C'È ANCORA DOMANI DI PAOLA CORTELLESI:
UN FILM BELLO O BRUTTO?
LES AVIS SONT PARTAGÉS
Alessandro Iovinelli
Paola Cortellesi, C’è ancora domani (2023)
CONTRO
Il lettore mi consentirà di muovere da due premesse.
In
primo luogo, a me piace Paola Cortellesi. L'ho sempre seguita con simpatia e ho
ammirato la sua maturazione come interprete che l'ha portata nel 2017 a dar
vita sullo schermo a un personaggio, la cui caratura tragicomica mi ha
ricordato la grande Monica Vitti di Dramma della gelosia (1970) e
Polvere di stelle (1973). Mi riferisco alla sua strepitosa performance
nei panni di Monika, la coatta protagonista di Come un gatto in tangenziale.
Di
conseguenza – ed è la seconda premessa – ho accolto con piacere la notizia
dello straordinario successo di C’è ancora domani, il film che ha
segnato il suo debutto nella regia, tanto più perché ha avuto pure il merito di
riportare in sala il pubblico dopo gli anni della grande crisi durante e dopo
la pandemia del Covid, quelli in cui il numero degli spettatori cinematografici
era crollato spaventosamente.
Purtroppo,
io non ho potuto vederlo nel 2023 e ho dovuto attendere il suo approdo su Netflix
per colmare la mia lacuna di cinéphile in disarmo.
Perciò
mi sono messo davanti alla TV ben disposto, anzi con le migliori intenzioni,
anche perché tutti coloro che lo avevano visto me ne avevano parlato in termini
elogiativi.
Confesso
però di averne riportato un’impressione negativa fin dalla prima scena. È il
risveglio della coppia: Ivano (Valerio Mastandrea) e Delia (Paola Cortellesi).
Da
subito lui mostra di che pasta è fatto, giacché la prima azione che compie è
quella di colpire violentemente con uno schiaffo la moglie, la quale nulla
aveva detto e tanto meno fatto. E questa è soltanto la prima delle vessazioni
cui la poverina sarà sottoposta nella sua tipica giornata di vita da umiliata e
offesa nell’Italia patriarcale del 1946. Infatti, è lei a occuparsi di tutta la
numerosa famiglia nei suoi ruoli di madre, moglie e nuora, giacché a suo carico
vi è perfino il suocero infermo ed esigente (ma pur sempre molestatore),
La
prima parte del film trascorre così nella descrizione di tutte le sue
innumerevoli occupazioni al servizio dei familiari (che mai gliene sono grati,
bensì la tartassano e tiranneggiano tutto il tempo). Peggio è fuori di casa, là
dove Delia è sfruttata in tutti i suoi lavoretti non solo perché essi sono in
nero e malpagati, ma anche perché lei è donna e dunque viene considerata una
forza lavoro di seconda classe e senza diritti.
Con una rappresentazione della vita di una donna altrettanto cruda comincia il capolavoro di Carl Theodor Dreyer Ordet – La parola (1955), la cui sequenza di apertura – a parte le botte – non è molta lontana dal calvario dell’eroina di Paola Cortellesi. Tuttavia, in quel caso la descrizione mirava a sottolineare la santa abnegazione con la quale Inger, la protagonista del film di Dreyer, svolgeva tutti i compiti a lei imposti dalla famiglia e la società.
Al
contrario, per C’è ancora domani sembrerebbe trattarsi piuttosto di
cinema di denuncia in uno stile arrabbiato anni Settanta. Le cose stanno
veramente così? Magari! Il peggio deve ancora venire. Quando la vicenda decolla,
entra in scena un soldato afroamericano delle truppe di occupazione che, dopo
aver incontrato Delia per strada, se ne invaghisce. Non ci sarà niente tra i
due, sia chiaro – Delia non è la Maria Braun del film di Fassbinder (1979) che
con Bill, anch’egli un milite americano di colore, ci fa addirittura un figlio.
Ma anche il nostro William, il nero cuor gentile della MP, diventerà il deus
ex macchina nello sviluppo del percorso narrativo del film: il fidanzamento
della figlia primogenita, Marcella.
Delia non ha inizialmente un atteggiamento ostile nei confronti della relazione tra i due giovani, né tanto meno verso il ragazzo della figlia. Anzi, sopporta stoicamente perfino l’atteggiamento sprezzante con cui le si rivolgono i futuri consuoceri, due pidocchi rifatti, ora parvenu arricchiti grazie ai loschi affari nel periodo bellico. È la scena del fidanzamento ufficiale – forse l’unica veramente riuscita, ancorché imbarazzante per l’aspra rappresentazione dell’antagonismo sottotraccia tra le due famiglie.
