Dragan Mihaijlovic (1950) |
Questo post è dedicato ai pittori d'arte naïf di una Jugoslavia che fu e ha come testo di riferimento un libro di 84 interviste qui in lingua francese curato da Nebojša Tomašević dal titolo L'Art naïf en Yougoslavie, edito in Belgio e stampato in Italia; non reca né il nome del traduttore né l'anno di pubblicazione (un piccolo 1975, senza il logo del copyright, compare in basso a sinistra in una pagina del libro).
Tutto quanto scriverò sarà frutto [da me tradotto in italiano] della lettura di questo testo. Alla scuola di Hlebine, accennavo tre anni fa, ma velocemente, qui.
* * *
Franjo Mraz |
Tutto nasce quando quella terra si chiama ancora Jugoslavia, a Hlebine, un villaggio croato a nord-est di Zagabria, verso l'Ungheria. Tutto nasce attorno ad alcuni pittori autodidatti: Ivan Generalić (1914-1992), Franjo Mraz (1910-1981), Mirko Virius (1889-1943) e Janko Brašić (1906-1994) per primo in Serbia. La scuola di Podravina (o di Hlebine, a seconda che si scelga la regione o il nome del villaggio) vede concentrarsi ben presto in una zona croata un gran numero di pittori autodidatti, agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso.
Nel 1975 si sfiorano le 700 unità di pittori, tra contadini e operai, imbianchini, fattori e giardinieri, mugnai, pescatori e pensionati d'ogni sorta. Prima degli anni Trenta, tuttavia, questa gente dipingeva già (qualcuno inizia da bambino) oppure faceva altre attività creative di tipo artigianale, del genere folkloristico, ma lo teneva nascosto, come fosse un vizio, scrive l'autore del testo in questione. Perché allora a un certo momento, comincia a fiorire e a farsi conoscere tale arte fuori di casa?
Franjo Mraz |
Da questa domanda scaturiscono le 84 interviste del libro.
Il territorio è fertile: «si fa fatica ad immaginare un agricoltore britannico o americano che si dia alla pittura, dedicando cuore e anima a un'attività artistica, come faranno i pittori-contadini in Jugoslavia», poiché l'arte popolare riesce difficilmente a sopravvivere in Paesi fortemente industrializzati come possono esserlo le società anglofone, ove la produzione e la meccanizzazione finiscono per indebolire i legami che uniscono il contadino alla sua terra.
Mirko Virius |
Ivan Generalic |
È bene che si sappia: i popoli della ex-Jugoslavia hanno sempre accordato un'importanza grandissima alla poesia, alla natura, al contatto pudìco e incontaminato con le cose. C'è un'anima profonda, una spiritualità insita nei suoi popoli che ignora il materialismo più ancorato. E questo non lo dice il libro, lo dico io che ho trascorso qualche anno in quei luoghi.
Ma torniamo agli anni Trenta. Tutto ha inizio da una protesta sociale dei giovani di Hlebine, «villaggio adagiato su una pianura soggetta alle inondazioni» che si estende nella regione croata della Podravina, cioè «intorno alla Drava», affluente del Danubio. I contadini-pittori espongono - attraverso la pittura - la loro protesta «all'ingiustizia sociale e agli oneri economici» dell'epoca. Qualcuno continuerà a conoscere per tutta la vita un'esistenza di stenti e di sofferenze, come Mirko Virius - cupo dilettante di campagna - che troverà la morte nel campo di concentramento nazista di Zemun [Tomasevic sottolinea che l'artista verrà fucilato dall'occupante tedesco (Zemun si trova alla periferia di Belgrado). Non ho trovato conferma altrove].
Gli altri due capifila della scuola sono, come detto, Ivan Generalic (diverranno pittori famosi anche suo figlio Josip e suo nipote - il figlio di Josip - Goran) e Franjo Mraz.
I. Generalic |
Ivan Generalic è rimasto a Hlebine, «la fonte da cui [ha] continua[to] ad attingere la sua ispirazione» e ha rappresentato l'amico Virius morto, su di un prato verde con gli occhi bendati, circondato da ceri accesi e dal gallo di Podravina, «ornamento d'obbligo d'ogni fattoria della regione». Si nota, ma solo in un secondo momento, che la cinta di protezione del prato in realtà non è altro che filo spinato (quello del campo di concentramento dove morì Virius).
A dire il vero, nell'intervista che rilascia, Generalic racconta che all'inizio non fu bene accolto come pittore nel suo villaggio. Il fatto è che non sapeva ben dipingere la gente, sicché - sbagliando le proporzioni - dipingeva persone con mani enormi e piedi piccolissimi, e case che sembravano sul punto di crollare. Però pittori importanti lo invitavano e ciò spingerà Ivan a sentirsi rafforzato nella sua opera. Opera che veniva pagata pochissimo, 50 - al massimo 100 - dinari, comunque (afferma che) era una buona somma per lui che proveniva da una famiglia poverissima.
