mercoledì 29 settembre 2010

Aveva il viso di pietra scolpita (Recensione di Silverio Novelli per la Treccani)

Pavese, le parole ineluttabili

di Silverio Novelli
Treccani.it




Sessant’anni fa, il 27 agosto del 1950, lo scrittore Cesare Pavese si suicidava (sonniferi) in una stanza dell’albergo “Roma” a Torino. Aveva 42 anni. Una manciata di giorni prima, nella medesima estate, tragica, aveva vinto il Premio Strega con un trittico di romanzi brevi raccolti sotto il titolo del romanzo eponimo, La bella estate (pubblicato da Einaudi nel 1949). Nel fondo di una depressione devastante giacevano insieme pulsioni di morte e pulsioni di vita. Le seconde, per compensazione e sublimazione, avevano pur dato a Pavese negli anni la forza di intrecciare un serio legame con l’esistenza attraverso la scrittura. Le prime avevano precipitato motivi e nuclei tematici della sua opera letteraria nel pentolone ribollente dell’autodistruzione.



Pensiamo ai versi delle ultime poesie di Pavese, «le liriche di Verrà la morte, droga di intere generazioni di liceali» (Pier Vincenzo Mengaldo), specchio perfino ingenuo di un dolore congelato e lancinante: si giunge qui alla nuova sintesi della trascrizione simbolica della realtà esistenziale nella donna come universale approdo negato alla salvezza dell’uomo. Pensiamo al romanzo estremo, La luna e i falò (1950), nel quale la necessità del mito ulissesco del ritorno viene a coincidere con la necessità della parola romanzesca di darsi come linguaggio privilegiato in grado di dire «l’ineluttabilità del destino. Ripeness is all, la maturità è tutto, dice Pavese citando Shakespeare. La maturità dell’uomo finalmente, e con amarezza assoluta, consiste nel sapere che non c’è scampo al “vizio assurdo”. La vita viene trascritta ogni giorno come destino d’infelicità, senza possibilità di riscatto. In questo modo, secondo Toni Iermano, Pavese rientra «a pieno diritto nella cerchia dei grandi scrittori decadenti europei», nei quali il falò della poesia arde alto sulle ceneri di un’esistenza bruciata nel sentimento della sconfitta. Sconfitta che il ritorno, fallendo nel suo velleitario proposito di riappropriazione di un’identità perduta, finisce con l’accrescere e sancire senza scampo.



Quel viso di pietra scolpita



È molto interessante notare come percorsi laterali, itinerari periferici, vie poco battute, soggiorni appartati nell’opera e nella vita di Pavese possano dare frutti interpretativi originali e brillanti, approdare a conferme inusitate e, proprio per questo, stimolanti, se l’occhio dello studioso si concede allo scandaglio privo di pregiudizi, facendo tesoro della tradizione critica ma senza adagiarvisi (Pavese si presterebbe benissimo a menare e rimenare il viandante negli stessi loci communes). Insomma, il guadagno è netto, se non si rinuncia mai a sperimentare approcci e prospettive personali. È quanto accade nei veloci (alla lettura), densi e incisivi cinque saggi sull’opera di Cesare Pavese (così recita il sottotitolo), raccolti nel volume Aveva il viso di pietra scolpita (Aracne editrice, Roma 2010, pp. 135) da Jacqueline Spaccini, docente di Lingua e Letteratura italiana presso l’università di Caen, scrittrice, poeta e traduttrice (http://laboratoriodicriticadarteletteratur.blogspot.com/). Questo libro si è aggiudicato il Premio speciale saggistica Cesare Pavese 2010, assegnato ogni anno da una qualificata giuria internazionale nel corso di una cerimonia che si svolge presso la casa natale di Pavese a Santo Stefano Belbo (CN), dove ha sede il Cepam-Centro Pavesiano Museo Casa Natale (http://www.centropavesiano-cepam.it/).



Pratolini, il disamore e Clelia



Ripartito in capitoli, il volume allinea cinque saggi scritti dall’autrice in varie circostanze e comparsi in sedi diverse in un periodo che va dal 2002 al 2006.

I titoli danno immediatamente conto della pregnanza delle scelte dell’oggetto di studio da parte dell’autrice, oggetto che si qualifica, come già detto, per l’originalità degli angoli prospettici inquadrati.

