di Luigi Pirandello
Tradizionalmente, questo racconto pirandelliano inizia con darci un gran numero di informazioni sul personaggio principale.
Adriana Braggi, sposatasi a 18 anni, vive reclusa in casa, senza mai uscire, da ben 13 anni (ora ne ha dunque 35) cioè da quando è rimasta vedova dopo soli 4 anni di matrimonio. Nemmeno si avvicina - come fosse sepolta viva - alle finestre di casa, e per di più in una casa lontana dal centro abitato, il quale è comunque definito come «alta cittaduzza dell'interno della Sicilia», dove la terra è arsa dalle zolfatare.
Tutto sa di chiuso, di angusto, di limitato. Fin dall'incipit del racconto, manca l'aria, si respira appena.
Anche se il mondo è "fuori" e non ha modo di controllare il contegno di lei, la donna veste accuratamente di nero (come converrebbe a una vedova), con anche un fazzoletto che le nasconde i bei capelli castani che non presentano vanità alcuna.
Lo sguardo è mesto ma sereno e dolce; giacché se non è felice, perlomeno non è più tormentata dal marito, gelosissimo, ch'ella aveva sposato senza amore. Ma i «rigidi costumi» non si interessano alla sua condizione; infatti, pure da vedova, ella ha un codice da osservare: dev'essere invisibile, «quasi morta per il mondo».
Gli uomini hanno modo di distrarsi, le donne no: per loro ci sono le faccende domestiche e un allenamento fin da bimbe a diventar le serve dei loro futuri mariti. Unica "distrazione" possibile per loro: stringere tra le braccia un bimbo o in assenza di esso, recitare il rosario.
Com'era questo marito geloso scomparso nei primi anni del matrimonio? «Debole di complessione». Vale a dire debole, malaticcio, fisicamente poco attraente (al contrario di un altro ben più noto personaggio, quel Renzo Tramaglino, protagonista de I Promessi Sposi, il quale ha preso come tanti altri la peste, ma che, grazie alla sua «buona complessione», vincerà il male).
E Adriana non lo ama. Non l'ha mai amato. Da lui ne è oppressa a causa della gelosia che è ancora più forte in quanto rivolta verso il fratello maggiore, cui ha fatto un grave torto.
Secondo le regole non scritte di questa società siciliana (tuttavia sempre lontana nel racconto) che non entra dentro il microcosmo pirandelliano, perché le regole sono introiettata fin dalla nascita e anche da prima, nella famiglia Braggi, un solo uomo avrebbe dovuto sposarsi («perché le sostanze del casato non andassero sparpagliate»), secondo il diritto di maggiorasco, vale a dire il primogenito.
E il demerito (il «tradimento», dice il narratore) del defunto marito è quello di essersi sposato. E già, perché in questa storia non è lui il primogenito, bensì il fratello Cesare. Ma l'avente diritto a tutto il patrimonio nonché al diritto alle nozze, Cesare Braggi, non si è - all'apparenza - offeso, giacché il comune padre aveva disposto che il capofamiglia sarebbe rimasto lui, cui il fratello minore, seppure ammogliato, doveva comunque obbedienza, vita natural durante. Non poteva però più sposarsi, il figlio maggiore, appunto per non dividere a metà i beni familiari.
In tutto questo, Adriana si sente umiliata, giacché lei deve obbedienza al marito nonché al cognato. Non solo, ma ha appreso dal suo stesso sposo - e fin dall'inizio - che Cesare l'avrebbe chiesta in sposa, se il fratello minore non si fosse mosso in anticipo in tal senso.
Ancora più in imbarazzo si sentirà Adriana, allorquando si rende conto che il cognato la tratta come una «vera sorella»; è gentile, non esercita il suo potere su di lei, neppure dopo la morte del legittimo marito.
E anzi, l'imbarazzo che poteva instaurarsi a vivere, loro due da soli tra le pareti domestiche (Adriana ha comunque avuto due figli dal coniuge), è annullato dalla premura di Cesare che fa accorrere in casa la mamma di Adriana, ufficialmente affinché l'anziana donna le faccia compagnia.
Cesare non è descritto fisicamente, bensì solamente nel suo incedere interpersonale: è di una «squisita signorilità naturale» al contrario della ruvidezza dei paesani; di modi gentili, contro l'ordinaria rozzezza degli uomini del suo tempo, con giusto un po' di «rilassata pigrizia» a fare da contraltare a tanta virtù.
E che sia un vero uomo, un uomo vero in tutti i sensi, lo capiamo dal fatto che una volta all'anno - anche per più di un mese - il maggiore dei Braggi vada a «tuffarsi nella vita», a prendere «un bagno di civiltà»: a Palermo, Napoli, Roma, Firenze, a Milano. Quando ne ritorna è sempre come ringiovanito.
Invece Adriana non è mai uscita dal paese.
E ogni volta che lui torna, la donna ha un «segreto turbamento»: non sappiamo bene dire se sia dovuto all'incontro rinnovato col cognato oppure al vagheggiamento del viaggio di lui. Forse entrambe le cose?
