ODDIO, MIO FIGLIO È POLIGLOTTA!
Avvertenza: mi limito a stimolare alla lettura, il libro è ricco di suggestioni. Lascio a voi il piacere e il gusto di scoprire quelle che vi interessano!
Raffaele De Rosa, Riflessioni sul plurilinguismo. Un dialogo privato su un fenomeno pubblico in espansione. Bellinzona (Canton Ticino, CH), edizioni Casagrande, 2009, p. 135, 18€,
ISBN 9788877135384
ISBN 9788877135384
Premessa: Chi ha scritto questo libro non è soltanto un linguista, filologo e germanista. Chi ha scritto questo libro è anche e soprattutto un padre che parla in italiano coi suoi figli, i quali parlano in svizzero-tedesco con la mamma e all'occasione in spagnolo, inglese e quant'altro con amici e/o partner.
Sì, certo. Non deve assolutamente regredire, mai. Alcuni anni fa, una mia coetanea figlia di un'italiana e di un francese, mi confidò - con eccessiva fierezza - che sua mamma non le aveva insegnato una parola di italiano (noi due parlavamo in francese).
Provai molta pena per lei. Aveva perso una grande opportunità.
Le persone spesso non si rendono conto che l'acquisizione di una lingua non prevede l'immagazzinamento e sfruttamento di un patrimonio lessicale e basta. Non si tratta di saper salutare qualcuno, parlare al telefono o acquistare i biglietti di aereo senza problemi.
Insieme con la lingua si prende un pacchetto di emozioni, cultura, modi di pensare, di fare, di gestire e gesticolare, un humour, un carattere, punti di vista.
Come si fa a educare i propri figli in modo plurilingue, e soprattutto in maniera armonica?
Nemmeno per l'autore, Raffaele De Rosa, esistono ricette magiche. Tuttavia vi sono alcune linee di condotta che possono essere messe concretamente in atto. Cito:
"In tutte le famiglie esistono delle lingue usate per le relazioni primarie fin dai primi mesi di vita del bambino da persone che in qualche modo hanno un ruolo affettivo importante. Ecco una serie di lingue importanti per le relazioni primarie tra adulti e bambini nei primi 3-4 anni di vita:
- la lingua materna. Secondo alcuni studi il bambino è in grado di distinguere il tono della voce e gli stati d'animo della madre fin dai primi mesi dopo il concepimento in grembo.
- la lingua paterna. Anche il padre può interagire con il bambino fin dai primi mesi dopo il concepimento, in ogni caso fin dalla nascita il bambino è in grado di distinguere anche la sua voce.
- la lingua dei nonni. Essa subentra in genere in un secondo momento ed è influenzata dall'intensità dei contatti tra il bambino e i nonni stessi.
- la lingua della baby-sitter. Essa è generalmente legata a una figura presente nella vita del bambino piuttosto precocemente ed è subordinata alla presenza o meno dei genitori e dei nonni.
- la lingua dei fratelli/delle sorelle. Generalmente si tratta delle lingua adottata dai fratelli e dalle sorelle più grandi.
- la lingua della maestra/del maestro. Si tratta della prima lingua scolastica, spesso il primo contatto linguistico con una persona estranea alla famiglia del bambino" (p. 46).
Aneddoto finale
Ultimamente, mentre riempiva il suo dossier di candidatura per l'ESEC (l'École Supérieure d'Études Cinématographiques de Paris), mio figlio mi ha chiesto (in italiano): "Mamma, mi viene chiesto di dire che cosa penso di apportare con la mia persona al corso di studi. Che rispondo?"
Gli ho detto: "Scrivi: MA DIFFÉRENCE CULTURELLE".
La mia differenza culturale.
_______
(1) Secondo i puristi dell'Accademia della Crusca, il plurale di plurilingue è ammesso per il sostantivo, ma non per l'aggettivo. Clicca qui.
Quella che lui, l'autore, vede come una benedetta babele linguistica, sta diventando una realtà sempre meno fantascientifica e sempre più visibile nei nostri territori, in ragione di due fattori: 1) ci spostiamo di più, in Europa e nel mondo, sposando (andando a convivere con) un autoctono del Paese che ci accoglie; 2) trasmettiamo ai figli la nostra lingua di appartenenza (un tempo, il genitore "ospite" amputava la propria lingua, convinto che i figli dovessero incontrare il minor numero di ostacoli nell'apprendimento della lingua e "scegliendo" di non trasmettere la propria).