Il primo capitolo si intitola La memoria ritrovata in Cesare Pavese. Riflessioni su La luna e i falò a confronto con Il Quartiere di Vasco Pratolini. Al termine del confronto tra alcuni passi-chiave dei due romanzi (scritti da autori grosso modo coetanei), collocati lungo l’asse di movimenti emotivi e ideologici simmetrici che si svolgono in direzioni divergenti quando non opposte, la particolare indagine induttiva eseguita dall’autrice porta alla conclusione che, per quanto riguarda l’ultimo romanzo di Pavese, «la pulsione di morte ha raggiunto il suo scopo [?] Questo libro regola tutti i conti col passato, il compito è assolto» (p. 32).

Nel secondo capitolo, intitolato La pregnante vanità di Colei che non ha posto. Riflessioni sulle «poesie del disamore», l’autrice è molto attenta nell’individuare la rete di petrarcheschi oggetti immobili che si stagliano nel ristretto cielo del disamore trasformato in poesia, campito sul telone di albe che non tornano. Dietro l’amore (mancato, finito, non nato, impossibile), l’autrice riconosce in Colei che non ha posto la poesia stessa, rovello di un Pavese che «si dannava di trovare una lingua “vera”, capace di erodere l’insondabile seppellito nel fondo dell’essere umano e di riportarlo alla luce, come uno zampillo di geyser» (p. 63).

Interessante e ricco di acute annotazioni è il terzo capitolo, «Triste solitario y final». I rapporti conflittuali tra ceti sociali e sessi nello sguardo di Clelia Oitana, ovvero la protagonista di Tra donne sole (il terzo romanzo del trittico che compone La bella estate, insieme col romanzo eponimo e con Il diavolo sulle colline). La donna conquisterà una sua forma di libertà, del tutto estranea alle dinamiche delle relazioni di genere e di classe e radicata, viceversa, in una individuale e idiotipica alterità dissonante (cita Spaccini, a p. 78, una frase rivelatrice, colta sulle labbra di Clelia: «il vero vizio era questo piacere di starmene da sola»). Un’alterità che permette alla studiosa di interpretare Clelia come proiezione narrativa dell’autore.



«La parrucca e i seni finti»



Si tratta di un’interpretazione che Spaccini ribadirà, nel quarto capitolo, ricordando l’analisi che della figura di Clelia fa l’allievo prediletto di Pavese, Italo Calvino, nel momento in cui recapita al Maestro, sotto forma di epistola privata, la propria analisi di Tra donne sole, appena letto in forma manoscritta: «quella donna […] fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti» (p. 84). Il titolo del quarto capitolo è Lo specchio, quando s’è spezzato. Calvino che revoca Pavese e ricostruisce con lucida attenzione, attraverso il montaggio e l’esteso commento di fonti documentali (scritti di Calvino, brani tratti da conferenze e interviste), il lungo, lento e laborioso distacco maturato da Calvino rispetto allo scrittore, letterato (cioè «intellettuale a tutto tondo», p. 85) e uomo Cesare Pavese: mentre Calvino «si proietta estroversamente verso il mondo […] Pavese invece si muove introversamente verso l’Io» (p. 107); mentre Pavese sembra essere letto dai più come scrittore che ha dato la stura a motivi fortemente autobiografici, Calvino ci tiene a mostrare, «anche quando è autobiografico», che «non è mai intimo: il suo è il talento di chi sa gestire la propria immagine, anche nel privato, costruendo un Io sociale per coloro che lo ascolteranno ed un Io creatore per coloro che lo leggeranno» (p. 110). Questo capitolo permette anche di leggere in filigrana l’evoluzione del rapporto tra intellettuale e impegno ideologico-politico (e, in subordine, tra scrittore e realtà storica coeva) nel Secondo dopoguerra italiano.

Nel’ultimo capitolo, Se non ora, quando? Cronaca di racconti tralasciati, Spaccini si dedica alla ricerca di «un punto in comune» tra i sei racconti pavesiani rimasti inediti (perché fermi allo stadio di manoscritti e minute) fino all’edizione einaudiana del 1994. «[D]opo una profonda analisi induttiva» (p. 116), Spaccini individua tale punto «nel trascorrere di vite che si dibattono per trovare un senso profondo al loro esistere, che non trovano altresì conforto nel mondo in cui si muovono, grigio, monotono, banale, solitario e ripetitivo» (p. 131). La conclusione dell’autrice è avvalorata da un’efficace investigazione intertestuale multitasking, condotta sia sul piano di una sorta di prossemica narratologica (gli spazi in cui si muovono protagonisti e comprimari dei diversi racconti, colti nella loro asfitticità o vaga evanescenza; il tempo atmosferico come scenario che indica la temperatura umorale/morale della storia), sia al livello di costruzione dell’identità dei personaggi (ricorso all’etopea, piuttosto che alla prosopografia): il tutto viene sondato allo staccio delle scelte lessicali e infine ricondotto entro un quadro di considerazioni strutturali sulla «tensione ritmica» e sulla «velocità della narrazione» (p. 126).

