Pavese, le parole ineluttabili
di Silverio Novelli
Treccani.it
Sessant’anni fa, il 27 agosto del 1950, lo scrittore Cesare Pavese si suicidava (sonniferi) in una stanza dell’albergo “Roma” a Torino. Aveva 42 anni. Una manciata di giorni prima, nella medesima estate, tragica, aveva vinto il Premio Strega con un trittico di romanzi brevi raccolti sotto il titolo del romanzo eponimo, La bella estate (pubblicato da Einaudi nel 1949). Nel fondo di una depressione devastante giacevano insieme pulsioni di morte e pulsioni di vita. Le seconde, per compensazione e sublimazione, avevano pur dato a Pavese negli anni la forza di intrecciare un serio legame con l’esistenza attraverso la scrittura. Le prime avevano precipitato motivi e nuclei tematici della sua opera letteraria nel pentolone ribollente dell’autodistruzione.
Pensiamo ai versi delle ultime poesie di Pavese, «le liriche di Verrà la morte, droga di intere generazioni di liceali» (Pier Vincenzo Mengaldo), specchio perfino ingenuo di un dolore congelato e lancinante: si giunge qui alla nuova sintesi della trascrizione simbolica della realtà esistenziale nella donna come universale approdo negato alla salvezza dell’uomo. Pensiamo al romanzo estremo, La luna e i falò (1950), nel quale la necessità del mito ulissesco del ritorno viene a coincidere con la necessità della parola romanzesca di darsi come linguaggio privilegiato in grado di dire «l’ineluttabilità del destino. Ripeness is all, la maturità è tutto, dice Pavese citando Shakespeare. La maturità dell’uomo finalmente, e con amarezza assoluta, consiste nel sapere che non c’è scampo al “vizio assurdo”. La vita viene trascritta ogni giorno come destino d’infelicità, senza possibilità di riscatto. In questo modo, secondo Toni Iermano, Pavese rientra «a pieno diritto nella cerchia dei grandi scrittori decadenti europei», nei quali il falò della poesia arde alto sulle ceneri di un’esistenza bruciata nel sentimento della sconfitta. Sconfitta che il ritorno, fallendo nel suo velleitario proposito di riappropriazione di un’identità perduta, finisce con l’accrescere e sancire senza scampo.
Quel viso di pietra scolpita
È molto interessante notare come percorsi laterali, itinerari periferici, vie poco battute, soggiorni appartati nell’opera e nella vita di Pavese possano dare frutti interpretativi originali e brillanti, approdare a conferme inusitate e, proprio per questo, stimolanti, se l’occhio dello studioso si concede allo scandaglio privo di pregiudizi, facendo tesoro della tradizione critica ma senza adagiarvisi (Pavese si presterebbe benissimo a menare e rimenare il viandante negli stessi loci communes). Insomma, il guadagno è netto, se non si rinuncia mai a sperimentare approcci e prospettive personali. È quanto accade nei veloci (alla lettura), densi e incisivi cinque saggi sull’opera di Cesare Pavese (così recita il sottotitolo), raccolti nel volume Aveva il viso di pietra scolpita (Aracne editrice, Roma 2010, pp. 135) da Jacqueline Spaccini, docente di Lingua e Letteratura italiana presso l’università di Caen, scrittrice, poeta e traduttrice (http://laboratoriodicriticadarteletteratur.blogspot.com/). Questo libro si è aggiudicato il Premio speciale saggistica Cesare Pavese 2010, assegnato ogni anno da una qualificata giuria internazionale nel corso di una cerimonia che si svolge presso la casa natale di Pavese a Santo Stefano Belbo (CN), dove ha sede il Cepam-Centro Pavesiano Museo Casa Natale (http://www.centropavesiano-cepam.it/).
Pratolini, il disamore e Clelia
Ripartito in capitoli, il volume allinea cinque saggi scritti dall’autrice in varie circostanze e comparsi in sedi diverse in un periodo che va dal 2002 al 2006.
I titoli danno immediatamente conto della pregnanza delle scelte dell’oggetto di studio da parte dell’autrice, oggetto che si qualifica, come già detto, per l’originalità degli angoli prospettici inquadrati.
Il primo capitolo si intitola La memoria ritrovata in Cesare Pavese. Riflessioni su La luna e i falò a confronto con Il Quartiere di Vasco Pratolini. Al termine del confronto tra alcuni passi-chiave dei due romanzi (scritti da autori grosso modo coetanei), collocati lungo l’asse di movimenti emotivi e ideologici simmetrici che si svolgono in direzioni divergenti quando non opposte, la particolare indagine induttiva eseguita dall’autrice porta alla conclusione che, per quanto riguarda l’ultimo romanzo di Pavese, «la pulsione di morte ha raggiunto il suo scopo [?] Questo libro regola tutti i conti col passato, il compito è assolto» (p. 32).