L’atteggiamento di Delia
verso il futuro genero però cambia radicalmente, nel momento in cui scopre che
lui non è diverso da suo marito poiché, mutatis mutandis, ne condivide
la stessa logica di possesso e sopraffazione, tanto da minacciare Marcella, qualora
volesse lavorare il giorno che sarà diventata sua moglie.
Per
impedire che la figlia faccia la sua stessa fine di serva maritata, Delia
decide quindi di far saltare il matrimonio, facendo letteralmente saltare per
aria il bar su cui si fondava l’attuale ricchezza della famiglia dell’infido “promesso
sposo”.
Questa è la scena francamente più ridicola del film anche per chi accetta la suspension of disbelief – e io sono tra coloro che lo fanno –come caposaldo della fiction secondo la famosa formula di Coleridge: non esiste però alcuna sospensione dell’incredulità capace di farmi credere che un milite dell’esercito americano si procurasse la dinamite e poi la consegnasse a una sconosciuta (a cui non la lega nessun legame amoroso), affinché venisse distrutto il locale di un cittadino qualunque.
Stendo
un velo pietoso sulla scena in sé della deflagrazione dell‘esplosivo che
distrugge il bar - una sequenza indegna della tradizione degli studi di Cinecittà.
Di
qui in poi la sceneggiatura implode su sé stessa, né i troppi buchi narrativi
sono mascherati dalla regia che, forse non trovando più il bandolo della
matassa, sceglie come soluzione della fine l’evocazione della cornice storica
nella quale si svolge la vicenda di Delia, il suo matrimonio e la sua famiglia.
ATTENZIONE, SEGUE
SPOILER!
Nella
sequenza finale vediamo infatti Delia recarsi a votare. È il 2 giugno 1946, la
data del referendum che ha segnato la vittoria della repubblica sulla monarchia,
nonché l’elezione dell’Assemblea costituente. Ed è soprattutto la prima volta in
cui alle donne è riconosciuto il diritto di voto. Il domani menzionato nel
titolo del film comincia quel giorno, allorché il genere femminile, ovvero l’altra
metà del cielo, prende in mano il suo destino.
Non
dispiaccia il recupero della metafora del vecchio Mao a proposito del “secondo
sesso”, dal momento che tutta la scena finale, con quella massa di donne che fa
scudo a Delia contro la violenza belluina del coniuge inviperito, che avrebbe
voluto impedirle di votare riportandosela a casa, fa pensare a un film degli
anni Cinquanta proveniente dalla Repubblica popolare cinese.
Di fronte al bianco e nero con cui è stato girato il film, per tacere della cura certosina dei dettagli storici delle scenografie e della location in un quartiere Testaccio credibile (aspetti da tutti elogiati, anche se un po’ troppo enfaticamente, visto che un’operazione altrettanto ineccepibile è riuscita pure al coevo adattamento televisivo della Storia realizzato da Francesca Archibugi e ambientato nella San Lorenzo del ’43 e dintorni) pensavo di trovarmi davanti alla riscoperta dei luoghi, delle atmosfere, in una parola: degli stilemi, del neorealismo, quasi fosse quella lontana stagione l’âge d’or del cinema italiano, dunque il periodo storico da riscoprire per lanciarsi in un nuovo inizio della nostra cinematografia. Devo riconoscere di essermi sbagliato. Alle soglie del nuovo millennio, Paola Cortellesi non mostra di essersi rifatta al Rossellini di Roma città aperta o al De Sica di Ladri di biciclette, meno che mai al Visconti di Ossessione. Se è vero che il senso di un film sta nel finale che il regista (o chi per lui) ha scelto (la casistica infinita mi esime dall’obbligo di citare qualche esempio chiarificatore), allora non c’è dubbio che la strada indicata da C’è ancora domani non va in direzione del neorealismo, bensì in quella del realismo socialista.
Certo,
la storia non si ripete mai tale e quale. Dunque, non sono ritornati i
proletari in marcia di Pelizza da Volpedo e i marinai della corazzata Potemkin e
le bandiere rosse. Niente paura. Non sto dicendo che nel nostro prossimo futuro
appariranno i pronipoti del famigerato Ždanov dei tempi dello stalinismo o gli epigoni
delle dogmatiche guardie rosse della rivoluzione culturale.
Il
Novecento è finito. L’Occidente della società aperta (Popper) ha vinto la
guerra fredda e il sistema capitalistico (pur se molto diverso da quello passato
al setaccio da Marx nell’Ottocento) governa l’economa del pianeta, rendendo
irrealistica, se non impossibile, ogni alternativa storica, meno che mai il
socialismo.
Personalmente
temo l’ideologia dominante, quella fondata su una sorta di ibrido tra il
neopuritanesimo d’importazione statunitense, il femminismo trasformato in
religione e la “cancel culture” come memoria storica deformante. Ma qui il
discorso si fa troppo complesso e non è il momento di affrontarlo.