E in effetti sugli elementi ritmici nella prosa di Pavese insiste anche uno dei nostri più grandi studiosi della lingua letteraria, Pier Vincenzo Mengaldo: senz’altro in Pavese il ritmo, l’apparato sintattico-retorico, il «traliccio di iterazioni prossime o a distanza», la «rete di metafore, spesso di tipo sessuale e comunque ossessive», la «reiterazione» che converte in «enunciati simbolici» parole e immagini, e «una dialettalità interiore che rifiuta forme locali» (quest’ultima riflessione è di Maurizio Dardano) sono frutto di scelte consapevoli per cui «la prosa assume programmaticamente un ritmo poetico».



Silverio Novelli


http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/percorsi/percorsi_65.html

domenica 26 settembre 2010

Identità (le parole di Giovanni Jervis)

foto prelevata dal blog La dimora del tempo sospeso



Cos'è questa? Questa è la mia faccia? Non sono le mie guance, eppure lo sono, non è la mia bocca, eppure c'è qualche cosa che somiglia alla mia bocca."
 
Cos'è la nostra identità? 
Essa è tutto ciò che caratterizza ciascuno di noi come individuo singolo e inconfondibile. 

È ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Così come ognuno ha un'identità per gli altri, ha anche un'identità per sé. 
Quella per gli altri è l'identità oggettiva, l'identità per sé è l'identità soggettiva

L'identità soggettiva è l'insieme delle mie caratteristiche così come io le vedo e le descrivo in me stesso. 
L'identità oggettiva di ciascuno, ossia la sua riconoscibilità, si presenta secondo tre principali modalità.  

La prima modalità è l'identità fisica: questa è data soprattutto dalle caratteristiche della faccia, le quali ci permettono di non esser confusi con un'altra persona.  
La seconda modalità è l'identità sociale, ossia un insieme di caratteristiche quali l'età, lo stato civile, la professione, il livello culturale e l'appartenenza ad una certa fascia di reddito. 
La terza modalità è l'identità psicologica, ovvero la mia personalità, lo stile costante del mio comportamento. 

Alcuni aspetti dell'identità cambiano più facilmente di altri. L'identità sociale può cambiare rapidamente: se, ad esempio, un funzionario di banca va in pensione e si trasferisce in campagna, ecco che la sua identità sociale è cambiata ed egli non è più il tale funzionario benestante e abitante in città, ma è il tal'altro pensionato, solerte proprietario di un piccolo orto. L'identità fisica invece cambia gradatamente. E' probabile che a sessant'anni abbia più o meno la stessa faccia di dieci anni prima, anche se potrei avere una faccia alquanto diversa rispetto a trenta o quarant'anni prima. L'identità psicologica  è una tema molto interessante e anch'essa cambia piuttosto poco: ognuno ha una sua personalità, vale a dire una certa intelligenza, determinate attitudini e specifici tratti del carattere. 

La personalità dipende, in gran parte, da fattori genetici e assume caratteristiche stabili durante l'infanzia. [...]

Per continuare a leggere, cliccare qui 

Per approfondire: Giovanni Jervis, Presenza e identità, Milano, Garzanti, 1984 
 

Quella cosa serissima che sono le favole

Idalberto e Emanuela Fei sono fratello e sorella. Lui fa il regista e lei è funzionario del Ministero degli Affari Esteri. Ma quel che conta non è quali siano le loro professioni, quel che conta è che sono fratello e sorella.


Perché tutto, in questo libro coloratissimo, esprime la complementarità, il sorriso, la complicità e l'affetto. 


E l'amore per i gatti.


Qui il gatto in questione è Pedro, un siamese che nasce bianco ma poi muso e zampette si macchiano di scuro, perché secondo il gatto del Siam, il suo re - scontrosetto e paranoico - gli rovesciò addosso tutto un bricco ricolmo di caffè nero bollente...