Quale sia l'interesse segreto rivolto al cognato dovrebbe indicarcelo il fatto che all'epoca in cui il marito era ancora in vita, Adriana si sdegnava nel sentirsi raccontare dal fratello minore le avventure galanti del fratello maggiore e provava ribrezzo nel dover poi assecondare le voglie sessuali del marito sovraeccitato...
Una timidezza, quella di Adriana, che lei stessa imputa al marito geloso (il pensiero le si è inculcato nel profondo o già non esisteva?).
Con l'arrivo della madre di lei, tutto il suo amore si riversa sui figli e vive solo come mamma e non più (non mai) come donna. Il pretesto per sentire - senza colpe - l'assenza di Cesare è dato dalla paura che le donne avrebbero a stare di notte da sole, senza la protezione di un uomo, in casa. Tutto ciò rivela in realtà che lei non avrebbe voluto che lui se ne andasse neanche per una volta all'anno. In verità, a parte le vacanze annuali di un mese, il maggiore dei Braggi è uno zio attento, quasi un padre.
Ma poi anche la madre, divenuta una sorella, muore. E con essa muore in Adriana l'idea di essere ancora una figlia. Ora si sente vecchia, con quei due figli maschi di 16 e 14 anni, alti quasi quanto lo zio.
Finché a dare una svolta alla storia che finora è stata resoconto del passato, ecco che giunge la malattia di Adriana («un vago
malessere, una stanchezza, una oppressione un po’ a una spalla, un po’ al petto; un certo dolor
sordo che le prendeva talvolta anche tutto il braccio sinistro e che di tratto in tratto diventava
lancinante e le toglieva il respiro»). Un malessere alla pleura, il suo, che si manifesta chiaramente fin da subito come un male fatale. E che si rivelerà essere un cancro.
Occorre partire per avere nuovi e più ottimistici consulti, ma Adriana non ha abiti per viaggiare. E poi non può lasciare i figliuoli da soli... Per carità, per carità. Occorre ora a Pirandello una distrazione, un ralentissement, una deroga al finale. Ed ecco dunque i vestiti. Servono anche per ricordare - se mai ve ne fosse bisogno - che Adriana è bella. E se non sembra tale è solo perché si trascura.
Si ordinano i vestiti e i cappelli a Palermo, e quando arrivano dalla città, apprendiamo che sono neri da lutto, ma eleganti. I figli per primi vogliono vedere la loro mamma - che ora guardandosi allo specchio si vergogna per quegli abiti aderenti che la rendono fanciulla, giovane e bella. Anche i figli lo notano. E poi anche Cesare la vede e si complimenta con lei, dandole del tu.
Agitata ma sensuale, Adriana si pettina i lunghi e tanti capelli...
Finalmente si lascia la cittaduzza, si va a Palermo, poi si lascerà anche Sicilia, dirigendosi verso il Continente. Per altri consulti ancora, forse per un rimedio. Perché si tenta il tutto per tutto. E perché Cesare, soprattutto, non vuole darsi per vinto.
«Sola con lui».
Questo è il pensiero di Adriana. Torna il turbamento, all'apparenza ancora non riprovevole, ma in realtà portatore del vero significato dei suoi sentimenti fin lì soffocati.
Il viaggio si farà in treno.
Piacere e pene di quel viaggio: la meraviglia dei luoghi che ci sono sempre stati e sempre continueranno a esserci, anche senza di lei.
Adriana guarda fuori dal finestrino, per non guardare negli occhi di lui.
A Palermo, riceve la sentenza di morte attraverso lo sguardo di «costernazione» di Cesare Braggi e l'eccessiva gentilezza («la premura affettata») del primario che li ha ricevuti in casa e che ha dato ad Adriana una mistura composta di veleni che funzionano da medicinali. Ma che non servirebbero a guarirla.
Adriana vive la sua malattia come un'estranea, come se la morte non dovesse colpirla più di tanto, come se non già la morte di per sé non fosse interessante quanto piuttosto la sua stessa persona che ne è colpita.
Lei si sente infatti sempre e ovunque «estranea e di passaggio», come lo siamo tutti noi, ma in lei questa modestia che è la sua qualità principale, è anche la sua catena più grande.
Tuttavia, ora Adriana sa che non c'è più nulla da fare, che non potrà guarire e tornare alla vita di sempre, che non potrà più svolgere il suo ruolo di mamma, giacché il tempo della morte si appressa, dentro di sé «appiattata là sotto la scapola sinistra»... ora, che tutto è chiaro anche per lei, ora sì, Adriana può lasciarsi andare - insieme con le lacrime liberatorie - può concedersi finalmente alla VITA.
E di città in città, a cominciare da Napoli - ora che non c'è più nessuna onorabilità da salvare o decenza da osservare, lontano da sguardi bigotti, ecco alfine che vediamo quest'amore che è sempre rimasto protetto in un alone di non-detto, di non-pensato, finanche, divellere ogni regola.
Non c'è più posto, nel finale del racconto, per l'ironia iniziale proposta da Pirandello; non ci son più padroni uomini che rincasano, né donne sottomesse ad attendere. Ora ci sono un uomo e una donna che si amano liberamente, «senza memoria, coscienza né pensiero, in un'infinita lontananza di sogno».
