lunedì 25 aprile 2011

IL VIAGGIO DI UNA ZUCCA (favola di Jacqueline Spaccini)

A Romain che oggi ha 19 anni, ma che ne aveva  soltanto 7  quando scrissi per lui questa fiaba


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IL VIAGGIO DI UNA ZUCCA


Chiamarsi Citrullo, non gli era mai piaciuto. Era un nome che gli avevano dato così, in mancanza di meglio. Perché trattandosi di  una zucca mai nome sembrava più azzeccato. Anzi, cucito addosso. Una zucchetta trovata così, in mezzo alla paglia di un fienile, da sola. Per la precisione da solo, ché la zucca in questione era un maschietto. Tutti lo prendevano in giro: Citrullo di qua, Citrullo di là, e giù a ridere, melanzane e peperoni in testa.
Quando le gambe erano state abbastanza solide da sopportare un viaggio, Citrullo decise di partire alla ricerca delle sue origini, e del suo vero nome. Non sapeva nemmeno se i suoi  genitori erano morti, strappati alla terra in un mattino assolato, oppure se lo avevano abbandonato perché non avevano i mezzi per farlo crescere…
Citrullo voleva conoscere la risposta a tutti i suoi perché, qualunque risposta, purché fosse la verità. E poi non aveva amici alla fattoria, a parte una giovanissima zucchina verde, una baby, che si chiamava – beata lei – Smeralda