Idalberto Fei che è l'autore delle fiabe raccontate, a volte il ri-propositore in chiave più moderna di antichi miti o favole greche, apre il libro ricorrendo a un escamotage iper-intellettuale della letteratura mondiale: quella del manoscritto ritrovato. Che può essere un baule ripieno di testi oppure - come nel nostro caso - una bottiglia contenente un papiro arrotolato  in un anello d'avorio, offerto in dono da una Sirena dalla chioma lussureggiante e la coda sbarazzina. E da lì, prendono spunto tutte le altre storie, quella della leggenda siamese sul perché tutti i gatti siamesi siano chiari da piccoli e macchiati di caffè da grandi, sul gatto Mammone, oppure la vera storia del gatto con gli stivali e così via. Ma io le storie non ve le racconto, andatele a leggere e leggetele ai vostri figli o nipoti. Leggete anche a voi stessi.


Le favole contengono brevi passaggi lirici al loro interno come questo: Nelle notti d'Oriente / Non succede mai niente / Ci si annoia a Pechino / Che sbadigli a Nanchino! / Solamente nel Siàm / Non esiste mai noia / E mangiando la soia / Si comincia a cantar... E ci sono anche delle partizioni di Antonio Lauritano  e di Maurizio De Luca per chi volesse metter in musica - cantare, insomma - Il Gatto del Siam, Io sono un Supergatto e La canzone della Terra.


Segue un'intervista molto interessante a Paolo Poli sul mondo della favola, sui gatti e su di una nonna (la sua) che raccontava favole lunghissime che non finivano più.


Debbo dire che la sapidità di questa raccolta di favole è data a mio dire dai disegni di Emanuela Fei, sorella dell'autore (d'altronde tutto ha inizio da «C'erano una volta un Ragazzo e una Ragazza che si volevano un gran bene»). 

Le sue illustrazioni tuffano noi, lettori adulti, nel mondo vero della fiaba, ci precipitano - ma dolcemente, lievemente - nel mondo antico dell'infanzia. È un viaggio pieno di colori e di vivida nostalgia. È un mondo - quello dei disegni di Emanuela  - che sa di zucchero filato e di pesciolini rossi non vinti, quelli delle bocce trasparenti, al Luna Park.

Dimenticavo: il Gatto Pedro è realmente esistito.
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Idalberto ed Emanuela Fei sono anche i fondatori della Compagnia Il laboratorio - I Burattini di Fei (clicca qui).

Molte delle favole qui raccolte sono state rappresentate dai loro burattini e portate in scena in Italia e all'estero, riprese anche dalla RAI TV.

martedì 21 settembre 2010

A colloquio con Anguilla (monologo di Jacqueline Spaccini)



Il testo: 
Di tutto quanto, che cosa resta?

