lunedì 24 agosto 2009

Come ti zoomorfizzo un essere umano: Saba e Montale a confronto

Carlo Levi, Umberto Saba (al centro) e Lina, sua moglie

Saba e Montale: due poeti lontani quando sembrano vicini e vicini quando sembrano lontani.
Mi spiego: amici, erano amici. Anzi, il più giovane Montale sarà colui che accoglierà a Firenze, sotto il suo tetto, il fuggiasco Saba durante gli anni delle persecuzioni razziali (Felicita Rachele Cohen, sua madre, proveniva da una famiglia di piccoli commercianti ebraici), dopo le sue peregrinazioni a Parigi, a Roma (protetto da Ungaretti, che era colluso col potere). Due poeti a parte intera, senza alcun dubbio, due uomini che vivevano di poesia. Lontani dalle mire di potere, dagli intrighi di palazzo, da adesioni al Regime; quindi due uomini che vengono "messi da parte".
Non essendo vati, i riconoscimenti poetici tardono ad arrivare.

Non ha ancora 30 anni, Umberto Saba, quando la sua prima raccolta di versi viene stroncata dal concittadino Slapater e la Voce gli rifiuta il saggio Quel che resta da fare ai poeti[1]. Montale, invece, già nel 1925 viene pubblicato ed è colui che in Italia ha dato il giusto posto in letteratura a Italo Svevo. Però è una persona che ha conosciuto l'amarezza del non essere allineato e durante il Fascismo [nel 1938] dovrà abbandonare il prestigioso incarico di direttore del Gabinetto Vieussieux per non essersi tesserato.

Scegliamo di comparare tra loro due poesie che in comune sembrano avere un solo elemento: la presenza di animali. Ma vedremo meglio più avanti.
La prima lirica, di Saba, è dedicata a Lina, al secolo Carolina Wölfler, la moglie che Umberto Saba (all'epoca ancora Umberto Poli, suo vero nome) ha sposato due anni prima, nel 1909.
A mia moglie (1911)

Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.

E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

Canzoniere, Torino, Einaudi, 1961
***
A prima vista parrebbe poco rispettoso perché paragona (come = analogia) la donna a una gallinella. Ma è solo perché è molto giovane. Infatti, man mano che si prosegue nella lettura, ci si accorge che il suo passo è regale, e il suo atteggiamento fiero e per nulla intimorito. La moglie-pollastra aiuta l'uomo (-gallo?) a farsi più vicino a Dio (Saba definì religiosa questa poesia). Anche se poi, lei, alle galline simile, è unica come donna. Della giovenca ha la mitezza, e lo sguardo dolcemente maliconico, ma è una santa che arde e mugge e questo grido sordo che a volte si detesta, poi strazia il cuore, poiché il suo è amore santo e nel contempo passionalmente geloso. Da superba ch'era, talvolta somiglia a una coniglia, timorosa nella sua gabbia persino quando le si porta il cibo. E la tenerezza che procura allo sguardo è così grande che c'è da chiedersi come si possa farla soffrire (domanda che non esclude il fatto che la si faccia comunque soffrire). Della rondine, la moglie ha le movenze, e anche il fatto che - come una rondine - abbia portato la primavera al poeta che si considerava già vecchio (perlomeno rispetto a lei), ma a differenza della rondine che riparte quando l'autunno s'appressa, lei resta accanto a lui. E' laboriosa anche come un'apetta (pécchia) e prudente come la formica. A tutti gli animali assomiglia lei, ma a nessun'altra donna, giacché è unica agli occhi del poeta che la ama[2].

Montale con la moglie Drusilla (la Mosca)

Montale ci ha abituati alla mosca, alla volpe o ai gatti di Liuba[3]. La mosca è il soprannome che il poeta dette (sin da prima che diventasse la sua compagna) a Drusilla, in ragione dei vistosissimi occhiali da vista di lei. Ma il poeta ama giocare con le parole: gli occhiali dalle lenti tanto spesse si limitano a testimoniare la sola miopia "biologica" della donna, giacché negli ultimi versi Montale ribalta tutto. Leggiamo prima e analizziamo poi:



Ho sceso, dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. (Satura, Xenia II, n°5 )

Quando Montale scrive questa poesia (bellissime tutte quelle di Xenia, dominate dal sentimento della morte), la moglie è morta da un anno [siamo agli antipodi della poesia di Saba, scritta poco dopo il matrimonio; lì nella convivenza, qui nel ricordo].
E solo ora il poeta si rende conto come il rito di darle il braccio per aiutarla a scendere le scale che Drusilla non vedeva bene, significasse "altro", solo ora che lei non c'è più, ora che scende le scale da solo, e capisce che il cieco è lui, e che a ogni gradino incontra il vuoto (vuoi come assenza di lei, vuoi come baratro).
Ma più ancora ha capito che lei vedeva ben oltre l'orizzonte fisico, riuscendo a scorgere la verità laddove gli occhi non servono, laddove l'istinto vince. Sicché ora lui è davvero completamente cieco. La moglie assume la stessa funzione (benché a posteriori) della donna di Saba: le mogli, per l'uomo, sono guida, conforto, stabilità, punto di appoggio, saggezza istintiva, animale.
E come gli animali esse sono fedeli.
E come per gli animali, di loro ci si accorge soprattutto quando non ci sono più.

Lo stile di Saba è volutamente teso alla quotidianità della parola, verso la semplicità più banale. Saba rifugge volutamente dagli arzigogoli, cerca la poesia pura e assoluta, ricerca la verità nella parola. Ne consegue che a una prima lettura i suoi testi possano apparire come involontariamente infantili, con dei toni che bruscamente passano dall'alto al basso e viceversa.

Lo stile del Montale di Satura (o più particolarmente delle liriche di Xenia) è quello tristemente disincantato di chi prende distanze dalla vita di tutti i giorni, di chi prepara il suo congedo.

Notevole è comunque rimarcare come la zoomorfizzazione delle persone (care) non squalifichi l'essere umano; al contrario, lo eleva. In passato, penso a Esopo, Fedro e a La Fontaine, per dir cose belle, intelligenti, argute o elevate si antropomorfizzava l'animale. Qui avviene il contrario: una vera e propria metànoia (= capovolgimento di valori).

Non ho video di Saba, ma ce n'è uno breve, in cui il regista Giorgio Strehler legge (benissimo) una poesia di Saba su Trieste e sul destino di essere triestini, sempre inquieti, sempre inappagati.





_______
[1] Da questo saggio, due frasi: La letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità; Ai poeti resta da fare la poesia onesta.
[2] Non sarà superfluo ricordare che per il dolore, nove mesi dopo la scomparsa della moglie il poeta la seguirà nella tomba. Dico questo non per ridimensionare la portata dell'omosessualità di Saba, bensì per non rimpicciolire l'amore che sempre nutrì per la sua Lina.
[3] Non il grillo ma il gatto/del focolare/or ti consiglia, splendido/lare della dispersa tua famiglia./La casa che tu rechi/con te ravvolta, gabbia o cappelliera?,/sovrasta i ciechi tempi come il flutto/arca leggera - e basta al tuo riscatto.

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