Chi scrive qui, la sottoscritta insomma, si è interessata al libro di De Rosa non tanto come linguista di un tempo che fu, quanto come genitrice di un ragazzo che gestisce tre lingue, parlandole in un giornata standard secondo questa percentuale: l'italiano (40%), il francese (10%) e l'americano (50%); sapendo leggere e scrivere in tutte e tre le lingue.
Chi scrive qui, la sottoscritta insomma, si è interessata al libro di De Rosa non tanto come linguista di un tempo che fu, quanto come genitrice di un ragazzo che gestisce tre lingue, parlandole in un giornata standard secondo questa percentuale: l'italiano (40%), il francese (10%) e l'americano (50%); sapendo leggere e scrivere in tutte e tre le lingue.
Le domande che De Rosa si pone e alle quali intende rispondere nel corso del suo testo riguardano l'educazione plurilingue in famiglia, i meccanismi atti ad apprendere più lingue (in situazione; qui NON si parla dello studente che impara una lingua in maniera "artificiale" - cioè non vivendo sul luogo - oppure "non viscerale"- cioè non appartenente ad almeno uno dei due genitori -). Non è dunque il caso di leggere questo post, se si vogliono risposte per il nostro fanciullo che studia inglese due ore alla settimana (ma in fondo, sì, perché il libro di De Rosa apre a varie riflessioni).
Qui si parla di una persona (bambino/a, adolescente, ragazzo/a) che si trova ad apprendere una o più lingue perché si trova a VIVERLA in un determinato luogo o perché essa È la lingua del genitore. O che addirittura si trova in entrambe le situazioni.
Ciò detto, cominciamo dalla prima domanda, la più ovvia: Che cos'è il plurilinguismo?
Si parla di *plurilinguismo* quando si capiscono, parlano, leggono e scrivono (le cosiddette 4 abilità di base) più lingue contemporaneamente.
Facciamo subito la seconda domanda: c'è differenza tra plurilingue e bilingue?
Be', si capisce: *bilinguismo* si ha quando ci sono due lingue acquisite/apprese (non sono sinonimi!), *plurilinguismo* in altre occasioni. Lo spiego meglio con un aneddoto autoriale.
De Rosa ha raccontato un evento al quale ha partecipato e durante il quale più persone parlavano più lingue con persone diverse (a Schaffhausen, credo. Comunque nella Svizzera tedesca). Lui per primo, ad esempio, s'era ritrovato a parlare in italiano col figlio, in italiano e svizzero-tedesco con la fidanzata del figlio, in italiano e portoghese con il padre della fidanzata del figlio, in italiano, spagnolo e svizzero-tedesco con i docenti della fidanzata del figlio (svizzeri, ma proff di spagnolo); il figlio parlava in svizzero-tedesco con la fidanzata e il padre di lei, in italiano con suo padre, in spagnolo, svizzero-tedesco e italiano coi docenti, in spagnolo con l'amica della fidanzata, etc.
Per dire. Diciamo allora che tutti quanti si arrangino con almeno tre lingue possono definirsi plurilingui(1). L'importante è che si sappia capire bene quanto viene detto e agevolmente quel che si va a comunicare.
Passiamo alle istruzioni per l'uso.
Mettiamo un papà e una mamma di lingua diversa che allevano un figlio nel Paese di uno dei due oppure in un terzo Paese, la cui lingua non appartiene a nessuno dei due.
Che fare?
Trasmettere (non si tratta di insegnare!) le proprie lingue (e - eventualmente - lasciare che la scuola e la società - i sistemi extrafamiliari, insomma - si occupino di insegnare quella del territorio)?
De Rosa (ed io con lui) non ha dubbi: sì.
Sì, anche se molti genitori temono di "sovraesporre" i loro figli a un eccesso di informazioni. Ci son passata anch'io, ma la risposta è: state tranquilli, il cervello di un bimbo sa molto bene riceverle, queste informazioni, ma soprattutto sa bene [dove] stoccarle (ogni cosa al suo posto in un cassetto o dossier che dir si voglia virtuale) e riutilizzarle al momento giusto.
Ha solo bisogno di tempo. Un po' più di tempo di un altro bimbo che apprende una sola lingua. Per questo motivo (qui parlo io, non De Rosa), i bambini esposti a più lingue simultaneamente spesso parlano più tardi degli altri. Ma non hanno ritardi intellettuali!
