sabato 8 novembre 2008

Le Sabbie di Gérard Le Meur


GÉRARD LE MEUR

SABBIE (1)

PREFAZIONE DI PREDRAG MATVEJEVIĆ

Ho incontrato, e riconosciuto, Gérard Le Meur. Perché non so, ma Gérard è uno che riconosci in mezzo agli altri. Non saprei nemmeno riuscire a raccontare la sua vita o riassumere quel che ha scritto. Una volta mi capitò sotto mano qualche frammento, raccolto alla bell’e meglio in un vecchio quaderno, annerito da una grafia finissima, quasi indecifrabile. Dopo, decisi di andarlo a trovare. Ma era profondamente malato.

Viveva (e vive ancora) in uno dei più modesti quartieri periferici di Parigi, di quelli che non conosceranno riabilitazione (se non tra vent’anni); stretto in uno spazio angusto, una monocamera da condividere con la compagna. Un po’ a casaccio, un po’ dappertutto, mucchietti di libri d’ogni genere (poesia, per lo più) a ingombrare ripiani e un tavolino. Accanto, oggetti di prima necessità, un divano, la piastra elettrica, lo scaldabagno, un lavandino…

Lo incontro nuovamente, mi dice di stare “meglio del solito”. Ha deciso (lo farà?) di non prendere più “quelle medicine che asfissiano”, di limitare al minimo necessario le visite dal medico, di voler evitare l’andirivieni con l’adiacente ospedale; persino “i lunghi soggiorni”. E’ concentrato e dispersivo insieme, colto o ignorante a richiesta, ora delicato ora sprezzante (soprattutto nei confronti di se stesso). Parla a voce bassa e talvolta il fiato si perde in un mormorio sommesso, biascicato, è lui stesso a definirli “mormorii d’una vita dimenticata”, “sabbie”, “silenzi”. Potevo immaginare la seconda vita di un Hölderlin.

In quest’occasione, parliamo, tra l’altro, di Nerval e del suo “attraversamento dell’Acheronte” – Gérard completa, con precisione perfetta, i versi del Desdichado, confusi nella mia memoria. Fa un cenno di consenso con la testa, quando leggendo i suoi poemi, avanzo ipotesi geopsicologiche e similitudini letterarie: tra un Rimbaud che insegue le sue “penisole al largo” e un Artaud che si libera dalla “crudeltà” del suo teatro quotidiano. Mi sembra più prossimo al primo per le sue derive, al secondo per il comune destino. Una vita da recluso in cui uscire di casa equivale quasi ad una scappatella: “In tutta la mia vita, sono andato una sola volta all’île de la Cité…”

Gérard Le Meur ha cinquant’anni (è nato a Parigi nel 1948, da padre bretone e madre parigina). Scrive “da sempre”. Forse iniziò, chissà dove e come, “ancor prima di nascere”. Quando lo cito, sorride. E d’improvviso si apre, proprio mentre gli parlo di certi suoi poemi, del modo secondo il quale intendo sceglierli. “Lascia pure perdere quel che ho potuto scrivere sotto effetto degli psicofarmaci – mi interrompe – te l’ho detto, asfissiano”. Gli mostro il testo della scelta fatta, già stampata. Lo scorre rapidamente, abbozzando un gesto di benedizione (poi mi ricorda che lui non è affatto credente, semmai anarchico, forse).

La donna che siede accanto a noi ha legato la sua vita a quella di questo bretone. Il destino stesso (se Gérard mi passa il termine) li ha uniti. Anche lei è fragile, vulnerabile, improvvisamente allegra e poi di nuovo ansiosa. Non dimenticherò la limpidezza adolescente del suo sguardo, la voce di cristallo, i lineamenti delicati del suo volto. Il suo nome, Selma, viene da lontano, dai suoi antenati bosniaci; la sua lingua materna è il francese – un francese straordinariamente puro. Se parlo qui di lei è perché è parte integrante della poesia di Gérard; anzi, lei è quella parte di poesia che si concede alla speranza, che impedisce l’approssimarsi definitivo dell’oscurità nichilista e disperante. Ci siamo spartiti la sofferenza”, dice in sordina uno dei versi della raccolta.

Gérard accetterà, non senza stupore, la pubblicazione di una selezione dei suoi scritti. Ora sono molto lieto di poterne rileggere qualche frammento nella traduzione italiana, qui, nelle pagine di Linea d’ombra.

Ho voglia di rivedere lui e Selma. In qualche modo, la pubblicazione di questi versi un anno fa e, oggi, questa prima traduzione portano alla loro vita comune un piccolo segno di riconoscimento, giustifica e riassume nel contempo il male e la fiducia. Riconforta e salva dall’oblio, quello definitivo, visto che, se all’interno del suo ospedale psichiatrico, Gérard si rende ancora conto del cambio delle stagioni e del passaggio dal giorno alla notte, non è però più in grado di dire in quale mese dell’anno siamo, né che ore sono.