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Grullo, lo spaventapasseri, gli aveva detto di recarsi al Castello dei Problemi.
Laggiù viveva un mago che aveva una risposta per tutte le domande. Grullo sapeva questo da una cornacchia che spesso gli andava a rendere visita nel campo, in tempo di semina. Racchia la cornacchia (che, quanto al nome, pure lei era stata sfortunata) gli aveva raccontato di labirinti e trabocchetti nascosti nel Castello, di scheletri divoratori e dragoni trasparenti, e di una strega che preparava pozioni disgustose a base di cacca e pipì di scarafaggi…
“Mi raccomando, stai attento, la strada è lunga e il Castello è pericolosissimo…” gli fece Grullo, che regalò a Citrullo, da lui chiamato Trullo, alcuni semi di girasole da sgranocchiare durante il viaggio.
            Il nostro zucchino si risolse dunque a viaggiare di notte per non fare brutti incontri lungo il tragitto, ma in cuor suo ebbe comunque molta paura, per via delle civette, dei rami minacciosi degli alberi invernali, dei pipistrelli che svolazzavano sulla sua testa, del buio che lo circondava, e di tanti altri timori ed incubi che lo assalivano strada facendo.
            Come fu come non fu, arrivò in vista del Castello.
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            All’apparenza, sembrava un castello come gli altri: se gli avessero detto che là dentro c’era una principessa addormentata che aspettava il bacio del suo principe, ci avrebbe creduto. Ma fin dal fossato, capì che quel Castello era speciale. Nell’acqua nera nera, orme di fantasmi che scivolavano pigri s’intravedevano urlanti e tutti incatenati tra loro come in una danza macabra… La sentinella della torre principale non aveva un’armatura di ferro, ma una serie di scaglie durissime e violacee con una fiamma che fuoriusciva dalle fauci: un drago immenso stava alla guardia del Castello dei Problemi!
            Citrullo non era più tanto sicuro di voler entrare: certo, lo spaventapasseri gli aveva detto che molti dei mostri che vivevano nel Castello erano frutto dell’immaginazione, che non esistevano per davvero; però, tutto questo ragionare non aiutava in nulla le sue gambe che non la smettevano di tremare…
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            Infine entrò. Nessuno si meravigli che la sentinella a guardia del Castello, il drago Pestifero, non bruciasse immediatamente con una sola fiammata il nostro eroe: chi avrebbe sospettato di un’innocua zucca alla vigilia di Halloween? Anzi, Pestifero scese dalla sua torretta e andò a raccogliere la zucca da terra – per la paura, Citrullo aveva accorciato le gambe, che ora erano di due centimetri di lunghezza – e pensò bene di portarla nella sua camera, dirimpetto a quella della strega.
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Citrullo chiuse gli occhi e sperò che il drago non sentisse che i suoi denti battevano, in preda al terrore più nero…
Nella stanza  del drago Pestifero, c’era un ospite abituale delle serate tra sentinelle: sì, perché non è che ci fosse davvero bisogno di fare la guardia al Castello dei Problemi. In primo luogo perché tutti sapevano che era frequentato da draghi e scheletri, streghe e maghi, vampiri e serpenti, mostri e demoni… In secondo luogo, perché quello era il Castello dei Problemi e siccome nella vita uno di problemi ne ha fin troppi, nessuno aveva voglia di andare a cercarseli proprio lì. A parte Citrullo, certo.
L’ospite abituale del drago Pestifero era… Morbidona la cicciona. Veramente il suo vero nome era Asdrubala, ma siccome era troppo serio e difficile da pronunciare, il drago la sua amica strega aveva deciso di chiamarla così, anche per via della ciccia che le cascava a pezzi da tutte le parti. Però davanti a lei non diceva mai “Morbidona, come stai?”, perché la strega Asdrubala gli avrebbe dato una bastonata con la sua scopa e magari gli avrebbe gettato addosso anche qualche sortilegio… Davanti a lei, Pestifero pensava Morbidona-la cicciona, ma diceva: “Asdrù” e tutto per fortuna finiva lì.
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Loro due giocavano a carte tutte le sere. Giocavano al gioco che si chiama “Tre sette col morto”; ora il problema non era il terzo giocatore, che il Mago veniva spesso a bere un bicchierino di fiele alla cicuta, un veleno sopraffino; il problema era cercare ogni sera il quarto giocatore, cioè “il morto”. Per la verità, dabbasso, nel sotterraneo,  c’era uno scheletro a disposizione. Lo scheletro della cantina si chiamava Tetro, ed era sempre ubriaco, perché s’era bevuto tutto il vino conservato. Non era molto gradito ai giocatori, perché aveva il fiato troppo puzzolente, persino per un drago ed una strega e infine era sempre lo stesso morto. Loro avevano bisogno di un morto “fresco di giornata”.
Citrullo era sempre più spaventato: nella tasca dove il drago l’aveva posto faceva un caldo infernale, non si riusciva a respirare; inoltre, un ragnetto dispettoso gli andava su e giù sulla faccia. Quando gli entrò nel naso, Citrullo non resistette e starnutì.
        Eeetchiù!!!!!!!!
        Per tutti gli Orchi di Katmandù, che è stato?, fece Pestifero il drago.
        Per tutte le budella degli squali equatoriali, hai qualcosa che si agita nella tua tasca!, rispose di rimando la strega Adrubala detta Morbidona la cicciona.
        Pietà, pietà!, implorò  singhiozzando una vocina stridula e spaventata che usciva dalla tasca del drago mezza soffocata. – Non fategli del male, per favore, signori mostri!
Anche il nostro amico Citrullo non poté fare a meno di dimenticare i suoi guai per un momento: eh sì, perché la voce che supplicava pietà tra le lacrime non era la sua, bensì quella … di Smeralda la zucchina!
        Che ci fai tu qui?, fu la prima domanda che le pose.
        Non lo so… Volevo venire con te… Avevo voglia di avventura… E poi, boh, m’ero stancata di tutti quei legumi noiosi della fattoria!, gli rispose Smeralda.
        Guarda che pure tu sei un legume, osservò Citrullo.
        Sarà, ma io sono meno legume di loro, vabbè?
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        Avete finito voi due di litigare? A noi serve un “morto”!
Citrullo e Smeralda si voltarono a guardare i due mostri che li stavano scrutando senza l’ombra di un sorriso. Anzi. I nostri due poveri amici, che già si vedevano nella padella dei due giocatori di carte, pensarono (senza molta fantasia, per la verità):
– Siamo fritti!
E intanto tremavano come foglie al vento d’autunno.
        Ehi, voi due non crederete mica che adesso ci mettiamo a mangiarvi!, fece la strega. Vogliamo solo un giocatore per il tresette
(la strega cicciona che gioca a tresette non l'ho trovata)
Il disegno è di kocchan.splinder.com
      –  Ah, meno male, sospirò Smeralda. Siete due mostri buoni…
     – Macché buoni e buoni! Ficcati bene in testa che noi siamo insettivori, carnivori, ovivori, cacchettivori, pipivori, cocacolivori, ma assolutamente non – capiscimi bene non – vegetariani! In altre parole, tu e il tuo amico zucca ci fate schifo e non vi mangeremmo mai, mai, mai… neppure sotto tortura!
Era la prima volta che Citrullo era contento di fare ribrezzo a qualcuno. E forse il drago e la strega potevano aiutarlo nella sua ricerca. Così si lanciò:
– Sentite, ho una richiesta da farvi. Mi hanno detto che qui vive un famoso Mago, uno che ha una risposta per ogni domanda, ed io…
Ma non fece in tempo a terminare la sua frase, che vide la strega avventarglisi addosso con i denti salivanti che sbavavano sulla sua T-shirt.
    –        O mamma!, urlò Citrullo.
        Gnam!, fece la strega soddisfatta. E il ragnetto finì direttamente tra i denti stomaco di Asdrubala (o Morbidona, spero che abbiate deciso con quale nome chiamarla e che non siate ancora indecisi come chi vi sta raccontando questa storia).
        Dicevi, piccolo? Continuò la strega mentre una zampetta di ragno proprio non voleva saperne di sparire nella sua larga bocca.

