Figure e colori di Mario Nolano
ovvero La pittura enigmatica
Le riproduzioni sono by Laura Ongari, le pubblico su gentile concessione dell'artista Mario Nolano, e non possono essere utilizzate altrove.
Nelle opere che vanno dal 1980 al 1990, la serie di immagini – tutte figurative – del pittore Mario Nolano riproduce regolarmente navi approdate su spiagge silenti.
Ignoriamo se la loro sia una sosta momentanea, se una volta consegnate le casse di quei pesci pescati al largo ripartiranno o se resteranno a imputridirsi della salsedine corrosiva. Sappiamo solo che là stanno, nel momento in cui leggiamo l’opera.
Leggiamo, certo, giacché i quadri raccontano storie da interpretare, sicché a torto o a ragione li si «narrativizza» in un’ekphrasis di emozioni razionali (non è un ossimoro) che dal pittore rimbalzano allo spettatore.
Certo, possibilità di diafonia nel silenzioso passaggio ce ne sono, tant’è che lo scambio potrebbe non essere osmotico; pur tuttavia, il transito che avrà luogo sarà per il fruitore della tela un arricchimento e comunque un’agnizione: un quadro riflette come uno specchio quel che è in noi e a noi rivela segnali di nostre irresolutezze.
Le navi, si diceva: fisiche e simboliche, solitarie o in coppia, all’interno di paesaggi rarefatti o in compagnia di esseri umani; navi. Simbolicamente, rappresentano il viaggio verso la vita e con essa l’ignoto; una fiducia intrepida verso il futuro prossimo a venire. Ma sono navi immobili, quelle di Nolano: immense nature morte, monocromatiche e indifferenti a quel che le circonda. L’interpretazione ottimistica si fa cauta, allora. E che cosa dunque le attornia?
La tecnica metafisica di cui si avvale l’artista ci offre un contorno di ombrelloni da gazebo somiglianti a steli di fiori di carta o a funghi stilizzati; oggetti demandati all’altrui protezione, ma qui splendide anime abbandonate. A chiudere il tutto, ci sono i colori: forti, intensi; rossi più forti di quelli di De Chirico, redivivi rossi van Eyck, rossi che richiamano il colore del sangue vivo. E le navi giacenti sulla rena sono più sole che mai, come le celebri barche di Van Gogh.
Metafisica iconica o meno, la simbologia richiama i pensieri all’ordine: altrove, una nave poggia su una spiaggia di gauguiniana memoria: un prato verde smeraldo, ma a scacchi come la partita della vita. E se una palla riposa inutilizzata da un canto, un bimbo osserva la nave-vita tenendosi ben saldo al palo di un cavallino da giostra: fissa il bimbo, la vita vera, ché la sua è ancora di sogno (i vessilli di Klee custodiscono la sua libertà), in un’infanzia che non prevede ancora dolori, ma già invita allo sguardo. Un palloncino gonfiato ad elio, come un sole si staglia nell’angolo in alto a destra: è una speranza se il sogno coincide con la realtà oppure anche qui occorre ravvisare l’ennesima illusione, l’ennesimo disinganno?
Il colore che Nolano pianifica nelle sue tele è sapientemente dosato, controllato, diremmo «dominato». L’intento è razionale anche se traspare l’emotiva predilezione per certi blu, gialli, per certi rossi e verdi di espressionistica memoria, scelti ad esaltare e insieme a pacare asprezze e passioni, slanci vitali e amare introspezioni. Come nell’altalena di sfumature che le onde di quel mare nel suo agitarsi restituiscono agli occhi: dal lilla parmense al viola cupo di qua da un mare verde come un prato smeraldo in una notte senza stelle.
Dalla metà degli anni Novanta, Nolano propone ritratti, anzi volti e mezzibusti di donna. Sono un omaggio alle figure picassiane con in più (il nuovo) quei colori che ormai travalicano l’amato espressionismo: siamo già nel postmoderno. Le lacrime di una donna sono marcate dal bistro nerastro che cola lungo le guance formando un compasso, forse un pendolo, comunque una misura, giacché anche il dolore – c’è un anello magrittiano sospeso davanti a lei – come le parole spiegazzate che le affollano la testa, anche il dolore, dicevamo, ha un termine.
Durante il periodo che si è aperto nel 2000, Nolano abbandona a mano a mano le tecniche cubiste e non solo nel ritrarre i volti di donna. Resta un residuo di scomposizione, ma esso si è affrancato dallo spezzettamento di rigorosa geometria per mutarsi in composta elaborazione. Cerchiamo con gli occhi gli oggetti: il campanile-obelisco è pur sempre un parallelepipedo sormontato da una piramide egizia, ma pacato è il suo esserci. Si erge come certezza, come faro è punto di riferimento, granitico compagno delle fronde di salici cipressini o della chioma d’un domestico arancio da giardino. Gli alberi si addomesticano, si fanno bidimensionali, non appartengono più all’ordine del metafisico dechirichiano e si allineano leggeri come pali lungo il sentiero dell’ideale…
Gli esseri umani sono ripresi frontalmente, pressoché fissi nella postura. Sono – come tutta la pittura di Nolano – doppiamente interpretabili. Mostrano la parte frontale di sé in un atto di lealtà (ecco, mi/ti mostro per quello che sono/che sei – senza infingimenti) oppure nella rappresentazione di sé nascondono il lato oscuro che li perseguita (ti faccio vedere solo ciò che voglio e il resto lo tengo per me)?
Le persone, si diceva: quella che stringe il tubetto di colore e mostra gli stracci del mestiere cari al pittore, ha un cuore, ma il meccanismo interno contiene una sorta di stomaco (orologio razionale?) rinchiuso in uno scrigno geometrico visibile solo per chi guarda dal di qua della tela. Un palloncino se ne vola via verso l’etere che più non è lontano e le nuvole come pecorelle addolciscono quel cielo altrimenti superbamente indifferente.
Tornano alberi e palloncini in un’opera che prediligiamo, Nuova vita. È una vita nuova a due, che tanto Gauguin ci ricorda. Torna la persona dallo scrigno razionale e a fianco ne ha un’altra che però s’offre inaccessibile quanto alle sue viscere, ché sono vuote – e dunque mute – all’umano comprendere.
C’è una coppa da champagne, in basso: si brinda alla nuova vita o ci si ubriaca nella superficialità del vivere quotidiano? E sarà poi questo il senso? Lo sguardo speranzoso della figura di sinistra (per chi guarda), insieme timido e guardingo sembrerebbe dire: Vedremo.
Jacqueline Spaccini
Zagabria, 29 dicembre 2005
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