Il
punto è un altro: possiamo considerare un film molto bello, anzi bellissimo,
nonostante si fondi su una concezione del mondo che ci appare non
condivisibile, se non addirittura opposta alla nostra.
Faccio
un solo esempio che vale per tutti: Il cacciatore di Michael Cimino (1979).
È il film che preannuncia l’avvento di Reagan alla presidenza degli USA e
l’inizio della sua era. Tuttavia, l’ho sempre stimato un grande film e per me
tale resta ancora oggi.
A mio avviso, il film di Paola Cortellesi – qualunque sia il giudizio sulla sua idea del mondo e della storia italiana – invece non lo è. Purtroppo. Perché? Per la caratterizzazione dei personaggi. Si pensi a Ivano, il marito di Delia: un vilain da filodrammatica. Per la composizione delle scene. Si pensi alla sequenza in cui Ivano picchia la moglie e poi ci copula. Per la soluzione finale – la già citata scena davanti al seggio elettorale col popolo delle donne che respinge l’attacco del maschio dispotico - là dove la regista tenta la via della conclusione epica, ma in realtà gira uno spot da campagna elettorale.
Naturalmente,
questa è solo un’opinione personale che non presume di affermare il vero e
avere ragione. A essere sincero, se penso che non mi sia piaciuto neppure un altro
successo di questi mesi, cioè Povere creature di Yorgos Lanthimos, mi
viene il dubbio di aver torto io sul film di Paola Cortellesi e di essere uno
spettatore cinematografico ormai superato.
Jacqueline Spaccini
Paola
Cortellesi, C’è ancora domani (2023)
PRO
Premessa: sono nata alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Non posso dire di aver conosciuto quel che il film racconta, ma posso garantire che quel che Paola Cortellesi ha scritto (insieme con Furio Andreotti e Giulia Calenda) in C’è ancora domani era possibile vederlo da vicino anche nei due decenni successivi.
Le
misere stanze riprodotte nella pellicola assomigliano molto ad altre stanze da
me viste da bambina; la cucina poi assomiglia molto a quella della mia nonna
paterna. Anzi, a dire il vero è anche meglio di quella a me familiare. L’unica
incongruenza storica da me rilevata (ma posso sbagliare) è nelle scarpe che la
protagonista indossa. A mio dire, sono di fattura anni ’60 e non ’40.
La
struttura gerarchica è quella che è rappresentata: la madre fa tutto in casa e
fuori casa, subisce le violenze verbali e fisiche senza opporvisi; il marito
s’inalbera contro di lei a ogni piè sospinto, forse mosso dal vino o
dall’incapacità di reggere un ruolo virile; i figli maschi sono due bestioline
sollecite unicamente a farsi dispetti maneschi. La figlia femmina sta nel guado:
non vuole assomigliare alla mamma e non riesce proprio a capirla (perché
subisce tutto senza protestare?).
Marcella vuole essere stimata dal padre, che le riconosce il titolo di unica vera donna della casa, a fronte di quell’incapace della madre. Non conosce, non ancora, lo spirito di sacrificio che sorregge le donne e le madri in nome dell’amore e della protezione dei figli.
Il
pater familias, ottimamente interpretato da Valerio Mastandrea (a parte
la capigliatura ridicola), rappresenta la figura meno intelligente e più
involuta della storia – ma comunque «superiore» in tutto e per tutto alla sua donna
(dal punto di vista dei tempi). Nel dubbio, la mena (per dirla alla
romana), la picchia, anche se maldestramente, a detta dell’anziano padre, il
sor Ottorino Santucci (interpretato da Giorgio Colangeli): Nun je pôi menà
sempre… Sennò s’abbitua!
E
già.
Quand’ero più giovane, c’era ancora chi, scherzando, riportava il contenuto di un sedicente detto cinese: Quando rientri a casa, picchia tua moglie con un bastone. Tu non sai perché, ma lei sì. Ignoro se tale detto esista per davvero e se per davvero sia cinese; poco importa. Quel che conta è che nel rapporto tra sessi, uno dei due deve essere sottomesso e la miglior legge è quella della forza bruta.
C’era un rischio (lo ha spiegato la stessa regista-autrice-attrice in una giornata streaming in collegamento con 56000 studenti): da una parte c’è il rischio di assuefazione (anche alla violenza ci si abitua), dall’altra quello dello spostamento di interesse: non sono le bòtte il fulcro del film.
Quando
argomenti verbali non esistono o non esistono più, la brutalità fisica è la
prima strada a essere intrapresa, poiché istintiva. D’altronde, anche nel film
(e nella vita), quando i figli capiscono che i genitori stanno per passare alle
mani, lasciano i luoghi e si chiudono in un’altra stanza. Non assistono, ma
sanno.
