martedì 17 marzo 2009

Sciascia, il «giallo» e la pittura

Pubblicato da Stilos (La Sicilia) con il titolo «La
tentazione di Zefer compie otto movimenti»
il 27/11/2001

Si trova anche nel mio libro Sotto la protezione di Artemide Diana, Rubbettino, 2009.

Le regole del “giallo” e l’escamotage
della pittura in Sciascia

di Jacqueline Spaccini


Nel suo “Breve storia del romanzo poliziesco” (in Cruciverba, Adelphi, 1988), Leonardo Sciascia riassume le regole di un genere, il giallo classico, oggi ampiamente ibridato con l’horror, il fantastico e lo storico.
Nel momento in cui scrive il suo saggio, gli appassionati di questa letteratura sono ancora dai più considerati lettori (e scrittori) di serie B; se chi legge (e scrive) polizieschi è anche lettore/autore di narrativa “seria”, la sua appare essere un’eccentrica passione. A distanza di tredici anni [quest'articolo è del 2001, N.d.A.], è la letteratura che tira di più; chi la legge (e la scrive) non si sente più un infiltrato al desco, ed anzi esce allo scoperto, nobilitato: dalla serie cadetta è stato promosso in quella maggiore, può persino lottare per lo scudetto.
Non credo proprio che Sciascia si sentisse uno scrittore mortificante, anzi; quindi quando afferma che “la lettura di un poliziesco è, nel senso più proprio della parola, passatempo”, sembrerebbe non nutrire sentimenti di elemosina, limitandosi ad una mera constatazione. Ma se così fosse, tale affermazione riguarderebbe abbastanza lapalissianamente tutte le altre letture; senonché, Sciascia precisa che, allorquando il tempo non è più portatore di pensieri, il pensiero fugge, la mente diventa una sorta di tabula rasa, in una condizione di beata passività. Certo, giusto il lasso di tempo che la lettura occupa, poi si torna alla vita di sempre. Quindi il primo punto sembra essere questo: il giallo intrattiene, col suo giusto grado di tensione, ma non porta né riflessione né arricchimento.

Sciascia insiste sulla “condizione di assoluto riposo intellettuale”, da parte del lettore evidentemente, perché la lettura possa essere per davvero un passatempo. Infatti, se l’intreccio di un giallo si apparentasse troppo al reale quotidiano, la lettura si rivelerebbe meno divertente, comporterebbe elementi di pathos, di angoscia. Ne consegue che, a rigore, le opere di Stephen King o di Patricia Highsmith non rientrano nella categoria descritta dallo scrittore di Racalmuto.
Ora, un punto sul quale non mi sento per nulla in sintonia con la sua “anamnesi familiare” è proprio quello che riguarda lo stato di passività e di riposo intellettuale del lettore. Comincerei da ciò che sta a monte della convinzione sciasciana: la nozione di tempo. Per lo scrittore siciliano, durante la lettura di un giallo, il tempo “non è più scandito da condizioni e condizionamenti”. Orbene, si dà il caso che la prima condizione, canonica, direi sine qua non, di un giallo d.o.c. è il rinvenimento di un cadavere (e quindi l’esistenza di un assassino e di un assassinato). In Genesi di un poema, Edgar Allan Poe ha scritto che per la risoluzione del mistero, bisogna procedere “con la precisione e la rigorosa logica di un problema matematico”. Nel 1928, lo statunitense William Huntington Wright, più noto con lo pseudonimo di Van Dine, il fortunato autore di una serie di romanzi con protagonista il detective Philo Vance, stabilisce venti regole per il poliziesco, tra le quali il gioco intellettuale, e paziente, che lo scrittore ingaggia con il lettore, una sorta di partita a scacchi con regole prestabilite cui entrambi debbono sottostare. Oggi lo si definirebbe il “patto narrativo” che un autore scambia col suo lettore, condizione gravida di tutta una serie di condizionamenti. I romanzi di Van Dine si fondano su una serie di condizioni obbligatorie cui è costretto per primo lo scrittore di gialli: la precisione e il rigore matematici augurati da Poe, il nodo del romanzo consistente più nell’inchiesta che nel mistero, per esempio.