Qui De Rosa non ha dubbi (io, qualcuno, sì): quella della madre. Quella del padre sarà la lingua padre. Ma entrambe saranno da considerarsi "prima lingua". In realtà, come scrive lui stesso poco dopo, c'è sempre una delle due lingue che sarà considerata forte e l'altra debole, cioè quella più e quella meno condivisa. Questo per i bilingui.
Per i tri- o quadri-lingui, esiste anche e soprattutto la nozione di lingua sociale. La lingua diventa una sorta di meccanismo intercambiabile.
La lingua cosiddetta debole dev'essere sempre sostenuta anche quando è parlata soltanto all'interno delle pareti domestiche?
Ciò detto, cominciamo dalla prima domanda, la più ovvia: Che cos'è il plurilinguismo?
Si parla di *plurilinguismo* quando si capiscono, parlano, leggono e scrivono (le cosiddette 4 abilità di base) più lingue contemporaneamente.
Facciamo subito la seconda domanda: c'è differenza tra plurilingue e bilingue?
Be', si capisce: *bilinguismo* si ha quando ci sono due lingue acquisite/apprese (non sono sinonimi!), *plurilinguismo* in altre occasioni. Lo spiego meglio con un aneddoto autoriale.
De Rosa ha raccontato un evento al quale ha partecipato e durante il quale più persone parlavano più lingue con persone diverse (a Schaffhausen, credo. Comunque nella Svizzera tedesca). Lui per primo, ad esempio, s'era ritrovato a parlare in italiano col figlio, in italiano e svizzero-tedesco con la fidanzata del figlio, in italiano e portoghese con il padre della fidanzata del figlio, in italiano, spagnolo e svizzero-tedesco con i docenti della fidanzata del figlio (svizzeri, ma proff di spagnolo); il figlio parlava in svizzero-tedesco con la fidanzata e il padre di lei, in italiano con suo padre, in spagnolo, svizzero-tedesco e italiano coi docenti, in spagnolo con l'amica della fidanzata, etc.
Per dire. Diciamo allora che tutti quanti si arrangino con almeno tre lingue possono definirsi plurilingui(1). L'importante è che si sappia capire bene quanto viene detto e agevolmente quel che si va a comunicare.
Passiamo alle istruzioni per l'uso.
Mettiamo un papà e una mamma di lingua diversa che allevano un figlio nel Paese di uno dei due oppure in un terzo Paese, la cui lingua non appartiene a nessuno dei due.
Che fare?
Trasmettere (non si tratta di insegnare!) le proprie lingue (e - eventualmente - lasciare che la scuola e la società - i sistemi extrafamiliari, insomma - si occupino di insegnare quella del territorio)?
De Rosa (ed io con lui) non ha dubbi: sì.
Sì, anche se molti genitori temono di "sovraesporre" i loro figli a un eccesso di informazioni. Ci son passata anch'io, ma la risposta è: state tranquilli, il cervello di un bimbo sa molto bene riceverle, queste informazioni, ma soprattutto sa bene [dove] stoccarle (ogni cosa al suo posto in un cassetto o dossier che dir si voglia virtuale) e riutilizzarle al momento giusto.
Ha solo bisogno di tempo. Un po' più di tempo di un altro bimbo che apprende una sola lingua. Per questo motivo (qui parlo io, non De Rosa), i bambini esposti a più lingue simultaneamente spesso parlano più tardi degli altri. Ma non hanno ritardi intellettuali!
Alcuni bimbi poi sembrano non apprendere nulla della lingua del genitore-ospite. Non è così, è che il bimbo non trova "ragione" di utilizzare una lingua che non condivide con nessun altro (a parte il genitore). Il figlio di due miei amici, ad esempio, è stato esposto al francese fin dalla nascita, ma viveva a Roma. A sei anni, si è stabilito per un periodo di vacanza nel paese dei nonni paterni, in Francia. I nonni parlavano esclusivamente francese (anche volendo, non capivano l'italiano). Il bimbo si espresse in perfetto francese. Ma sia plauso anche alla nonna, che decise qualche anno dopo di apprendere l'italiano in una età non confortevole per l'apprendimento delle lingue.
Se un bambino apprende simultaneamente due lingue, quale sarà la lingua madre?Qui De Rosa non ha dubbi (io, qualcuno, sì): quella della madre. Quella del padre sarà la lingua padre. Ma entrambe saranno da considerarsi "prima lingua". In realtà, come scrive lui stesso poco dopo, c'è sempre una delle due lingue che sarà considerata forte e l'altra debole, cioè quella più e quella meno condivisa. Questo per i bilingui.