Anche se ora - in quei pochi giorni vissuti felicemente -, ora che ha conosciuto tanti posti meravigliosi e l'amore a lungo taciuto di Cesare ormai condiviso, Adriana soffre perché non vorrebbe più morire. E poiché la fine è ineluttabile, allora sì, morire sì, ma nella frenesia, nella passione del vivere gli ultimi giorni della propria vita.
Non c'è via d'uscita: a Milano la nostra protagonista ha compreso chiaramente che è finita, ma vuole concedersi - romanticamente - un' ultima tappa, Venezia: il giorno di velluto, della gondola e della bara.
L'indomani prenderà la mistura di veleni. È il momento della precipitazione degli eventi, siamo giunti alle ultime righe della storia: Adriana beve tutta la boccetta dei medicinali. Un veleno che era anche un farmaco, un farmaco che è un veleno, estremo atto con cui andarsene silenziosamente dalla vita di tutti, anticipando l'attesa dell'irrevocabile sua dipartita.
Un Pirandello forse anomalo, questo de Il viaggio, per chi è abituato a leggere il suo amaro umorismo, puntuale soprattutto nelle chiose finali come è proprio della novella. Qui, l'autore siciliano aveva iniziato a fare del sarcasmo sociale, a proposito della condizione delle donne sottomesse ai mariti-padroni, ridotte a situazioni di schiavitù psicologica, s'è detto, in una Sicilia in cui esiste un sistema di valori interiorizzato che vale più della legge dei tribunali.
Ma poi il personaggio di Adriana mette le ali e nel momento in cui esce dall'angusto luogo in cui è nata e vissuta, si apre al mondo - come una Cenerentola o una Pretty Woman - assaporando la vita, il gusto leggero e felice e gioioso della vita, che tanto più è cara quando la sentiamo venire meno. Il finale, pur tragico, è delicato, è un suicidio razionale non disperato, senza commenti né da parte della protagonista né da parte del narratore; Pirandello non deve dimostrare, né proteggersi dalla censura. Scrive nei primi anni del Novecento, pubblica sul finire degli anni '20, Non è Flaubert, non ha tra le mani Emma, bensì Adriana. [Jacqueline Spaccini]
Un Pirandello forse anomalo, questo de Il viaggio, per chi è abituato a leggere il suo amaro umorismo, puntuale soprattutto nelle chiose finali come è proprio della novella. Qui, l'autore siciliano aveva iniziato a fare del sarcasmo sociale, a proposito della condizione delle donne sottomesse ai mariti-padroni, ridotte a situazioni di schiavitù psicologica, s'è detto, in una Sicilia in cui esiste un sistema di valori interiorizzato che vale più della legge dei tribunali.
Ma poi il personaggio di Adriana mette le ali e nel momento in cui esce dall'angusto luogo in cui è nata e vissuta, si apre al mondo - come una Cenerentola o una Pretty Woman - assaporando la vita, il gusto leggero e felice e gioioso della vita, che tanto più è cara quando la sentiamo venire meno. Il finale, pur tragico, è delicato, è un suicidio razionale non disperato, senza commenti né da parte della protagonista né da parte del narratore; Pirandello non deve dimostrare, né proteggersi dalla censura. Scrive nei primi anni del Novecento, pubblica sul finire degli anni '20, Non è Flaubert, non ha tra le mani Emma, bensì Adriana. [Jacqueline Spaccini]
IL VIAGGIO film del 1974
di Vittorio De Sica
con Sophia Loren & Richard Burton
liberamente ispirato al racconto
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Il testo integrale del racconto si trova qui
L'audiotesto che consiglio è la lettura di Margaret Collina (la migliore)
5 commenti:
il romanzo non l'ho letto,ma il tuo raccontarlo mi ha messo voglia di leggerlo ;)
GRAZIE, Marco.
La novella, se la ascolti in audiolibro letta da Margaret Collina, dura 37 minuti. È bello, anche, ascoltare la letteratura magari passeggiando, o guidando, oppure standosene al calduccio, a letto.
Io ascolto passeggiando nel bosco col cane.
È una novella stupenda.
Grazie di questa descrizione della bellissima novella di Pirandello. Ricordo il film interpretato con eleganza da una Sofia Loren attrice a tutto tondo e un Burton eccezionale. Daniela Fiorenza
Bellissima questa novella, la porterò al mio esame di maturità con Pirandello.
Ho letto la novella da ragazzo e ne rimasi affascinato. Le capacità di Pirandello nell'inserirti nel contesto del racconto mi sorprese. Sentivo l'aria malinconica di una donna umiliata e piena di sensi di colpa che però, poi, cambia e diventa consapevole che la sua esistenza è finalmente cambiata, assaporando alcuni piaceri fino ad allora a lei sconosciuti. Scopre che la vita si può vivere anche in pochi attimi, e che ciò è comunque soddisfacente, rendendo il finale appagante, non solo per lei e il cognato amato ma, anche per chi legge
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