Nel secondo capitolo, intitolato La pregnante vanità di Colei che non ha posto. Riflessioni sulle «poesie del disamore», l’autrice è molto attenta nell’individuare la rete di petrarcheschi oggetti immobili che si stagliano nel ristretto cielo del disamore trasformato in poesia, campito sul telone di albe che non tornano. Dietro l’amore (mancato, finito, non nato, impossibile), l’autrice riconosce in Colei che non ha posto la poesia stessa, rovello di un Pavese che «si dannava di trovare una lingua “vera”, capace di erodere l’insondabile seppellito nel fondo dell’essere umano e di riportarlo alla luce, come uno zampillo di geyser» (p. 63).
Interessante e ricco di acute annotazioni è il terzo capitolo, «Triste solitario y final». I rapporti conflittuali tra ceti sociali e sessi nello sguardo di Clelia Oitana, ovvero la protagonista di Tra donne sole (il terzo romanzo del trittico che compone La bella estate, insieme col romanzo eponimo e con Il diavolo sulle colline). La donna conquisterà una sua forma di libertà, del tutto estranea alle dinamiche delle relazioni di genere e di classe e radicata, viceversa, in una individuale e idiotipica alterità dissonante (cita Spaccini, a p. 78, una frase rivelatrice, colta sulle labbra di Clelia: «il vero vizio era questo piacere di starmene da sola»). Un’alterità che permette alla studiosa di interpretare Clelia come proiezione narrativa dell’autore.
«La parrucca e i seni finti»
Si tratta di un’interpretazione che Spaccini ribadirà, nel quarto capitolo, ricordando l’analisi che della figura di Clelia fa l’allievo prediletto di Pavese, Italo Calvino, nel momento in cui recapita al Maestro, sotto forma di epistola privata, la propria analisi di Tra donne sole, appena letto in forma manoscritta: «quella donna […] fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti» (p. 84). Il titolo del quarto capitolo è Lo specchio, quando s’è spezzato. Calvino che revoca Pavese e ricostruisce con lucida attenzione, attraverso il montaggio e l’esteso commento di fonti documentali (scritti di Calvino, brani tratti da conferenze e interviste), il lungo, lento e laborioso distacco maturato da Calvino rispetto allo scrittore, letterato (cioè «intellettuale a tutto tondo», p. 85) e uomo Cesare Pavese: mentre Calvino «si proietta estroversamente verso il mondo […] Pavese invece si muove introversamente verso l’Io» (p. 107); mentre Pavese sembra essere letto dai più come scrittore che ha dato la stura a motivi fortemente autobiografici, Calvino ci tiene a mostrare, «anche quando è autobiografico», che «non è mai intimo: il suo è il talento di chi sa gestire la propria immagine, anche nel privato, costruendo un Io sociale per coloro che lo ascolteranno ed un Io creatore per coloro che lo leggeranno» (p. 110). Questo capitolo permette anche di leggere in filigrana l’evoluzione del rapporto tra intellettuale e impegno ideologico-politico (e, in subordine, tra scrittore e realtà storica coeva) nel Secondo dopoguerra italiano.
Nel’ultimo capitolo, Se non ora, quando? Cronaca di racconti tralasciati, Spaccini si dedica alla ricerca di «un punto in comune» tra i sei racconti pavesiani rimasti inediti (perché fermi allo stadio di manoscritti e minute) fino all’edizione einaudiana del 1994. «[D]opo una profonda analisi induttiva» (p. 116), Spaccini individua tale punto «nel trascorrere di vite che si dibattono per trovare un senso profondo al loro esistere, che non trovano altresì conforto nel mondo in cui si muovono, grigio, monotono, banale, solitario e ripetitivo» (p. 131). La conclusione dell’autrice è avvalorata da un’efficace investigazione intertestuale multitasking, condotta sia sul piano di una sorta di prossemica narratologica (gli spazi in cui si muovono protagonisti e comprimari dei diversi racconti, colti nella loro asfitticità o vaga evanescenza; il tempo atmosferico come scenario che indica la temperatura umorale/morale della storia), sia al livello di costruzione dell’identità dei personaggi (ricorso all’etopea, piuttosto che alla prosopografia): il tutto viene sondato allo staccio delle scelte lessicali e infine ricondotto entro un quadro di considerazioni strutturali sulla «tensione ritmica» e sulla «velocità della narrazione» (p. 126).
E in effetti sugli elementi ritmici nella prosa di Pavese insiste anche uno dei nostri più grandi studiosi della lingua letteraria, Pier Vincenzo Mengaldo: senz’altro in Pavese il ritmo, l’apparato sintattico-retorico, il «traliccio di iterazioni prossime o a distanza», la «rete di metafore, spesso di tipo sessuale e comunque ossessive», la «reiterazione» che converte in «enunciati simbolici» parole e immagini, e «una dialettalità interiore che rifiuta forme locali» (quest’ultima riflessione è di Maurizio Dardano) sono frutto di scelte consapevoli per cui «la prosa assume programmaticamente un ritmo poetico».
Silverio Novelli
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