E. A. Poe
Nel momento in cui un lettore accetta le regole del gioco proposte dall’autore del giallo che sta leggendo, egli ha a sua disposizione giusto il tempo (cioè le pagine che restano) di risolvere l’enigma, prima che sia troppo tardi. Sta qui la posta in gioco, nella sfida che il giocatore 2 (il lettore) raccoglie, confidando nell’onestà del giocatore 1 (l’autore): risolvere il mistero con l’aiuto degli elementi che gli sono via via offerti.
E’ il motivo per il quale il lettore di Agata Christie s’appresta a leggere i suoi romanzi con un sentimento misto di sfida e di scacco: egli sa che l’autore è di quelli che tradiscono il patto, che imbrogliano le carte in modo da lasciare il lettore (in versione detective) totalmente disorientato e confuso, al contrario di quello naïf o passivo, lui, piacevolmente sorpreso. Ad ogni buon conto, siamo lontani da qualsivoglia nozione di “deregolamentazione” del tempo: non soltanto il tempo non è più un flusso emotivo e indistinto, ma è addirittura razionalissimo e contato.
La ricerca della Lettera rubata
Sciascia non accorda una grande importanza all’elemento “mistero”, che è invece principale in altri autori e che ha permesso, se mi è concesso di anticipare, la dilatazione odierna dei confini del genere. In principio era un racconto di Poe: di già, nella Lettera rubata, veniva affrontata la nozione di mistero come enigma da risolvere (chi non ricorda quello che aveva nell’orangutan la sua risoluzione?) con il solo ausilio del ragionamento, ma faccio allusione all’altrettanto famoso Ritratto ovale, in cui fa il suo ingresso l’elemento fantastico. Il potere orrifico che al protgonista del racconto suscita spavento è rappresentato da un dipinto che ritrae una bellissima fanciulla. La risoluzione dell’enigma misterioso che racchiude il ritratto è la lezione di Poe di cui occorre far tesoro: il quadro è elemento che nasconde un segreto; questo segreto fonda e struttura l’intreccio del racconto; sulla rivelazione del segreto, sull’agnizione finale (qui, la vita trasferita alla materia inerte), si chiude il racconto stesso con un coup de théâtre.
Appresa la lezione, sia pure in ritardo, l’elemento pittorico (che si tratti di quadro o di pittore) diventerà elemento di escamotage nei gialli, affiancandosi spesso ad un altro nuovo ingrediente: la storia. Fermo restando la continuazione di un filone classico (che la linea di Lucarelli rappresenta a buon diritto), dal 1988, anno di pubblicazione del Nome della rosa di Umberto Eco, si assiste a un fiorire di gialli a sfondo storico, soprattutto in Francia (Lebigre), in Inghilterra (Peters) e in Spagna (Perez-Reverte), ma ci sono eccellenti esempi anche in Italia (Evangelisti, Rebulla). Al definitivo imbroglio di frontiere, bisognerebbe altresì aggiungere il contributo dell’elemento fantascientifico con una conseguente precipitazione dell’intrigo verso il “noir”.
Derogazioni a parte, e tornando all’elemento pittorico – anche come segno di mystère – che più mi interessa qui, c’è da ritenere un’altra osservazione di Sciascia: “[vi sono] romanzi che di poliziesco hanno soltanto la tecnica: quella tecnica che non permette al lettore di abbandonare il libro a metà, di non chiuderlo se non dopo aver letto l’ultima riga”. E’ un’annotazione importante, perché essa mi permette di introdurre un romanzo di Sciascia, Todo modo (1974, Einaudi), per dimostrare che Sciascia è colui che continua il giallo (o poliziesco che dir si voglia) nel segno della tecnica per un finale a “soluzione aperta”. Almeno negli intenti.
Invero, non è la prima prova di quel che la critica francese ha definito “conte moral et policier”: erano già apparsi Il giorno della civetta (1961), Il consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966) e il Il contesto (1971). Polizieschi, questi romanzi lo sono per il tessuto narrativo che si sviluppa come una lunga inchiesta, la maggior parte delle volte destinata a sfociare nel nulla. Il detective professionista (come il capitano del Giorno della civetta o il commissario Rogas del Contesto) o quello che lo è suo malgrado (come il filologo del Consiglio d’Egitto) sono alla ricerca della verità, ma una volta trovata non servirà a granché. Insomma, se sono polizieschi – sia pure alla lontana – lo sono per il carattere investigativo e per lo spirito di localizzazione e rivelazione che anima i protagonisti, ma essi hanno anche un carattere morale come sostrato didattico che rinvia allo Zadig di Voltaire, forse il primo poliziesco (se si esclude l’Edipo Re).
Prima di introdurre la materia narrativa di Todo modo, vorrei attirare l’attenzione di chi legge queste righe su di un elemento paratestuale, nient’affatto trascurabile, presente nella prima edizione italiana. Nel riquadro centrale della copertina einaudiana, vi è raffigurato un quadro del manierista Rutilio Manetti (1571-1639): La tentazione di sant’Antonio. Il lettore l’ignora ancora, ma in questo quadro è la chiave (simbolica) del romanzo di Sciascia. Vi si vede il santo occupato a leggere; dietro di lui, il diavolo sta tentandolo, ma è un diavolo atipico, con un paio d’occhiali, simbolo della più perniciosa delle tentazioni: il peccato del sapere, principale inganno dell’intelletto.


