martedì 4 agosto 2009

Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese


Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese (Sonnets from the Portuguese, 1846). Roma, Edizioni Il Labirinto, 2000, pp. 110.

Traduzione di Francesco Dalessandro. Nota critica di Annelisa Alleva. Testo inglese a fronte.

C’è un detto che detesto: Dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna. L’ho sentito ripetere spesso, nel corso degli anni. Mi è sempre sembrato profondamente ingiusto. E tanto più mi sembra tale al riguardo di una donna come Elizabeth Barrett Browning (1806-1861).

Di già il cognome maritale a seguire quello suo – quasi questo stesso non bastasse di per sé – a funzionare da neon intermittente per attirare l’attenzione del lettore sprovveduto (come a dire: leggi tranquillo, giacché è la moglie del poeta!). Per non parlare, poi, del titolo della raccolta poetica, Sonetti dal portoghese, che non era quello scelto da Elizabeth, bensì da Robert Browning.

E’ un fastidio momentaneo; poi passa. Passa nel momento in cui le pagine cominciano a dispiegarsi sotto gli occhi di chi intraprenda la lettura delle quarantaquattro poesie (tradotte in uno splendido italiano) raccolte nel libro.

Un amore ostacolato da dio, quello tra Barrett e Browning, ma meglio sarebbe dire dall’amore timorato di dio, se quando per caso si urtano con le ali/anche i nostri angeli custodi si guardano/stupiti, e se “Lui” mise la più nera/ maledizione sulle mie palpebre punendo/ la vista per averti visto. Fossi morta,/ i funerei sigilli non m’avrebbero esclusa/di più. Amico, il peggiore è il “no” di Dio.

Ma l’amore, quando è tale, non c’è divinità che lo arresti. Così, nel trascorrere della vita terrena, il sentimento prima epistolare, poi di sensi e di cuore, che scoppia tra Robert ed Elizabeth, conoscerà in sorte dopo una romantica fuga in Italia i sigilli del matrimonio.

Ha scritto Annelisa Alleva che “nella poesia di Elizabeth Barrett gli estremi sono sempre presenti: non c’è caduta senza stelle, non c’è salita vertiginosa d’amore senza dolore”. Perché? Probabilmente perché Elizabeth chiedeva tutto all’amore e tutto al suo Robert: se devi amarmi, sia solo per amore/ e nient’altro, scrive in una poesia. E prosegue: Non dire: “E’ per lo sguardo/ e il sorriso che l’amo, per il modo gentile/ di parlare, per una finezza di pensiero/ che risponde alla mia, perché un giorno mi fece sentire sereno.”

Una donna – a differenza degli uomini – intuisce il tramutarsi dei tempi e dei sentimenti, e attende guardinga il futuro e gli eventi, come un tradimento, come un gioco sleale. Sa che dovrà opporvisi, in una lotta impari. Ci si può battere, certo, ma non v’è speme di sopravvivenza. E allora, a Robert, lei chiede incondizionatamente: Amami solo per amore.

Per certi versi, Elizabeth Barrett mi riporta ad Emily Dickinson (di ventiquattro anni più giovane), ma a una Dickinson che avesse conosciuto l’épanouissement dell’amore, potendolo coltivare come i fiori che entrambe amarono, passione sospesa tra gioia e dolore, che regala alle pagine vergate scampoli di timori e felicità, che non si richiude su di sé come fanno le corolle quando s’appressa la sera.

Ma sempre persiste in Elizabeth la diffidenza e la ritrosia ad abbandonarsi alle promesse dell’impeto amoroso, se scrive: a te/ io guardo, a te, vedendo con l’amore/ la fine dell’amore, e al di là della memoria/ ascoltando l’oblio; come chi in alto/ sieda e fissi, oltre i fiumi, il mare amaro.

Si può combattere il prorompere ineluttabile dell’amore? Si può volerlo allontanare da sé, come fosse una maledizione? Sembrerebbe di sì: Go from me (Va’ via da me), fuggi da me, urla Elizabeth in incipit di una sua lirica; e non nel marmo fabbricherà i suoi sogni, bensì sulla sabbia. Nel suo Elogio de la sombre, Borges scriverà: Nada se edifica sobre la piedra, / todo sobre la arena, pero nuestro deber / es edificare como si fuera piedra la arena.

Non so se Elizabeth Barrett lo sentisse come un dovere, ma credo che il suo fosse un anelito inestinguibile, quello stesso di tutte le creature umane che non si arrendano alla vanità dell’esistenza (anche i credenti hanno dubbi feroci): proviamo a costruire sulla sabbia come se fosse pietra.

Ti ho trovato e sono salva, scrive grata al marito. Ma lei è donna difficile da amare e ciò malgrado ancora e ancora chiede: Dillo che mi ami! Perché lei, per suo conto, ha questo da dirgli: Beloved, I only love thee! let it pass (ti amo soltanto, caro. Questo è tutto).

Senza orgoglio, forse. Senza alternativa, di certo. Come tutte le donne barricadere, reattive – o, anche, battantes –, Elizabeth chiede (e si chiede): If I leave all for thee, wilt thou exchange/ And be all to me? Vale a dire: “se per te lascio tutto, sarai per me tutto?” Ovvero, se io credo nel nostro amore, basterà poi, questa mia fede in te, ad assicurarmi la dolce morsa della felicità? E sarò al riparo? Al riparo anche da me stessa, infine affrancata dalle stesse catene cui mi sono aggiogata?

E’ l’eterna richiesta, la sempiterna scommessa.

Jacqueline Spaccini

Roma, 2004

Nessun commento: