lunedì 5 aprile 2010

1952-1956: IL CINEMA ITALIANO MOSTRA LO SMARRIMENTO DEL SUO POPOLO




 



GLI ANNI DELLO SMARRIMENTO
di Jacqueline Spaccini



Nella prima metà degli anni '50, tre grandi film appaiono sugli schermi (non solo) italiani: 

1952: UMBERTO D. di Vittorio De Sica

1953: I VITELLONI di Federico Fellini

1956: IL FERROVIERE di Pietro Germi

Tre film per molti versi assai dissimili tra loro, ma che a ben guardare sono legati tra loro da un sottile fil rouge di cui parlerò alla fine di questo testo.

Ma andiamo come al solito per ordine cronologico. 

UMBERTO D.

Anche stavolta, il soggetto e la sceneggiatura sono dell'onnipresente (e bravissimo) Cesare Zavattini, che aveva già collaborato con De Sica tanto in Sciuscià (1946) che in Ladri di biciclette (1948)
Per tutti e tre questi film, Zavattini avrà la nomination agli Oscar, senza purtroppo vincere mai.


È la storia di Umberto D(omenico) Ferrari, pensionato sui 70 anni che vive a Roma, abita  in una camera affittata che divide con il cagnolino Fllick o Flike (pronuncia: Flaik). In seguito a un ricovero ospedaliero, perde tutto e pensa al suicidio. Poi...





 Il film è dedicato alla memoria del padre di De Sica. Non è una dedica che nasce in seguito ad una scomparsa recente, no. Il papà di De Sica - il signor Umberto - è morto già da 20 anni, quando il regista gli dedica il film. Ma si chiama Umberto ed è stato un pensionato (ex impiegato di banca), ma soprattutto è colui che ha voluto che il figlio Vittorio diventasse un artista. La dedica quindi equivale a un «Grazie, papà per aver avuto fiducia in me. Ti voglio bene».





Il film si apre su una scena di protesta, un corteo di persone si muove compatto per le vie di Roma (via IV Novembre, poi piazza della Pilotta e infine piazza SS. Apostoli). Leggendo quel che v'è scritto sui cartelli, si capisce che si tratta di persone arrivate all'età della pensione che chiedono di avere un aumento perché non riescono ad arrivare alla fine del mese con i pochi soldi percepiti.


("Anche i vecchi devono mangiare")

Come anche negli altri film di De Sica, anche qui si avverte quell'affetto, quello sguardo pieno di compassione, della macchina da presa che si attarda senza troppe parole (solo quelle indispensabili), su scene come ad esempio quella in cui il vecchio signore rinuncia al suo pasto in una mensa pubblica per passarlo sottobanco al cagnolino.


Ma neppure la stanza nella quale alloggia da 20 anni è più la sua. In sua assenza, la padrona di casa la subaffitta infatti a coppie clandestine o a prostitute con clienti. Lui non paga gli arretrati e se non consegna le ventimila lire di debito, sarà sfrattato a fine mese (quindi deve stare zitto). 
Vende l'orologio da panciotto, vende i libri - altro non ha; d'altronde, era un professore.


Ma si è ammalato e l'unica persona che lo segue un po' è la giovane servetta (Maria Pia Casillo, moglie del famoso doppiatore Giuseppe Rinaldi). 


Neppure all'ospedale si ha compassione per la sua età e soprattutto per la sua dignità. Anzi, se vogliamo dirla tutta è proprio la sua dignità a perderlo.
I medici sono frettolosi, vanno per le spicce (= n'y vont pas par quatre chemins) e gli danno del «tu». Non c'è pieta per gli anziani indigenti. La cosa che implicitamente viene chiesta ai vecchi è di togliersi di mezzo. E in fretta.


La disperazione lo spingerà a chiedere (per un attimo soltanto) l'elemosina:



Metto uno spezzone di video che rende la liricità ma anche il fortissimo contrasto tra l'anziano professore che trema nello stendere la mano (sinonimo gestuale di richiesta di carità) e il décor dietro e attorno a lui di una Roma sontuosa e solare, magnifica capitale, con  il Pantheon  romano e le sue possenti colonne di granito del pronao.



Insomma, più che mai in questo film, di doman non c'è certezza...[*]
Ed ora veniamo al secondo film che ci interessa. 