Per i tri- o quadri-lingui, esiste anche e soprattutto la nozione di lingua sociale. La lingua diventa una sorta di meccanismo intercambiabile.
La lingua cosiddetta debole dev'essere sempre sostenuta anche quando è parlata soltanto all'interno delle pareti domestiche?
Sì, certo. Non deve assolutamente regredire, mai. Alcuni anni fa, una mia coetanea figlia di un'italiana e di un francese, mi confidò - con eccessiva fierezza - che sua mamma non le aveva insegnato una parola di italiano (noi due parlavamo in francese).
Provai molta pena per lei. Aveva perso una grande opportunità.
Le persone spesso non si rendono conto che l'acquisizione di una lingua non prevede l'immagazzinamento e sfruttamento di un patrimonio lessicale e basta. Non si tratta di saper salutare qualcuno, parlare al telefono o acquistare i biglietti di aereo senza problemi.
Insieme con la lingua si prende un pacchetto di emozioni, cultura, modi di pensare, di fare, di gestire e gesticolare, un humour, un carattere, punti di vista.
Come si fa a educare i propri figli in modo plurilingue, e soprattutto in maniera armonica?
Nemmeno per l'autore, Raffaele De Rosa, esistono ricette magiche. Tuttavia vi sono alcune linee di condotta che possono essere messe concretamente in atto. Cito:
"In tutte le famiglie esistono delle lingue usate per le relazioni primarie fin dai primi mesi di vita del bambino da persone che in qualche modo hanno un ruolo affettivo importante. Ecco una serie di lingue importanti per le relazioni primarie tra adulti e bambini nei primi 3-4 anni di vita:
- la lingua materna. Secondo alcuni studi il bambino è in grado di distinguere il tono della voce e gli stati d'animo della madre fin dai primi mesi dopo il concepimento in grembo.
- la lingua paterna. Anche il padre può interagire con il bambino fin dai primi mesi dopo il concepimento, in ogni caso fin dalla nascita il bambino è in grado di distinguere anche la sua voce.
- la lingua dei nonni. Essa subentra in genere in un secondo momento ed è influenzata dall'intensità dei contatti tra il bambino e i nonni stessi.
- la lingua della baby-sitter. Essa è generalmente legata a una figura presente nella vita del bambino piuttosto precocemente ed è subordinata alla presenza o meno dei genitori e dei nonni.
- la lingua dei fratelli/delle sorelle. Generalmente si tratta delle lingua adottata dai fratelli e dalle sorelle più grandi.
- la lingua della maestra/del maestro. Si tratta della prima lingua scolastica, spesso il primo contatto linguistico con una persona estranea alla famiglia del bambino" (p. 46).
Aneddoto finale
Ultimamente, mentre riempiva il suo dossier di candidatura per l'ESEC (l'École Supérieure d'Études Cinématographiques de Paris), mio figlio mi ha chiesto (in italiano): "Mamma, mi viene chiesto di dire che cosa penso di apportare con la mia persona al corso di studi. Che rispondo?"
Gli ho detto: "Scrivi: MA DIFFÉRENCE CULTURELLE".
La mia differenza culturale.
_______
(1) Secondo i puristi dell'Accademia della Crusca, il plurale di plurilingue è ammesso per il sostantivo, ma non per l'aggettivo. Clicca qui.
5 commenti:
studio linguistica all'università e trovo molto interessante tanto il libro che proponi quanto le tue riflessioni. SOno plurilingue: italiano, inglese, spagnolo, tedesco.
E pluridialettale: friulano, romano e sardo.
Una babele insomma... è veramente interessante questo libro e, secondo me, è un tesoro conoscere più strumenti comunicativi.
NOn ricordo chi, ma "qualcuno" diceva: meglio conoscere tante lingue un pò, che nessuna.
In realtà..ad onor del vero..tra le lingue metto anche friulano e sardo...
Occhi, sono (stata)linguista. Ora mi interesso di più alla storia dell'arte e alla letteratura.
Son passaggi.
A proposito di aneddoti, ricordo quello spassosissimo di Roman Jakobson, di cui si diceva parlasse 7 lingue.
Al che, lui replicava: "Sì, parlo russo in 7 lingue diverse".
:)))
Il signore in questione era una simpaticone, in effetti... lo studiai di pari passo con il francese Sass.
e perché, Hjemslev, no?
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