JACQUELINE SPACCINI

Dicesti: «Sono a casa».
Ma poi delle viti, non n’era rimasta alcuna che conoscevi.
Ti affannasti, con quel tuo naso da tartufo, quella tua faccia da segugio, a rintracciare gli odori, a seguire le antiche tracce, muovendoti a scatti, sguardo in alto, sguardo in basso, per ritrovare la sintonia.
Quella con te stesso fanciullo – che fanciullo per davvero non fosti mai.
Ora non sei più così convinto d’aver fatto bene a prendere la via del ritorno, seguendo il dialetto di quel camionista di Bubbio.
E in fondo, a parte la noia, non stavi tanto male ad Oakland. Solo che quello a casa sua non poteva tornare e tu non t’eri ancora rassegnato.
Ora fai il gradasso per le vie del paese e dentro tremi, temendo che qualcuno possa vederti qual veramente sei.
Hai fatto i soldi (ma li hai fatti sul serio, i soldi? A frigger lardo dietro a un bancone?); ti senti un padreterno. O almeno, così ostenti sulla piazza cittadina. Come ci tieni a dir che sei alto e grosso! Dài, che sotto sotto ti senti un po’ come Edmond Dantès… Ma qui son tutti morti (o quasi) e Nuto ha appeso il clarino nell’armadio della sua casa odorosa di gerani e oleandri… Lui un mestiere, almeno ce l’ha; tu, neanche sai vivere.
Sei andato a cercare la macchia di nocciòli, quella da cui tu sai NON esser nato, ché fossi stato femmina, dall’orecchio della capra di casa avresti visto per la prima volta il mondo.
Lasci credere che comprerai casa qui, magari una grande, magari la villa della Mora. Ti piace quando ti dicono l’Americano; mica lo sanno, loro, che te ne stai a Genova. Oppure sì, lo sanno, ma se un compaesano come te, è Americano, sì, certo, pur sempre straniero è, ma tutti si fa miglior figura. Un po’ come si godesse di luce riflessa, come aver fatto fortuna tutti assieme. Essere tutti un poco Americani.
E dimenticare il passato.
Che cosa cerchi? Te stesso? Tutto quel peregrinare per cascine… la casa tanto non la compri, quelle che ti mostrano, le guardi appena.
Queste visite ti piacciono per il bicchiere di vino che gusterai nell’aia, su un tavolaccio e sotto l’ombra fresca d’un albero primitivo. Per quel bicchiere e per le chiacchiere sul tempo andato, sperando che per caso si parlerà di te o della Mora, di qualcosa insomma cui senti di appartenere, per questo poco tanto ti sposti, tu.
E ci giri attorno, a quel ricordo rimosso, vero?
La guerra c’entra, ma di striscio. Non è che tu non ricordi: è che non vuoi ricordare. Eppure sei incolpevole.
La storia della luna e i falò, l’hai messa su perché temevi che il resto non bastasse a giustificare lo scritto. Erano altri tempi, per la letteratura.
Senti, Anguilla: non puoi ritrovarti nemmeno qui, lo capisci? Ché se uno non ha messo radici a quarant’anni non le mette più, ché se ne hai, poi, son radicette aeree, come quelle delle mangrovie.
E poi che sto a dire a te, che tu sei me, Anguilla?
E il tuo posto nel mondo è in un nessun altro altrove.
E stiamo bene così, tutti e due.
Torna a Genova, il cerchio è chiuso: casa per me, per te, davvero, non ce n’è.


sabato 18 settembre 2010

Jerome K. Jerome ci racconta il trucco da usare con il bricco che non bolle

Pubblico un estratto di questo libro esilarante:



«Mettemmo l'acqua per il tè a bollire sulla prua e ce ne andammo a poppa con la decisione di non occuparci più del bricco e pensare alle altre cose necessarie.

Questo è l'unico sistema perché un bollitore serva al suo scopo sul fiume. Se si accorge che state aspettando con impazienza l'acqua bollente, non comincerà mai più a cantare. Il meglio da fare è di andarsene e cominciare a mangiare come se non voleste prendere il tè. Meglio non voltarsi nemmeno a guardarlo; vedrete che allora comincia subito a schizzar acqua bollente, matta per la voglia di diventare tè.

Quando poi vi capita di avere molta fretta potete fare anche meglio: vi mettete a parlare ad alta voce l'uno con l'altro dicendo che non volete il tè, che non lo prenderete. 
Vi avvicinate al bricco, in modo che possa sentire, e gridate: 

- Io il tè non lo prendo; e tu, George? 

Al che George urla: 

- No, il tè non mi piace, berremo invece una limonata... il tè è indigeribile.

State sicuri che il bricco mette a buttar fuori tanta acqua bollente che spegne il fornello.

Adottammo questo trucco innocuo e il risultato fu che, prima che tutto il resto fosse pronto, il tè già aspettava. 

Accendemmo la lanterna e ci accoccolammo per mangiare».


mercoledì 15 settembre 2010

Il salto della corda di Cetta Petrollo




Ricevo e -  in onore di Cetta - pubblico:


Il salto della corda come il salto della vita.
Il nuovo libro di Cetta Petrollo edito dalla Manni.

di Dale Zaccaria

“Le parole di Cetta balzano sull’evidenza del foglio come una cascata di pietre-sillabe lucenti o come un grappolo succoso, senz’altro ordine o controllo se non quello rizomatico d’un istinto che scandendo conduce, nelle pieghe d’un cuore-messo-a-nudo e ad ogni istante tutto da scoprire.
Non è pura passione della pagina, alcunché di simile (a scrutarne la sostanza) all’esercizio d’una prosa d’arte, ché nulla si cristallizza qui (nulla può cristallizzarsi) per offrirsi come il cesellato frutto d’un operare.”  
Tommaso Ottonieri

