domenica 24 gennaio 2010

PAUL AUSTER il viaggio di Anna Blume et alia















Ludwig Meidner, Paysage d'Apocalypse (Berlin, Nationalgalerie, 1913)
La foto è prelevata dal sito internet www.madinin-arte.net

Cose che avevo scritto un po' di tempo fa...
Non è stato facile, questo libro (in italiano: Nel paese delle ultime cose). L'ho dovuto riprendere in mano tre volte, per entrarci dentro.
Iniziavo, leggevo le prime righe e qualcosa in esso mi respingeva.
Complice forse la copertina della versione francese (il titolo originale è In the Country of Last Things), sentivo che mi attendeva qualcosa di forte, di ostico, qualcosa che richiedeva ben più dell'amorevole attenzione cui dedico alla lettura.

Frettolosamente, dicevo: Non mi prende, stavolta, Paul Auster (foto).

Ma poi, a distanza di qualche mese mi imponevo di riaprire le pagine di questo romanzo: Non è possibile. Non può NON piacermi. Amo tutto, di Auster...

Ho preso una scorciatoia dell'intelletto. Ho deciso di leggerlo come se dovessi tradurlo in italiano. E il primo incanto s'è sciolto come un grappolo d'uva moscato in bocca: le parole. Curate, precise, per nulla arzigogolate. Parole che non lasciavano scelta: prendere o lasciare. Auster non giocava con la metaletteratura com'era solito fare; non faceva il verso compiaciuto a se stesso dell'estrema sua intellettualità.

Questa Anna Blume, a dire il vero, non è per nulla simpatica. E la quasi totale assenza di dialoghi (il romanzo è narrato sotto forma di diario su un improvvisato quadernetto destinato a un suo ex amore ancora nel suo cuore - a noi lettori -) all'inizio infastidisce.

Ma è nella crudezza del taglio semantico, nella totale riluttanza a commuoverci che sta la carta vincente di questo anomalo romanzo. All'inizio ci si chiede se non ci si debba attendere la rivelazione di un Paese nascosto, qualcosa da scrostare dietro la storiella del Paese senza nome in cui vive prigioniera Anna: sarà la rappresentazione dell'URSS staliniana? O forse un qualunque Stato ove governi dittatoriali si avvicendano affamando i loro cittadini? Tutto è surreale? Una fiaba amara? Fantapolitica? Esse est percipi, alla Berkeley? Nulla è esistito se svanisce?

Macché, macché. Non ha nessuna importanza tutto ciò.
Che questa storia sia nata da un evento reale o da un incubo austeriano, quel che conta è Altrove.
E' nell'essenza stessa dell'umano esistere. E delle relazioni terrene.
E' una sorta di ipotesi ragionata sull'homo hominis lupus: in un Paese in cui si uccide per una crosta di pane e che quando il pane non c'è più, si mangiano topi con ancora i peli addosso e quando anche i topi vengono meno si smembrano corpi umani che non sono ancora cadaveri, c'è ancora posto per la filosofia, l'amore, l'Idea?

Si può restare uomini e donne degni di questo nome?

Se no, che cosa si diventa? L'abisso ha una fine o è incalcolabile?
E se, invece, a dispetto di ogni logica, c'è spazio per un sì, come avviene ciò - e soprattutto attraverso quale forza eversiva, tale da superare la insopprimibile prepotenza della fame e dell'abbrutimento, la sopraffazione prevaricatrice della sopravvivenza (nel romanzo ci sono anche le sette suicide, ma non anticipo troppo) -?

Il romanzo ha una trama forte, spiazzante, ma perfettamente coerente. Ad Anna si affiancheranno numerosi compagni di viaggio (la maggior parte di essi si perderà per strada): Isabella, Sam, Victoria, Boris, Willy, Bogat, Ferdinand (notate l'eterogeneità dei nomi. Attraverso di loro, Auster abbraccia lingue e Paesi a noi noti). E' un mondo in cui i libri sono buoni per riscaldare e vanno bene per il braciere, tanto vi fa freddo.

Ma nonostante tutto, sopravvivono solo coloro che coltivano una speranza: quella di andarsene, ma anche quella di sentire di non appartenere a nessun luogo.

In un passaggio del libro, Anna dice di Boris Stepanovich: "assumeva il ruolo del clown, del brigante e del filosofo, ma più lo conoscevo, più percepivo tali ruoli come aspetti di un'unica personalità che sfruttava le sue svariate armi nel tentativo di riportarmi alla vita. Siamo diventati cari amici, e verso Boris conservo un debito grande per la sua compassione, per gli attacchi obliqui e persistenti che lanciava contro i bastioni della mia tristezza" (traduco all'impronta).