il pittore Fabrizio Clerici
Nel romanzo, il quadro si trova nella cappella dell’Eremo di Zafer (in Sicilia e non a Siena, dov’è realmente conservato; Sciascia l’aveva conosciuto grazie all’amico pittore Fabrizio Clerici) e rappresenta “san Zafer” (e non sant’Antonio). Così li descrive il narratore omodiegetico: “un santo scuro e barbuto, un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata, (…) gli occhiali a pince-nez.” Il diavolo, cui gli occhiali attribuiscono “un che di misterioso e di pauroso”, rimanda all’altro protagonista, don Gaetano, gestore dell’Eremo. E’ proprio il sacerdote a spiegare il valore di quegli occhiali: “il santo non ha più buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse leggerà il Corano o sant’Anselmo o sant’Agostino.” “Ahimè, che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta…”, conclude don Gaetano, citando alcuni versi del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni.
Si tratta di una copia, naturalmente, ma giacché il quadro, che esiste realmente, viene spostato dall’autore in un luogo falso, anzi inesistente nel senso stretto del termine (Zafer è Zafferana Etnea), è evidente che il soggetto di questa Tentazione di Manetti dev’essere portatore di un significato, o per restare più vicini a Sciascia, d’un indizio rivelatore.

Per lo scrittore siciliano, quattro sono le regole fondamentali per la costruzione di un buon giallo: “il porsi del problema; la presentazione degli indizi essenziali alla sua soluzione; lo sviluppo dell’inchiesta fino alla soluzione; la discussione sugli indizi in quanto prove e la dimostrazione che attraverso quelle prove si arriva alla prova definitiva della colpevolezza di uno dei personaggi del libro”. Ricordo di sfuggita che Sciascia è però ammiratore di Gadda, autore del “più assoluto giallo che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione”, pensando a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957, Garzanti). Al cinema il romanzo fu trasposto col titolo “Un maledetto imbroglio”, per la regia di quel genio che fu Pietro Germi; il regista genovese optò per il finale chiuso, con tanto di arresto di colpevole, scelta che mandò Gadda su tutte le furie.
dal film Todo modo di Elio Petri (1976)
Tornando a Todo modo, il protagonista di cui il lettore ignorerà finanche il nome, è pittore di fama. Fin dal suo arrivo all’Eremo, fa la conoscenza del gestore del luogo, don Gaetano, uno strano prete che esercita subito su di lui un’ambigua influenza: da una parte, il protagonista lo disprezza (in ragione dell’aspetto lucrativo e sordamente politico degli “esercizi spirituali” da lui gestiti nell’eremo); dall’altra, ne ammira l’intelligenza e la cultura. Ben presto, un primo delitto è commesso: qualcuno ha sparato al senatore Michelozzi, uccidendolo. L’arrivo della polizia non impedisce un secondo assassinio: è la volta dell’avvocato Voltrano, precipitato dalla sua camera situata all’ottavo piano. Due omicidi apparentemente inesplicabili. La polizia non riesce a trovare un solido “mobile” in grado di spiegarne la natura, mentre il prete e il pittore si lanciano messaggi velati, ciascuno volendo far comprendere all’altro di sapere chi ne è il responsabile. L’assenza di ogni indizio lascia però il lettore completamente all’oscuro. Un pomeriggio, al vecchio mulino, don Gaetano viene ritrovato cadavere, ucciso dal proiettile di una pistola. Suicidio o terzo delitto? In assenza di movente, il caso è archiviato.
In realtà, il romanzo è zeppo di indizi. Ma è indubbio ch’essi sono presentati sotto una forma più letteraria che poliziesca. Al lettore è richiesta una seconda lettura. Eccola, in otto movimenti: a) all’inizio del romanzo, il pittore dichiara, apparentemente a sproposito, d’essere “pronto a ripetere, a moltiplicare, quando sarebbe scattato, quando avre[bbe] potuto farlo scattare, il [s]uo atto di libertà”; b) don Gaetano porta occhiali che sono “la copia esatta di quelli del diavolo”; c) il primo omicidio segue una cena nel corso della quale la vittima (Michelozzi) e don Gaetano avevano avuto contrasti mascherati da “un rimbalzo di citazioni, come una partita di ping-pong”; d) la seconda vittima (Voltrano) si trovava alla sinistra di Michelozzi, nel momento in cui il senatore veniva ucciso ed aveva sospettato che “qualcuno si [fosse] insinuato tra lui e Michelozzi”, dando a intendere di aver riconosciuto l’assassino; e) a proposito dei primi cristiani, don Gaetano richiama Tertulliano, che voleva difenderli, concludendo in tal modo: “aveva torto Tertulliano a chiedervi [a voi non cristiani] di non temerci, a rassicurarvi”, perché il mondo “è l’orlo dell’abisso. L’abisso invoca l’abisso, il terrore invoca il terrore”. Al pittore, confessa altresì che la mancata scoperta dell’assassino gli è indifferente; f) il pittore afferma di aver trovato “la soluzione del problema netta e quasi ovvia” nella Lettera rubata di Poe; g) “che pasticcio”, dice il ministro al giudice Scalambri, quando viene rinvenuto il primo cadavere; “un pasticcio”, ripete il procuratore al ministro, facendo eco al romanzo di Gadda; h) il romanzo si chiude su un lungo brano, tratto da I sotterranei del Vaticano di André Gide.
Ne conseguirebbe – come ha ben osservato il critico letterario Nicolò Mineo – che il responsabile dei primi due omicidi è don Gaetano, ucciso a sua volta dal pittore. La risposta di quest’ultimo al procuratore Scalambri che gli chiede un alibi, “Dov’è che te ne sei andato?” “A uccidere don Gaetano”, a mo’ di boutade paradossale, sarebbe nei fatti una confessione.