Un ape operosa, come la piccola “ape furibonda” uno dei tanti versi con cui amava descriversi Alda Merini, o una “Diana folle, invitta cacciatrice” per usare altre strofe della nostra amata poetessa.
Furibonda nella parola, Invitta cacciatrice di poesia e di vita. Così le parole di Cetta Petrollo sono  parole scolpite con grazia con cura e passione come nel suo Corpo Glorioso “quando si cura la vita non si può pensare ad altro”. E sono appunto parole-vita, parole domestiche, parole conosciute, parole di sua madre Rosalia che ha “il corpo ancora liscio come quello di una ragazza”. E’ la parola Femmina quella rivestita, annusata in un “letto berbero” con le sue “piazze assolate, l’odore del tiglio e della carota” è la parola della “libertà dei papaveri” di un “vestito rosso” indossato “per fare un gioco da ragazzi”- “come se fossi una trentenne”.
E’ la parola stesa nella “domenica” “dove mi chiudo in cucina e tiro le tagliatelle” la parola usuale quella di tutti i giorni ma “baluardo contro le tempeste, difesa contro le sirene, scogliera durissima e inattaccabile della femminilità”.
E’ la parola del salto della corda, come il salto della vita, in cui Cetta Petrollo sta sempre un po’ più in là, in quel “fermo invito, che mi offre mia madre”, perché infondo- dice- nella prosa Capire : “ecco non c’è più protezione. Dalla morte siamo buttate fuori come in una diversa nascita”.
E in questa diversa nascita allora si cerca un “Noi” perché “sarebbe come dire che non c’è stato un io perché l’io si è chiuso nella panna montata della vita vissuta, cresciuta su di sé come un’escrescenza incontrollabile, fuori progetto, fuori programma”.
E’ questo fuori infondo è l’essere dentro. E’ il salto della corda appunto che batte e ribatte come il salto della vita, con il suo inizio e la sua fine, i suoi dubbi e le sue atrocità, e di fronte a questo Cetta Petrollo preferisce “giocare”, addomesticarla la vita, stenderla dentro casa con quel “matterello-timone” “chè è anche quello dei mie affetti, casa che mi consente di governarmi e di governare” e in quella casa c’è insieme a lei il capitano-poeta, Elio Pagliarani, la credenza arancione di sua madre dove riposare e rovistare le parole, e fuori dalla finestra, c’è un ragazzo di colore che salta la corda:

“Quando annaffio i fiori la sera, di fronte, nel viale, c’è un ragazzo di colore che salta la corda.
Non me ne accorgo subito, infatti sono concentrata sulle rose, sui gelsomini, che stanno fiorendo, sui ciclamini che insistono a non morire, sulle margherite gialle africane, che resistono a tutto, sulle piantine grasse che si espandono e si allungano faticosamente sul terrazzino. Non me ne accorgo subito attenta come sono a non far cadere troppa acqua sulla strada, a non far corrente in casa, a non bagnarmi, a non fare rumore. Però è il rumore, il battito insistente della corda sul selciato, a farmi alzare gli occhi, e a vederlo, alto, elegante e nero, proteso senza vergogna, nella solitudine serale della città, in un gioco da bambini(…)
Avrei potuto avere una vita così. Uno stacco, un’allegria, molta curiosità.
Ma non è importante che io, proprio così, non l’abbia vissuta la mia vita (…)
L’importante è che lui in questo momento esista e salti la corda mentre io annaffio i fiori e nello sguardo siamo necessari tutte e due. Ognuno nel suo pezzetto di miracoloso equilibrio.
Acqua sorgiva. Acqua sorgiva”.

Cetta Petrollo, Il salto della corda, Manni Editori 2010, pp.80
all’interno fotografie di Maria Andreozzi



Cetta Petrollo Pagliarani è nata nel 1950 a Roma, dove vive.
Ha esordito nel 1984 con la raccolta Scritti e stornelli, con prefazione di Amelia Rosselli, cui sono seguiti altri volumi. Nel 2001, per Manni, ha pubblicato Poesie e no. L’ultimo, del 2007, è il romanzo Senza permesso (Stampa alternativa), con introduzione di Walter Pedullà.
Attualmente dirige la Biblioteca Vallicelliana.

domenica 12 settembre 2010

Presentato il libro Aveva il viso di pietra scolpita alla Biblioteca Vallicelliana di Roma

photo by Julien Pouplard


Riporto qui di seguito l'articolo di Lorella Angeloni, pubblicato dopo la presentazione del mio libro alla Vallicelliana di Roma.

Ringrazio tutti i convenuti per la loro amabile presenza.

photo by Federico Spaccini

domenica 5 settembre 2010

La musica del nostro amore