Oppure, altrove: "Era come essere un confessore, diceva [Sam, n.d.r.], e poco a poco si è messo a misurare tutto il bene che si fa quando si permette alla gente di sfogarsi - quel salutare effetto di pronunciare le parole, di lasciarle uscire. Parole che raccontano quel che è successo a ciascuno di noi. [...] Farsi passare per un dottore gli aveva improvvisamente dato accesso ai pensieri intimi degli altri, e questi pensieri cominciavano ora a far parte di lui. Il suo mondo interiore è diventato più vasto [...]".

La speranza fa ripartire. Anche se tutto non è null'altro che illusione.

La fine è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arriva il momento in cui ti rendi conto che non ce la farai mai. Può darsi che tu sia costretto a fermarti, ma allora sarà perché hai poco tempo davanti a te. Ti fermi, ma questo non significa che sei arrivato fino in fondo.

E il romanzo non finisce qui. Non con questa frase finale.

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Mi accorgo, rileggendo, che non sono riuscita minimamente a restituire la graffiata dolorosa con la quale questo libro mi ha lacerata. Darò la colpa a Chopin, che mi ha fatto compagnia mentre buttavo giù queste righe.





photo by @rteJS - dipinto di Alice Nieri

Io l'avrei tradotto così, In the Country of Last Things, il romanzo di Paul Auster. Invece qui in Francia si è optato per Le voyage d'Anna Blume.

E' la terza volta che riprendo in mano questo libro: l'incipit è difficile, duro, pieno di muri ad angolo e anche un poco sbrecciati, di quelli che ti feriscono le mani.

E allora faccio esercizio di traduzione on line, all'impronta, per invogliare chi legge a prenderlo in mano (magari otterrò l'effetto contrario, chissà).

* * *
"Sono le ultime cose, ha scritto lei. Una dopo l'altra svaniscono e non riappaiono mai. Posso parlarti di quelle che ho visto, di quelle che non ci sono più, ma temo di non avere tempo. Accade tutto troppo in fretta, ora, e non riesco più a seguirle.
Non mi aspetto che tu capisca. Non hai visto nulla di tutto ciò e anche se ci provassi non sapresti immaginartelo. Sono le ultime cose. Un giorno, una casa si trova qui e l'indomani è scomparsa. Una via che hai percorso ieri, oggi non c'è più. Persino il clima cambia di continuo. Un giorno di sole seguito da uno di pioggia, un giorno di neve seguito da uno di nebbia, il caldo e poi il fresco, prima il vento e poi la calma piatta, a un periodo di freddo terribile segue oggi - in pieno inverno - un pomeriggio di luce profumata, calda abbastanza per indossare appena un pulloverino. Quando si abita in città si impara a non contare su nulla. Chiudiamo gli occhi per un attimo, ci voltiamo per guardare qualche altra cosa ed ecco che quel che avevamo davanti, d'improvviso è svanito. Nulla dura, capisci, nemmeno i pensieri che ci portiamo dentro. Non ti venga in mente di perdere tempo a ricercarli: quando una cosa è andata, è per sempre.
E' così che vivo, proseguiva nella sua lettera. Non mangio quasi; appena il giusto per continuare a mettere un piede avanti all'altro, non di più. Talvolta la mia debolezza è tale che ho l'impressione che non riuscirò mai a fare il passo successivo. Ma ci riesco. Nonostante i cedimenti, continuo ad andare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene."
(traduzione dal francese che traduce dall'americano a mia cura)

* * *

Ho trovato - più tardi - lo stesso incipit in traduzione italiana dall'americano (a cura di Monica Sperandini). Paul Auster, Nel paese delle ultime cose. Torino, Einaudi, 2003, 8€50.

E allora lo posto qui, a confronto.

* * *
Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano piú. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono piú, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo cosí velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro.

Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e anche se ci provassi non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è li e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste piú. Persino il tempo è in un flusso costante. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, il caldo e poi il freddo, il vento e poi la calma, un periodo di freddo pungente e poi oggi, nel mezzo dell'inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da far sudare. Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa che era dinnanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.

Ecco come vivo, continuava la sua lettera. Mangio poco. Quel tanto che basta per tirare avanti passo dopo passo, e niente piú. Talvolta mi assale la debolezza, e sento che non riuscirò a muovere il prossimo passo. Ma me la cavo. Nonostante gli sbandamenti riesco a tirare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene.

* * *


Mr. Vertigo.
Questo è uno dei tanti libri di Paul Auster che ho amato.

All'epoca (1994), non scriveva proprio nel suo stile inconfondibile (penso al Libro delle illusioni e alla Trilogia newyorkese, ad esempio), ma era già lui.

Di questo romanzo, serberò per me una frase, scritta su di un bigliettino, da Maestro Yehudi alla sua Mrs Witherspoon che sposerà un altro:

Dovunque andrai, ci sarò anch'io.



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