Rutilio Manetti: La Tentazione di S. Antonio (1620, particolare)
La soluzione è dunque introdotta dal quadro di Manetti, come embrayeur o escamotage e spiegata alfine alla luce delle pagine di Gide, in cui Lafcadio uccide senza movente, in nome dell’atto gratuito, effetto senza causa, quell’atto che fa saltare l’anello della catena delle conseguenze: “un seul acte libre et, par contagion, tout ce qui est de l’homme est liberté”, concludeva Lafcadio. Fin dalle prime pagine, il pittore annuncia al lettore ch’egli è pronto a innescare il suo atto gratuito, in nome di quella libertà cui tutto ha sacrificato (“mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura”). Che don Gaetano sia esplicitamente assimilato al demone peggiore, quello dell’intelligenza e della cultura, è detto più volte nel romanzo. Né manca una timida identificazione del pittore con il Cristo (laico, certo), e che come il Cristo viene tentato dalla cattiveria lucida del prete: “non vi tenterebbe l’idea di dipingere un Cristo?”, respinta dal pittore, sia pure a malincuore.
Ho detto prima che se l’avvio della narrazione giallistica, l’escamotage, cui ricorre Sciascia è il dipinto di Manetti, la conclusione/soluzione è però nella letteratura. E’ tempo di richiamare Poe e la sua Lettera rubata, cui ho accennato più sopra, non per ricordare l’arcinoto ragionamento seguito dal cavaliere Auguste Dupin per trovare la soluzione, ma per insistere sulla portata della letteratura in questo poliziesco sui generis, nel senso che è la letteratura che spiega tutto, anche se non va al di là della scoperta, della notifica insomma, giacché quand’anche rivelazione, epifania, la letteratura è assolutamente impotente nella risoluzione dei drammi della vita sociale. [Jacqueline Spaccini]
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Pubblicato da Stilos (La Sicilia) con il titolo «La
tentazione di Zefer compie otto movimenti»
il 27/11/2001

5 commenti:

Clode ha detto...

Manco per qualche giorno e trovo l'arredamento cambiato! WOW

Io sono una delle poche persona al mondo che può leggere un romenzo giallo due volte...perchè mi dimentico come va a finire!!

Ma questo tuo posto lo devo rileggere con più calma...

un saluto
Clode

Marilde ha detto...

Ho dato un'occhiata veloce, più che sufficiente però a decidere di tornare con calma nei prossimi giorni, a rileggere TUTTO.

Jacqueline Spaccini (Artemide Diana) ha detto...

Grazie, Marilde. Comunque, esiste anche in versione cartacea (cfr. riferimenti)

Lucio ha detto...

Molto interessante

Lucio ha detto...

Molto interessante