Gira per il quartiere facendo iniezioni a domicilio.
Mi ha ricordato in parte la Maddalena Cecconi di Anna Magnani in Bellissima (1951): anche nella pellicola di Visconti la moglie fa le iniezioni a domicilio e a causa delle sue idee troppo disinvolte (far fare cinema alla figlioletta) viene picchiata dal marito Spartaco (ma non lo vediamo).
Nel film della Magnani il riscatto a tanta miseria sarebbe venuto dalla piccolina, in quello della Cortellesi dall’imminente matrimonio della figlia Marcella, bella (e lavoratrice), con un bel ragazzo, Giulio, figlio di gente che possiede un bar e ha fatto i soldi in fretta ma che è cafona (nel senso che i genitori di lui non sono romani d.o.c. e parlano con accento “burino”).
Ho
portato le mie studentesse a vedere il film. Chissà se per tutte loro è stato
come per me vedere un film peplum, con gli antichi Romani. Chissà se per
davvero loro hanno capito quel che è successo e succede ancora a molte donne.
Il
fatto è che uomini che pensano di schiacciare – se non peggio – le donne con
arroganza, violenza e sopraffazione esistono ancora.
Gli
antichi Romani, no.
P.S.
Povere creature, a me è piaciuto.
2 commenti:
A me, nonostante apprezzi molto Paola Cortellesi, il film non è piaciuto, sia per la regia (mi sembrava di leggere un fumetto, mi aspettavo che da un momento all'altro apparissero le nuvolette con 'bang','smack'e soprattutto 'sigh'), sia per la recitazione, non mi è piaciuto Mastandrea, che pure adoro. Ho l'impressione che sia stato pensato e studiato 'a tavolino', l'ho trovato inutile se non per il botteghino. Non oso fare riferimenti o paragoni con Rossellini o Visconti, tanta è la distanza che li separa. Ho trovato le musiche non appropriate, o meglio, usate appositamente per suscitare piacere...troppo facile, con Dalla di sottofondo, smuovere gli animi, anche i più insensibili, e dare corpo alle scene!
Ho visto il film appena uscito nelle sale, dopo la spinta continua di una certa propaganda televisiva che giocava sempre sul finale che non doveva essere rivelato e sulla bravura della Cortellesi.
La simpatia dell'attrice ed il battage pubblicitario di una parte dei critici mi avevano già ben predisposto.
Il primo schiaffo, incipit del racconto, insieme all'accettazione passiva della protagonista mi hanno sin dall'inizio messo in allarme sul futuro svolgimento.
Donna, emarginazione, pettegolezzi nei cortili delle case popolari di Testaccio, tutta la povera gente che ruba un pizzico di vita all'esistenza umana, mi hanno fatto già immaginare il percorso narrativo. Ma cosa sarebbe successo nel finale era l'unica cosa che mi lasciava incuriosito. Poi le piccole trame per sfuggire all'orco maschio che aveva fatto due guerre, spesso inverosimili, mi hanno mostrato una piccola sciatteria nella sceneggiatura. Inoltre il caso della protagonista, che doveva essere emblematico di una situazione in cui la donna era serva e suddita del maschio, rappresenta nel film un' eccezione, in quanto tutte le pettegole del palazzo, la venditrice di reggiseni, i futuri suoceri, vedono l'eccezionalità eccessiva di un comportamento aberrante del protagonista e compatiscono la donna vittima. Nessun'altra donna subisce angherie nel film.
La protesta femminista si ferma in quella famiglia. I futuri suoceri proprietari del bar mostrano una moglie che...comanda, un figlio che probabilmente sarà un violento, viene fatto sparire, con tutta la famiglia nell'iter narrativo, nell'esplosione del "bar della ricchezza" da una Madre Courage che di coraggio ne dimostra ben poco, in quanto non osa ribellarsi, non solo per paura ma anche per viltà, in quanto, dice, non saprebbe dove andare o cosa fare. La verduraia è completamente diversa, così altre figure femminili, la nostra protagonista diventa la piccola fiammiferaia che nasconde i soldi nel reggiseno, per una sua rivincita? No, per far sposare la figlia e far bella figura. Una fuga con il bel meccanico con le toppe al culo, sarebbe stata più realistica che una fuga per le stradine di Testaccio per andare a votare, inseguita dall'orco, salvata dalla figlia che le porta.....il biglietto del treno per la salvezza? No, il certificato elettorale, e poi, su questo Alessandro lo dice benissimo, in alto i vessilli di un potere che risente dell'utopia comunista degli anni fine quaranta del novecento, Un "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo. Il film non mi è dispiaciuto, ma condivido quello che scrive Alessandro, anche se quel che dice Jacqueline è interessante ed analitico.
P:S: non so come far comparire il mio nome, lo scrivo alla fine
Matteo
Posta un commento