I VITELLONI
Qui il soggetto e la sceneggiatura sono a quattro mani, di Federico Fellini e dello scrittore Ennio Flaiano
I protagonisti sono uomini, anzi giovani *vitelloni*, che nel dialetto pescarese  di Flaiano negli anni '50 stava a indicare dei giovanotti nullafacenti e con nessuna voglia di fare... 

il termine “vitellone” era usato ai miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato; comunque dedito più alle sue compagnie, alla frequentazione del caffé o del circolo locale, nonché della casa di tolleranza, che a tutto il resto. Si sentiva spesso dire nelle famiglie al ragazzo senza voglia di studiare: «Che vu’ fa? Lu vitellone?». Ma credo che il termine sia una corruzione di «vudellone», grosso budello, persona portata alle grosse mangiate e passato in famiglia a indicare il figlio che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire. Ecco tutto.” E scus’se è poche! [1].

E allora questi vitelloni, sono 5. E sono riminesi, anche se la storia non si svolgerà a Rimini (Emilia-Romagna).

Con accento leggermente emiliano, la voix off (il narratore che non si vede, ma che dice "noi" e quindi impersona tutti e cinque i giovani), fa le presentazioni.

Inizia da Alberto (Alberto Sordi, uno degli attori-registi più importanti del XX secolo)



Leopoldo, l'intellettuale (Leopoldo Trieste, lo incontreremo in altri film)


Moraldo (Franco Interlenghi. Lo abbiamo già incontrato, lo ricordate?)



Riccardino (Riccardo Fellini, fratello di Federico)




Fausto (Franco Fabrizi, attore che si specializzerà in ruoli di sfaccendato, truffatore, infìdo, sbruffone e vigliacco), il capo e guida spirituale (inteso in senso eminentemente ironico)




 Incipit: l'incoronazione di Miss Sirena 1953. Vince Sandra, sorella di Moraldo (Leonora Ruffo, in seguito apprezzzata attrice di film peplum).


Ma scoppia all'improvviso un temporale estivo, durante il quale la giovane miss sviene. È incinta. Di Fausto, naturalmente. Il quale Fausto, altrettanto naturalmente - dal suo punto di vista - pensa bene di svignarsela.


Ma c'è il padre che ha sentito tutto del dialogo tra Moraldo (ingenuo) e Fausto ed è allora il confronto tra due mondi: quello dell'anteguerra e quello del dopoguerra che la guerra la vuole dimenticare. E Fausto vuole divertirsi, vivere senza faticare, senza sacrifici.
Il padre (il babbo cui Fausto si rivolge dando del *voi*) è uomo di onore  (uomo d'altri tempi) e costringerà il giovane a sposare Sandra, la sorella di Moraldo.

Sono personaggi questi dei giovani vitelloni che vorrebbero essere grandi: vivono di sogni,  ma non fanno nulla per realizzarli per davvero -. In realtà, sono piccoli provinciali, embrioni dei futuri figli di papà (qui non lo sono ancora, perché i loro papà sono onesti lavoratori che guadagnano ben poco e i cosiddetti fils à papa, invece, sono figli di borghesi).

Senza cadere in facili stereotipi, tuttavia, il regista fa intendere che non intende contrapporre le nuove leve (i giovani) agli uomini maturi (i loro genitori). Quasi subito vediamo messi a confronto il giovane Moraldo con un ancor più giovane ragazzino (Guido) che alle 3h è in piedi per andare a lavorare [Moraldo perché fa sempre tardi a bighellonare (= traîner, paresser)]. Il piccolo Guido, il ragazzino, non è interessato al tipo di lavoro che svolge; non ha sogni nel cassetto, né grilli (= lubies) per la testa, lui (assomiglia al Bruno di Ladri di Biciclette, da questo punto di vista).


Che tipo di lavoro fai? 
Te l'ho detto: lavoro.

E se Alberto può permettersi di fare il vitellone grazie al denaro che gli passa la sorella,  la sua mentalità resta quella di un provinciale, quando la sorprende sulla spiaggia di Rimini (in realtà, è la spiaggia romana di Ostia) in compagnia di un uomo sposato:

Ma vado avanti, ché dovete lavorare su questi film e non voglio dire tutto io.
Mi limito solo ad aggiungere la bande-annonce francese dell'epoca (cliccare sulla parola sottolineata)..


Passiamo ora al terzo film.

IL FERROVIERE

Questo film potrebbe - non senza qualche ragione - essere escluso dalla filmografia neorealistica, ma che a mio modo di vedere, lo è.


Il film inizia all'1'40"


 Colpisce da subito la scena iniziale del film che ineluttabilmente rimanda a Ladri di Biciclette.
Qui abbiamo la figura di un  bambino, maschio come Bruno (ricorderete  la bimba Maria Cecconi della Bellissima viscontiana). A differenza di Bruno, questo avanza sorridendo. Sandrino - così si chiama il bimbo - non lavora. Nell'Italia del '56, un bambino è finalmente nient'altro che un bambino che può vivere la sua infanzia. Tuttavia, come vedremo, non per questo soffre di meno.


