di Jacqueline Spaccini
Le poesie de Le gialle colline e il mare, che qui prendo in esame, antologizzano (tranne l'ultima sezione, quella degli inediti, che è la più recente in ordine di tempo) precedenti raccolte di Antonio Catalfamo, di cui riproducono il titolo: Diario Pavesiano (1999), Passato e presente (1993), L'eterno cammino (1995).
Ora, se l’intertestualità nel testo di Catalfamo fosse qualcosa di sottaciuto, ignaro al lettore come al poeta, l’omaggio, e anzi, la proiezione identitaria in Pavese, sarebbe qui manifesta. Il poeta, questo, è tra quei pochi che rivelino tra le righe il suo afflato d’amorosi versi col Maestro delle Langhe perdute (Anch’io poeta, anch’io folle/…/nel dialogo intertestuale con Pavese. Curioso intreccio di vite parallele e diacroniche, quello tra un piemontese scomparso oltre cinquant’anni fa e un siciliano di oggi: garbuglio, a mio sentire, che trova la sua climax nell’ultimo pugno di liriche di Pavese, quelle che furono rinvenute in un cassetto della casa editrice Einaudi, poco dopo la sua dipartita. Penso a La terra e la morte.
Premetto che non si parlerà, qui, dell’impegno politico dei due, né delle loro connessioni più acutamente intellettuali. Sceglierò, bensì, di estrapolare da una summa di componimenti un comune alito di visione fotosensibile della donna – filtro degli occhi-parola –, per mostrare come Catalfamo se ne affranchi infine per proseguire da solo il volo, forte della sua ardimentosa vis poetica, quale un conquistador.
Non è il corpo femminile in toto ad esser invocato nelle pagine e nei versi, no. Si impongono busti e grembi, come nella migliore tradizione poetica. E poi: gambe, labbra e occhi. Giovani sono i seni delle fanciulle richiamate, in Catalfamo: frequente è il ricorso all’analogia; sono smunti come zinne di gattina, spesso acerbi e affamati come mammelle di capretta. Di rado rigogliosi o gonfi come otri, germogliano come corbezzoli o s’involano, rapidi, come colombe selvatiche e profumano di cedro carnoso. E del frutto mediterraneo ne hanno la durezza, quando non rievocano la fresca gonfiezza delle uve che ancora sanno di mosto, fonte di abbeveraggio del viaggiatore stordito e beato dal suo stupore. In un continuo zoom, i seni si fanno metonimicamente capezzoli. Per coglierli nella loro integrità, Catalfamo confeziona una cesta ideale di frutta saporosa in cui l’uva fragola e l’aspra cotogna si accompagnano a prugne, capperi, olive e mandorle o alle noci ancora avvolte nel verde e inquietante mallo.
come pampini al sole d’agosto.
Tra poco saremo lontani,
divisi dal verde corpo della penisola.
Nella mia terra i pigiatori balleranno nel palmento,
a piedi nudi, i pollici sotto le ascelle,
seguendo un ritmo che hanno nel sangue.
Il mosto scorrerà caldo negli otri,
come al tempo di Omero.
Concia porterà in testa ceste d’uva,
i fianchi solidi sotto il carico.
Tu, bianca Elena, Signora delle vigne,
delle stanze semibuie,
che odorano d’olio appena munto,
scivolerai sui lini freschi di bucato,
ed io succhierò ai capezzoli uva fragola,
aspri cotogni ai confini ormai lacerati
Tu sei l’autunno rosso d’uva puttanella.
Le labbra senza obliare dicono l’oblio
e i seni rigogliosi si librano nell’aria
come colombi impauriti dallo sparo.
Baciami, eterna primavera delle cosce,
bianca Sibilla odorosa di bosco, di mele e di cotogne,
dolci conserve della mia infanzia.
L’inverno bussa alle porte,
prepara il lume a petrolio
fichi secchi e noci per le veglie di Natale.
Il fulmine brucia le casette di legno,
i fiumi rovinano a valle
come eserciti in fuga nella polvere.
Ed io cerco rifugio nel tuo ventre di miele.
Il sesso femminile non fa eccezione e l’immagine traslata imperversa: sorge un fiore di pesco tra le gambe, come si fosse in un dipinto preraffaelita; e il suo frutto prematuro è stretto dagli ossimori. Più dappresso, esso si rende oscuro nella selva metaforica del poeta: si fa muschio ed erba a corredo di seni spinosi; fitto noccioleto di lago, e a centottanta gradi, ramo simbolicamente di mirto. Prestiti pavesiani i cui pudìchi gherigli di noce finiscono per non accontentare più il poeta, sì che prepotentemente soave urla il mare e arde la campagna siciliana. Lo strumento di piacere si fa conchiglia madreperlacea, caldo nido di gabbiani, spiga ondeggiante e giara di coccio da cui tracima un denso olio, miele, resina profumata.
I pescatori cantavano la cialoma.
puntavano gli arpioni
sulla gabbia della morte,
aspettando con ansia
che il mare si tingesse di rosso.