La fama di questo pittore oltrepassa i limiti nazionali per estendersi oltre l'Adriatico e la pianura pannonica: Generalic è il più famoso rappresentante dell'innocenza e dell'ingenuità pittorica del suo Paese.
A differenza di Generalic, non si fa problema di proporzioni smisurate - anzi le utilizza per farne un marchio personale di originalità - il serbo (di famiglia slovacca) Maritn Jonas (1924-1996). Senonché la sua pittura riconoscibilissima è anche fortemente segnata da una sensualità priapica, come può facilmente rilevarsi dal quadro qui riprodotto.
Martin Jonas |
Franjo Filpovic |
Dopo la guerra e la rivoluzione, nella nuova società i contadini-pittori trovano il modo di uscire dalla loro condizione di quasi analfabetismo [il termine corretto è illettrisme, in it. analfabetismo funzionale], ma pèrdono anche quella loro «beata solitudine».
Generalic è pittore che incoraggia altri paesani a esprimersi attraverso la pittura. Tanti altri campagnoli - evidentemente talentuosi - seguiranno il suo esempio e adotteranno la tecnica della pittura a olio su vetro (la pittura sottovetro) di grande brillantezza.
Ivan Rabuzin |
Ma non tutti provengono da Hlebine: Ivan Rabuzin è di un villaggio non lontano da Varazdin (sempre ai confini con l'Ungheria). Inizialmente operaio, dipinge nel tempo libero, perché deve pur mangiare. Per lui il colore è «un'esperienza emozionale». I suoi quadri sono assolati e i toni sono quelli del pastello, senza ombre, in un ottimismo esistenziale che indica nella natura il luogo della felicità.
Janko Brasic |
Ecco che anche nell'altra parte (all'epoca) della Repubblica Federale di Jugoslavia, nel villaggio di Oparic, in Serbia, in una zona montagnosa, si afferma un fattore che dipinge da quarant'anni, Janko Brasic. Autore di ritratti psicologici, rileva l'autore del nostro libro di riferimento, ma anche di combattimenti tra Serbi e Turchi che evocano sempre «la fase della battaglia in cui i Serbi erano vincenti», come si rileva dall'immagine qui affianco.
Martin Paluska |
E poi ci sono i contadini-pittori del villaggio slovacco di Kovacica, a 50 km da Belgrado, con Jan Knjazovic, Martin Jonas, Mihajlo Bires e a capo di tutti, il mugnaio Martin Paluska, che dipinge da sempre, da giovanissimo,, dipingendo per istinto, senza tenere eccessivamente conto di quel che ha realizzato.Ma quel che più conta per lui - dice nell'intervista - è l'appoggio e l'entusiasmo che la gente di Kovacica ha sempre epresso nei confronti della sua pittura e di quella degli altri pittori del villaggio. E così, ogni giorno - dopo il lavoro al mulino - restano ancora 4-5 ore per dipingere. E confessa che mano a mano che invecchia, predilige il buon tempo andato, sicché rappresenta i costumi antichi, la moda di un tempo, i matrimoni tradizionali.
Anujka Maran |
Spostandoci ancora di villaggio in villaggio, giungiamo a Uzdin, distretto del Banato, zona della Voivodina, verso la frontiera rumena. E infatti qui la popolazione è in maggioranza di origine rumena. E qui ci sono anche contadine-pittrici autodidatte di notevole pregio, tardive come per esempio Anujka Maran (1918-1983) che ha iniziato a 40 anni e che dipinge gli abiti rumeni (e li tesse, anche), che racconta una storia in ogni suo quadro, ma è una storia triste, che racconta con amore le storie che dipinge e ama sopra a tutto i cavalli: memorabile il suo Cavallo rosso, 1963 (collezione privata).
Tutti questi artisti, questi agricoltori pittori, vagheggiano una nostalgia del passato rurale e lo rappresentato in maniera idilliaca, «sentimento che riflette in un certo qual modo il conservatorismo innato dei contadini», scrive Tomasevic. Vedono i miglioramenti che il progresso ha apportato nelle loro vite, ma sentono ancor più forte il dolore per la perdita delle pratiche tradizionali, dei costumi ancestrali e perciò fissano tutto ciò - per sempre - sulla tela.
Alcuni di loro sono andati a vivere in città (Zagabria o Belgrado), ma la materia del loro dipingere è rimasto il paesello. Citiamo il postino Ivan Lackovic (1932-2004) che è diventato zagabrese ma che raffigura i paesaggi della sua Podravina in maniera lirica, tranquilla e particolarmente malinconica nel crepuscolo invernale.
«Sotto ai tetti innevati delle capanne contadine, le finestre illuminate brillano nell'oscurità e le luci pacate sembrano suggerire l'idea che all'interno di quelle umili dimore la gente vive un'esistenza piena di concordi e di perfetta felicità».