domenica 24 aprile 2011

Je l'aime, je l'aime


   
   

martedì 19 aprile 2011

BEKIM FEHMIU

martedì 12 aprile 2011

Cranach il Vecchio e la Bocca della Verità

CRANACH IL VECCHIO - AUTORITRATTO


C'è una mostra attualmente a Parigi, al Musée du Luxembourg: CRANACH ET SON TEMPS (fino al 23 maggio 2011).
Mi piacciono i tedeschi rinascimentali (anche se mi suona come ossimoro) e sono andata a vederla (11 euro).

E in effetti, oltre a Cranach (parliamo di Cranach il Vecchio, evidentemente, non del figlio, Cranach il Giovane), ci sono dipinti e incisioni di altri artisti a lui coevi: Albrecht Dürer, Meister MZ (Matthaüs Zasinger?), Quentin Metsys, Jacopo de' Barbari (veneziano, attivo presso le varie corti tedesche) e Francesco Raibolini (detto Francesco Francia). Perché Cranach fu da loro influenzato.

Quel che mi ha colpito e che non conoscevo (molti quadri esposti provengono dalla Gemania, dalla Cekia e dall'Ungheria) è stato uno degli ultimi quadri esposti, La bocca della verità (1525-1530). È un quadro misogino, che mette in guardia gli uomini dalle astuzie femminili.

Ecco la storia (Cranach la recupera da un racconto medievale).

Un marito vuol mettere alla prova l'onestà coniugale della propria sposa. Nel quadro è l'uomo sulla destra, capelli e barba rossicci, con mantello bordato di pelliccia e copricapo nero in mano.


Le chiede dunque di introdurre la mano nella bocca di una specie di statua a forma di leone (in realtà un automa, tra meccanica e  magia) inventata da un mago romano che taglierebbe le dita alla donna bugiarda.


Questa donna ha un amante. Ma è anche una donna astuta. Sicché fa venire il suo amante abbigliato da pazzo (matta, fou, joker) nel luogo convenuto per la prova. Ci sono anche dei giudici che pongono domande alla moglie accusata di infedeltà dal marito geloso.

L'amante (è quello in blu, fisicamente non molto dissimile dal coniuge) camuffato da folle, la tocca dappertutto - proprio mentre la donna introduce la sua mano nella bocca dell'automa -. Ma i matti, si sa, bisogna lasciarli fare; con loro non si sa mai...


Sicché e alla domanda da chi fosse stata toccata in vita sua, la sposa fedifraga - con alle spalle l'amante che la cinge alla vita - risponde:

« Da nessuno mai, all'infuori di mio marito e... di questo folle ».