La donna dalla voce rauca
apparve all’improvviso
nei nostri sogni,
gli zigomi, i seni
scolpiti dalla salsedine,
il sangue rappreso nelle pupille,
il sesso coperto di ogliastro e loto,
poi sparì all’improvviso
nello squamarsi del sole.
Il mito pavesiano cambia
dimensione spazio-temporale
e tu sei dolce malvasia,
verde cappero ai capezzoli,
solitario sulla roccia,
scavata in mille anfratti,
caldo nido di gabbiano,
che barcolla nell’aria,
ubriaco di sole.
Tu vegetavi,
esplodevano fiori rossi
dai capezzoli-stame,
ed io baciavo siepi di more,
ti segnavo i fianchi
con le dita inchiostrate.
Vegetavano oleandri
dal sesso alato,
sambuchi nodosi
dai ginocchi,
ed io tornavo bambino,
estraevo inchiostro verde
dalle foglie,
ti scrivevo versi vegetali
Una donna intera invero non c’è, semmai un campionario di zone erotiche più care all’autore: sezionato, segato e isolato nelle singole membra, rielaborato al calore della parola immaginifica, il corpo femminile più non procura strazi. Semmai godimento per gli occhi ed i sensi. Non v’è traccia di dolore rappreso nelle liriche di Catalfamo, che pure spessissimo convocano persone e personaggi pavesiani. Ma in essi la metafora è tutta la poesia. Una donna può essere fiato, può essere terra, mai è ricondotta a metonimia, se non per un breve attimo. Pavese dialoga (ricorrente è il tu) con la donna amata, anche se il suo è un intessere le parole col vento. Il corpo di una donna, non è mai solamente un corpo ed ella non appartiene alle cose. Si rileggano i versi che seguono:
Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
(…)
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
(…) 27/10/1945
(…)
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
T’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.
29/10/1945
(…)
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.
(…)
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un’ombra di luna.
(…)
30-31/10/1945
Di salmastro e di terra
è i tuo sguardo. Un giorno
hai stillato il mare.
Ci sono state piante
Al tuo fianco, calde,
sanno ancora di te.
L’agave e l’oleandro.
Tutto chiudi negli occhi.
Di salmastro e di terra
hai le vene, il fiato.
(…)
Come la roccia e l’erba,
come terra, sei chiusa;
ti sbatti come il mare.
La parola non c’è
che ti può possedere
o fermare.
(…)
Sei riarsa come il mare,
come un frutto di scoglio,
e non dici parole
e nessuno ti parla.
15/11/1945
La parola non c’è che ti può possedere o fermare, scrive Pavese. Diversamente in Catalfamo. Facciamo un esempio. Per il poeta di S. Stefano Belbo, le olive del [s]uo sguardo [quello della donna ambita] addolciscono il mare; nelle olive di altri occhi, eco del cantore siciliano, si vede riflessa la spiaggia, che si fa bassa costiera. Sembrano dire la stessa cosa, i due poeti, ma così non è. In uno, lo sguardo ha potere di Circe che comanda le acque, addomesticandole; nell’altro, esso si fa specchio, catino, veicolo di un altrove spaziale. Un altro esempio: la natura selvatica che fa da sfondo, da metafora, talvolta irrompe sulla scena, rivendicando per sé un ruolo da protagonista. In Pavese è una natura sbattuta dal vento, le albe sono fredde, i venti rinsecchiscono le cose togliendo loro la vita, riarso è il mare, buio è il silenzio, l’ombra lunare. In Catalfamo, saturi sono i colori delle biche, d’un candore senza eguali le lenzuola, denso è l’olio che tracima dal sesso/giara della donna. Persino i baci sono rossi come angurie ed i gerani esplodono ite-Melita di tutto si alimenta: la divinità fenicia, che si è fatta superbanei balconi: eros è onnipresente nelle sue liriche; laddove c’è pudicizia o smarrimento, Catalfamo invoca rondini e colombe che tosto s’involano, ma caldo è il nido del gabbiano che si fa arnia, albero di farfalle, conchiglia dall’impervio passaggio.
Quelle di Pavese erano donne di carne cui il poeta si rivolgeva come miti; quelle di Catalfamo sono donne mitiche che si fanno (attingendo alla realtà quotidiana) carne. Neppure il flusso mestruale vien loro risparmiato (lo squasso del sangue/rappreso tra le gambe, giacché la triade Astarte-Afrod straordinariamente raffinata presso i Greci, è ricondotta alla sua terrestrità dal terzo elemento, Melita (riferito alla nobile siciliana Giuseppina Melita, madre di Bianca Garufi), simbolo di fecondità. Ma anche dea terribile, femme fatale, se – non più provenzale, oitanica, bianca vestale del finamore –, bacia sulle labbra il capo mozzato del Battista.
Jacqueline Spaccini
Roma, 2004
Antonio Catalfamo, Le gialle colline e il mare. San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2004, pp. 126. Introduzione di Roberto Roversi.
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