Non mi capita spesso di scrivere delle prefazioni così. D’altronde, non so se l’abbia mai fatto con altrettanta convinzione e complicità.
Roma-Parigi, maggio 1998
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)
da Sables:
VIII
Alla memoria di Patrice, anarchico
Morto adolescente
Il tiglio e l'edera rampicante
A crepitare nella pelle
Gli occhi straboccanti di febbre
Io ti chiamo così
Sogno di sangue e di memoria
Piangono il cielo e quel che vi è sopra
Fratello per la morte e per l’oblio.
Vieni tranquillo
Inutile ardore
A calmare l’urlo
Di colui che ti onora
Il fuoco che fu portato sulla terra
Provengono brividi dal vittimario
Ancora ossessionano lo spazio
E in questa notte senza traccia
Ti addormentasti per le città e anche
Per l’universo che sovrasta l’universo
Ombra e sarcasmo senza limiti
T’aspetta dunque il fanciullo
Che fisserà il suo mondo
E con un dito quest’universo
Sconvolgerà.
XV
Testamento
Quando la morte avrà preso la mia parte d’ombra
I vetri verranno chiusi dalle rose
Come il sale alla sabbia si confonde
Come il vinco alle dita si lega
Dirò addio a Lazzaro
Nell’attesa di te le mie labbra saranno
Per tutto il tempo che occorrerà
E ti accoglierò per un nuovo sogno,
Un corpo abitato dalle macerie
Della notte.
XXXIV
Non vedo che il buio lentamente agitarsi,
E l’alba che si leva dopo una notte di esilio
Si rovescia al crepuscolo il battello d’abete
La terra è rivoltata dallo sguardo dei morti
O notte aperta offri i tuoi occhi
Ai chiarori della mia mente
Parla a codesta testa avvolta nel drappo del lutto
(Per nascondervi le lacrime)
Acropoli ha distrutto il sole di mezzanotte
E il ghiaccio col suo mistero
E l’aurora col suo frutto
Ecco appressarsi il tempo della menzogna
E del sogno ove l’oblio come arcobaleno dorme
Sulle Ande su cui cantava il continente di fuoco
Ferruginosa terra in preda alla tormenta
Tu che avesti le mani bianche
Giovinetta di anche
Sento il mio cuore spezzato
Dalla vita sconfessato.
XLIII
La notte ti restituirò e l’autunno e settembre
Zuppi di sale e glicini i tetti
Ecco che tornavano gli uccelli
Per questi inseguiti cieli
Salivano altre colline
Le tre rose del libro avrà ucciso l’estate
Vi appassivano le foglie ingiallite dell’erbario
Senza viso né fiato e senza selce da ascoltare
A trappole assomigliano i sognatori di stasera
Attorno a me restano cosa incerta i rumori
Il resto del poema divoreranno gli uccelli.
XLVI
Le lettere del vespro e
Quelle del mattino
Del vespro che soffoca e si spenge
Stanchezza del lavoro addormentato
Sotto la carta assorbente vicino al gelsomino
Il cui filare fa da cammino
Del mattino dall’eterna erbetta
La fuga delle strade
La corsa dove il respiro come
Un arco si tende
Corpo ove le nubi si addensano
Presso un fumo aspro
Di città in cui i battelli
Scaricano l’aria di un cielo
Senza prigione né dolore.
LIV
Di lontano, dal cielo che si illumina
Di certo non ci si batte per la pioggia
Né per i rami frondosi
E nemmeno per l’acqua dei baci passeggera
L’aridità della gola
Delle infinite estati del vento
Il morso che t’offro
Più a nessuno servirà
Si richiude la porta su di noi
Nell’ora in cui tacciono gli usignoli
Sigillo son rimaste le tue labbra
– Dai tuoi ai miei –
forgiando un’identica assenza
I tuoi occhi rovesciati dal cielo
Fuggono lo sguardo assente e vuoto
guarda, gli uccelli ti abbandonano.
LV
Quando cessa il tempo d’amare
La luce soffia la speranza
E il ricordo del verbo
Porta la nuova primavera.
(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)
Parigi, agosto 1998
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