Non avendo A RIGORE mentito, ritira la mano indenne.

photo ©HARLEART2010 per vedere link, clicca qui


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Esiste anche la versione del 1534 (la donna guarda, con segno di sfida e di maggiore carnalità, lo spettatore).

sabato 9 aprile 2011

Leggendo Hier di Agota Kristof

Ieri ma forse oggi e domani


Io lo so di aver letto l'opera più conosciuta di Agota Kristof, La trilogia della città di K. Ho il libro che mi fu regalato, nella casa italiana, e sarà di certo sottolineato. Però non ricordo nulla. Proprio nulla, a parte dei nomi: Mathias, Victor, Clara. Ah, sì, ricordo che ebbi molte riserve. Insomma, ero certa che non avrei letto più nulla di lei. A dire la verità non ricordavo nemmeno che fosse ungherese. Pensavo fosse tedesca della DDR. Per dire.
Poi, poco tempo fa, ho messo sul mio blog (questo, prima che aprissi uno specializzato) una mia poesia, Due poeti in casa, scritta - con ironia e amore - nel 2000.

Mi colpì il commento di Gio (che tiene un bellissimo blog, Dystopia), il quale così osservò: «Mi viene in mente il finale di Ieri, di Agotha Kristoff. Lo conosci?».
No, non lo conoscevo. Lo acquistai. Nella versione francese.

AGOTA KRISTOF

Solo più tardi, leggendo tre righe a lei dedicate - Agota Kristof  è nata nel 1935 in Ungheria, da cui è fuggita nel 1956 (all'epoca dell'invasione sovietica), si è rifiugiata con marito e figlioletta, a Neufchâtel, dove tuttora vive [è morta il 27 luglio 2011. Questo post è stato scritto nell'aprile 2011], nella Svizzera romanda (cioè francofona) -, scoprii che lei scrive in francese. Direttamente in francese, la lingua dell'esilio.
E dunque, veniamo al libro. Definito romanzo, è in realtà un racconto lungo, scritto in prima persona, dove il personaggio che dice «io», è un uomo. Un giovanissimo uomo. Ricostruendo le sue vicende, il lettore si rende conto che Tobias ha appena 23 anni. 
Debbo dire che l'incipit è stato per me nel contempo sconcertante e irritante.

Antonio Ligabue, Tigre reale

Traduco:

Ieri, soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato. La primavera era precoce. Camminavo nel vento con passo deciso, svelto, come ogni mattina. Avevo però voglia di ritrovare il mio letto e di rimanerci dentro fino a quando non avessi sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce né gusto né odore, solo un ricordo vaghissimo, venuto da oltre i confini della memoria. Lentamente, s'è aperta la porta e le mie mani penzolanti hanno avvertito con terrore i peli serici e dolci della tigre.
 - Musica, disse. Suona qualcosa! Al violino o al piano. Al piano, magari, ma suona!  
- Non lo so fare, dissi. Non ho mai suonato il piano in vita mia, non ho un piano, non ne ho mai avuti.
- In tutta la tua vita? Che sciocchezze! Vai alla finestra e suona!
Davanti alla finestra, c'era una foresta. Ho visto gli uccelli riunirsi sui rami per ascoltare la mia musica. Ho visto gli uccelli. Le testoline piegate e gli occhietti fissi che guardavano da qualche parte attraverso me. 
La musica si faceva sempre più forte. Diventava insopportabile. Un uccello morto cadeva da un ramo. La musica si è fermata.
Mi sono voltato.
Seduta in mezzo alla stanza, la tigre sorrideva.
- Per oggi basta così, disse. Dovresti esercitarti più spesso (*).

La traduzione è mia, non conosco quella italiana. Ho arbitrariamente modificato il vous francese traducendolo con il tu (invece che con il Lei di cortesia). Perché ritengo che la tigre in italiano dia del tu al narratore (autodiegetico).
L'avrete capito. Il protagonista sogna. Anzi, poverino, soffre di incubi notturni. All'inizio mi ha dato proprio fastidio questo suo francese (che voi leggete qui tradotto in italiano, ma in nota troverete la versione originale), a mezza strada tra Prévert e Camus.

Un francese a metà, che non mi sembrava volutamente elementare, bensì necessariamente e -  con ciò stesso - eccessivamente rigido, inibito, segreto.