Un altro senso è quello di Franjo Mraz, tra i fondatori dell'art naïf nei territori della ex-Jugoslavia che pur essendosi trasferito a Belgrado è rimasto fedele ai temi della campagna. Ci spostiamo di zona e le cose non cambiano: Pol Homonaj è andato a vivere a Novi Sad, il macedone Vangl Maumovski si è stabilitp a Ochrid e Djordje Sijkavic a Skopje, ma «le folle, i rumori cittadini sembrano non aver destato alcuna eco nelle loro coscienze; la loro opera li riporta sempre nei verdi pascoli e nei frutteti in rigogliosa fioritura».
Vorrei terminare questa prima parte dedicata all'arte naïf serbocroata (ma anche di minoranza slovacca, rumena e macedone), dedicando qualche parola e immagine alle donne. Per esempio, Zuzana Halupova (1925-2001), contadina - e si vede - che dipinge con gaiezza la sua vita, e dipinge con amore i bambini e gli animali da cortile e tutti i personaggi hanno i suoi occhi (nel colore e nella forma) e tutti sembrano se non felici, perlomeno contenti della loro vita.
Ma penso anche a Ljubica Hladnic-Mikova che dipinge dalla prima infanzia e dipinge olio su vetro. Qui un dipinto che esprime una maternità brillante ma non del tutto rasserenata. Il momento idilliaco è un isolotto che separa la madre e il figlio dal resto del mondo, cristallizzandolo fuori dalla coppia.
Termino per ora con la pittrice Ana Oncu (1932-), di origine rumena. È una contadina che ha iniziato tardi, scoprendo la pittura della cognata, Marija Balan. Ama dipingere i pastori, le pecore, i campi, i costumi nazionali, le guardiane delle oche, particolarmente durante la stagione della primavera. E se le si chiede che cosa ne fa del denaro che ha ricavato dalle vendite dei suoi quadri, risponde senza esitare: «Li metto in banca. Spendiamo il denaro che guadagna mio marito. Io economizzo i miei soldi per mia figlia. Quando ero una ragazza dell'età di mia figlia, eravamo in sei in casa e mi era impossibile comprare degli abiti; perciò desidero che mia figlia possa farlo. Voglio che prosegua gli studi. Nostra figlia ha 13 anni [...] e desidero che abbia una vita diversa dalla mia, che non diventi una casalinga, che non debba lavorare alla fattoria. Voglio che sia istruita, allora, conoscerà una vita migliore della mia».
Sì, ma forse non diventerà mai una pittrice, dico io.
Tutti questi artisti, questi agricoltori pittori, vagheggiano una nostalgia del passato rurale e lo rappresentato in maniera idilliaca, «sentimento che riflette in un certo qual modo il conservatorismo innato dei contadini», scrive Tomasevic. Vedono i miglioramenti che il progresso ha apportato nelle loro vite, ma sentono ancor più forte il dolore per la perdita delle pratiche tradizionali, dei costumi ancestrali e perciò fissano tutto ciò - per sempre - sulla tela.
Ivan Lackovic |
«Sotto ai tetti innevati delle capanne contadine, le finestre illuminate brillano nell'oscurità e le luci pacate sembrano suggerire l'idea che all'interno di quelle umili dimore la gente vive un'esistenza piena di concordi e di perfetta felicità».
Zuzana Halupova |
Zusana Halupova |
Ljubica Hladnic-Mikova |
Termino per ora con la pittrice Ana Oncu (1932-), di origine rumena. È una contadina che ha iniziato tardi, scoprendo la pittura della cognata, Marija Balan. Ama dipingere i pastori, le pecore, i campi, i costumi nazionali, le guardiane delle oche, particolarmente durante la stagione della primavera. E se le si chiede che cosa ne fa del denaro che ha ricavato dalle vendite dei suoi quadri, risponde senza esitare: «Li metto in banca. Spendiamo il denaro che guadagna mio marito. Io economizzo i miei soldi per mia figlia. Quando ero una ragazza dell'età di mia figlia, eravamo in sei in casa e mi era impossibile comprare degli abiti; perciò desidero che mia figlia possa farlo. Voglio che prosegua gli studi. Nostra figlia ha 13 anni [...] e desidero che abbia una vita diversa dalla mia, che non diventi una casalinga, che non debba lavorare alla fattoria. Voglio che sia istruita, allora, conoscerà una vita migliore della mia».
Sì, ma forse non diventerà mai una pittrice, dico io.
* * *
Prima ancora che a Hlebine e all'arte dei contadini in sé - questo mio è un omaggio al museo di arte naïf di Zagabria (Hrvatski muzej naivne umjetnosti) dove talvolta trascorrevo il mio tempo, in contemplazione, e a una riproduzione di Ivan Generalić, Dvrosjece, [Tagliaboschi] che tengo appeso - ben in vista - a un muro del mio salotto italiano.
Ivan Generalic, Dvrosjece (1959) |
AVVERTENZA: Le foto sono tratte dai blog croatiannaiveartinfo.blogspot.com e serbiannaiveartinfo.blogspot.com. Molte delle loro immagini sono tratte dal libro di Tomašević.