Non mi capita spesso di scrivere delle prefazioni così. D’altronde, non so se l’abbia mai fatto con altrettanta convinzione e complicità.

Roma-Parigi, maggio 1998

(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)

da Sables:

VIII

Alla memoria di Patrice, anarchico

Morto adolescente

Il tiglio e l'edera rampicante

A crepitare nella pelle

Gli occhi straboccanti di febbre

Io ti chiamo così

Sogno di sangue e di memoria

Piangono il cielo e quel che vi è sopra

Fratello per la morte e per l’oblio.

Vieni tranquillo

Inutile ardore

A calmare l’urlo

Di colui che ti onora

Il fuoco che fu portato sulla terra

Provengono brividi dal vittimario

Ancora ossessionano lo spazio

E in questa notte senza traccia

Ti addormentasti per le città e anche

Per l’universo che sovrasta l’universo

Ombra e sarcasmo senza limiti

T’aspetta dunque il fanciullo

Che fisserà il suo mondo

E con un dito quest’universo

Sconvolgerà.

XV

Testamento

Quando la morte avrà preso la mia parte d’ombra

I vetri verranno chiusi dalle rose

Come il sale alla sabbia si confonde

Come il vinco alle dita si lega

Dirò addio a Lazzaro

Nell’attesa di te le mie labbra saranno

Per tutto il tempo che occorrerà

E ti accoglierò per un nuovo sogno,

Un corpo abitato dalle macerie

Della notte.

XXXIV

Non vedo che il buio lentamente agitarsi,

E l’alba che si leva dopo una notte di esilio

Si rovescia al crepuscolo il battello d’abete

La terra è rivoltata dallo sguardo dei morti

O notte aperta offri i tuoi occhi

Ai chiarori della mia mente

Parla a codesta testa avvolta nel drappo del lutto

(Per nascondervi le lacrime)

Acropoli ha distrutto il sole di mezzanotte

E il ghiaccio col suo mistero

E l’aurora col suo frutto

Ecco appressarsi il tempo della menzogna

E del sogno ove l’oblio come arcobaleno dorme

Sulle Ande su cui cantava il continente di fuoco

Ferruginosa terra in preda alla tormenta

Tu che avesti le mani bianche

Giovinetta di anche

Sento il mio cuore spezzato

Dalla vita sconfessato.

XLIII

La notte ti restituirò e l’autunno e settembre

Zuppi di sale e glicini i tetti

Ecco che tornavano gli uccelli

Per questi inseguiti cieli

Salivano altre colline

Le tre rose del libro avrà ucciso l’estate

Vi appassivano le foglie ingiallite dell’erbario

Senza viso né fiato e senza selce da ascoltare

A trappole assomigliano i sognatori di stasera

Attorno a me restano cosa incerta i rumori

Il resto del poema divoreranno gli uccelli.

XLVI

Le lettere del vespro e

Quelle del mattino

Del vespro che soffoca e si spenge

Stanchezza del lavoro addormentato

Sotto la carta assorbente vicino al gelsomino

Il cui filare fa da cammino

Del mattino dall’eterna erbetta

La fuga delle strade

Crocevia alle (com)piante (2)

La corsa dove il respiro come

Un arco si tende

Corpo ove le nubi si addensano

Presso un fumo aspro

Di città in cui i battelli

Scaricano l’aria di un cielo

Senza prigione né dolore.

LIV

Di lontano, dal cielo che si illumina

Di certo non ci si batte per la pioggia

Né per i rami frondosi

E nemmeno per l’acqua dei baci passeggera

L’aridità della gola

Delle infinite estati del vento

Il morso che t’offro

Più a nessuno servirà

Si richiude la porta su di noi

Nell’ora in cui tacciono gli usignoli

Sigillo son rimaste le tue labbra

– Dai tuoi ai miei –

forgiando un’identica assenza

I tuoi occhi rovesciati dal cielo

Fuggono lo sguardo assente e vuoto

guarda, gli uccelli ti abbandonano.


LV

Quando cessa il tempo d’amare

La luce soffia la speranza

E il ricordo del verbo

Porta la nuova primavera.

(traduzione dal francese di Jacqueline Spaccini)

Parigi, agosto 1998

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Pubblicato da Linea d'ombra. Milano, n°136, settembre 1998, pp.42-45



(1) Sables, poèmes. L’Esprit des Péninsules, 1997, pagine non numerate.

(2) Il gioco di parole in francese era tra plantes (piante) et plaintes (lamenti). Tradurre letteralmente avrebbe fatto perdere l’effetto congiunto dato dai significanti e significati (N.d.T.).

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