Poi però, la storia prende forma, trova una sua strada. L'alienazione del protagonista si concretizza molto di più (per fortuna, evitando al lettore dei déjà-vus) all'esterno della fabbrica, risalendo nel tempo passato, rivelando una parte dell'infanzia, lasciando un punto interrogativo inquietante (cui verrà data risposta verso la conclusione del libro).


dal sito http://www.cinemaesessantotto.it
Non mi piace raccontare le trame: non lo farò neppure qui. Mi piace invece consigliare la lettura di un libro, lasciando pregustare un sapore, senza svelare gli ingredienti della ricetta. Buona lettura.

P.S. Ho atteso di leggere tutta la storia, ho atteso di arrivare all'ultima pagina, per verificare se per davvero la mia poesia aveva una connessione, un rimando, un rinvio seppure leggero, all'epilogo di Hier.
E debbo dire di sì. Ce l'ha.

_____________
(*) Hier, il soufflait un vent connu. Un vent que j'avais déjà rencontré. C'était un printemps précoce. Je marchais dans le vent d'un pas décidé, rapide, comme tous les matins. Pourtant, j'avais envie de retrouver mon lit et de m'y coucher, immobile, sans pensées, sans désirs, et d'y rester couché jusqu'au moment où je sentirais approcher cette chose qui n'est ni voix, ni goût, ni odeur, seulement un souvenir très vague, venu d'au-delà des limites de la mémoire. Lentement, la porte s'est ouverte et mes mains pendantes ont senti avec effroi les poils soyeux et doux du tigre. 
- De la musique, dit-il. Jouez quelque chose ! Au violon ou au piano. Au piano, plutôt. Jouez ! 
- Je ne sais pas, dis-je. Je n'ai jamais joué de piano de toute ma vie, je n'ai pas de piano, je n'en ai jamais eu.
- De toute votre vie ? Quelle sottise ! Allez à la fenêtre et jouez !
En face de ma fenêtre, il y avait une forêt. J'ai vu les oiseaux se rassembler sur les branches pour écouter ma musique. J'ai vu les oiseaux. Leur petite tête penchée et leurs yeux fixes qui regardaient quelque part à travers moi.
Ma musique se faisait de plus en plus forte. Elle devenait insupportable.
Un oiseau mort est tombé d'une branche.
La musique a cessé.
Je me suis retourné.
Assis au milieu de la chambre, le tigre souriait.
- Cela suffit pour aujourd'hui, dit-il. Vous devriez vous exercer plus souvent.
(Agosta Kristof, Hier, Paris, Édition du Seuils/Points, 1995, pp. 9-10)

domenica 3 aprile 2011

È soltanto un bicchiere rotto (poesia di Brenda Porster)



È soltanto un bicchiere rotto
le cui schegge si sono conficcate 
                               nelle dita
mentre facevi le pulizie


non c'è bisogno di farne 
                           una metafora.
una similitudine, un simbolo,
meno che mai  una poesia 
per immaginarsi 
                              il dolore.

(Brenda Porster)

sabato 2 aprile 2011

Anche stamattina (poesia di Barbara Pumhösel)



Anche stamattina
il postino non si è fermato.
La tua lettera non è arrivata.
Poi, però, dal fruttivendolo
ho visto un’arancia
che nonostante la sua natura tonda
aveva un’aria – in qualche modo
rettangolare.
Girandola ho visto il francobollo
fermo sulla buccia.
“Me ne dia un chilo – ho detto –
e mi metta anche questa!”
Mentre continuo
a fare la spesa sorrido
in attesa del momento in cui
piano e attenta
per non danneggiare il contenuto
(e nemmeno il francobollo)
sbuccerò la lettera.

Barbara Pumhösel

Echi di lingua madre (poesia di Eva Taylor)

DESCO JSpaccini©2011


Echi di lingua madre

Scottate la lingua sulla fiamma viva
levatele la pelle
tagliatela a fettine.
Fate appassire in frasi fatte le parole.
Aggiungete una rosa, petali e spine,
portate a bollore
con un po’ di buon rimpianto,
salate, leggete.
Il tempo di cottura non è stabilito
provate a parlare di tanto in tanto.
Se qualcuno vi risponde
o qualcosa vi risuona dentro
staccate dal fondo
spegnete il fuoco.
Servite caldissima.
 (Eva Taylor)