Nel film di Germi, l'interesse si sposta sulla famiglia. Mai tranquille, le famiglie di Germi. 
Qui abbiamo una famiglia tipo: il padre, la madre, la figlia e il figlio più grandi e  Sandrino, il figlioletto. Li vediamo riuniti davanti al desco (= table) serale. Ma di già il figlio e la figlia disertano la tavola o l'abbandonano dopo un litigio con il padre. E a tavola si ritrovano in 3, anzi in 2, perché la donna serve gli altri a tavola e mangia per ultima.


Ma se il film ha per titolo Il Ferroviere (= le cheminot), un motivo ci sarà. 

In effetti, tutta l'attenzione è inizialmente e idealmente concentrata su Andrea Marcocci, macchinista delle Ferrovie dello Stato, ruolo interpretato dallo stesso regista [2]. Uno dei problemi del ferroviere Marcocci è che beve. Ha sempre con sé il suo fiasco di vino e spesse volte si ritrova a far notte nell'osteria sotto casa, insieme con il suo collega Gigi. Persino la notte di Natale...


Inviato dalla mamma, Sandrino è incaricato di far rincasare il babbo ubriaco. 

Non è una realtà anomala, quella che Germi rappresenta. Perlomeno non è anomala  nel ceto operaio - o addirittura sottoproletario - nell'Italia di quegli anni (e dei precedenti). 

Nella famiglia c'è un solo lavoratore, il padre, che si comporta da marito tiranno e da padre-padrone all'interno della famiglia, credendo di governare la casa. La realtà è che non capisce nulla di quel che accade all'interno della sua famiglia e che è la madre a capire e a cercare di risolvere i problemi che l'uomo rifiuta - più o meno incosciamente - di affrontare.


Nel film il narratore-commentatore capiamo essere Sandrino (Edoardo Nevola)[3].
Ma la voce del bimbo è inascoltata.


È ancora la periferia romana quella che fa da sfondo alla storia di Germi: si intravede sulla sinistra, la cupola cilindrica della basilica di Santa Maria Regina degli Apostoli alla Montagnola, che ai tempi del film era stata appena edificata (1945-1954), nel quartiere Ostiense.

(photo by Lalupa; cliccare qui per i diritti)

Per ora basta. Mi fermo qui per permettere a voi di riflettere e di continuare a lavorare su queste pellicole.

Riflettiamo sul fatto che tre film apparentemente diversi, con focalizzazioni diverse (un vecchio, dei giovani, una famiglia) hanno in comune:
1. la perdita di punti di riferimento; 
2. la  caduta della spinta propulsiva di stampo ottimistico che aveva caratterizzato l'immediato dopoguerra (e con ciò il cinema); 
3.  il vuoto morale; 
4. la confusione dei ruoli sociali. 

Questi tre film, ognuno a suo modo, indicano che a partire da quel momento storico (metà degli anni '50) gli italiani dovranno (ri)0cercare e  (ri)costruirsi una nuova identità, trovare nuovi valori o recuperarne di vecchi. 

La famiglia, la gioventù, la vecchiaia, l'uomo, la donna e i bambini, i rapporti sociali e interpersonali: tutto scoppia come una bomba nella società italiana che vuole gettarsi alle spalle un passato ma ignora ancora come progettare il proprio futuro.


Jacqueline Spaccini©2010
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[1] Dalla corrispondenza tra E. Flaiano e G. Rosato (Lanciano, Rocco Carabba ed., 2008)
Che vu' fa? Lu vitellone? = Che cosa vuoi fare, il vitellone? (fainéant ; pour le sens, mais il ne faut pas traduire le mot, accepté tel quel en français).
E scus'se è poche! = E scusa se è poco.
[2] Ricordo che al Centro Sperimentale di Cinematografia, Germi si diplomò dapprima attore e in seguito regista.
[3] Per seguire l'intervista al bambino Sandrino, al secolo Edoardo Nevola, divenuto uomo adulto che ricorda il film e P. Germi, clicca qui.
* di doman non c'è certezza (è il verso conclusivo di una famosa poesia di Lorenzo dei Medici detto il Magnifico ed è un'esortazione al carpe diem rivolta alla giovinezza: Quanta bella giovinezza/che si fugge tuttavia/ [...] chi vuol esser lieto sia/di doman non c'è certezza, Canzone di Bacco, Canti carnacialeschi) .




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