martedì 26 gennaio 2010

Le parole tra noi



Le parole tra noi, soltanto se affilate.
(E. De Luca)


I paesaggi di Piero della Francesca in natura

Occorre solo guardare. E ritrovare i paesaggi di Piero della Francesca.

lunedì 25 gennaio 2010

Quando i figli parlano almeno 3 lingue

ODDIO, MIO FIGLIO È POLIGLOTTA!

Avvertenza: mi limito a stimolare alla lettura, il libro è ricco di suggestioni. Lascio a voi il piacere e il gusto di scoprire quelle che vi interessano!

Raffaele De Rosa, Riflessioni sul plurilinguismo. Un dialogo privato su un fenomeno pubblico in espansione. Bellinzona (Canton Ticino, CH), edizioni Casagrande, 2009, p. 135, 18€,
ISBN 9788877135384


Premessa: Chi ha scritto questo libro non è soltanto un linguista, filologo e germanista. Chi ha scritto questo libro è anche e soprattutto un padre che parla in italiano coi suoi figli, i quali parlano in svizzero-tedesco con la mamma e all'occasione in spagnolo, inglese e quant'altro con amici e/o partner.




Quella che lui, l'autore, vede come una benedetta babele linguistica, sta diventando una realtà sempre meno fantascientifica e sempre più visibile nei nostri territori, in ragione di due fattori: 1) ci spostiamo di più, in Europa e nel mondo, sposando (andando a convivere con) un autoctono del Paese che ci accoglie; 2) trasmettiamo ai figli la nostra lingua di appartenenza (un tempo, il genitore "ospite" amputava la propria lingua, convinto che i figli dovessero incontrare il minor numero di ostacoli nell'apprendimento della lingua e "scegliendo" di non trasmettere la propria).

Chi scrive qui, la sottoscritta insomma, si è interessata al libro di De Rosa non tanto come linguista di un tempo che fu, quanto come genitrice di un ragazzo che gestisce tre lingue, parlandole in un giornata standard secondo questa percentuale: l'italiano (40%), il francese (10%) e l'americano (50%); sapendo leggere e scrivere in tutte e tre le lingue.

Le domande che De Rosa si pone e alle quali intende rispondere nel corso del suo testo riguardano l'educazione plurilingue in famiglia, i meccanismi atti ad apprendere più lingue (in situazione; qui NON si parla dello studente che impara una lingua in maniera "artificiale" - cioè non vivendo sul luogo - oppure "non viscerale"- cioè non appartenente ad almeno uno dei due genitori -). Non è dunque il caso di leggere questo post, se si vogliono risposte per il nostro fanciullo che studia inglese due ore alla settimana (ma in fondo, sì, perché il libro di De Rosa apre a varie riflessioni).

costruzione della Torre di Babele in una miniatura tratta dal "Bedford Book of Hours" del 1424

Qui si parla di una persona (bambino/a, adolescente, ragazzo/a) che si trova ad apprendere una o più lingue perché si trova a VIVERLA in un determinato luogo o perché essa È la lingua del genitore. O che addirittura si trova in entrambe le situazioni.

Ciò detto, cominciamo dalla prima domanda, la più ovvia: Che cos'è il plurilinguismo?

Si parla di *plurilinguismo* quando si capiscono, parlano, leggono e scrivono (le cosiddette 4 abilità di base) più lingue contemporaneamente.

Facciamo subito la seconda domanda: c'è differenza tra plurilingue e bilingue?

Be', si capisce: *bilinguismo* si ha quando ci sono due lingue acquisite/apprese (non sono sinonimi!), *plurilinguismo* in altre occasioni. Lo spiego meglio con un aneddoto autoriale.

De Rosa ha raccontato un evento al quale ha partecipato e durante il quale più persone parlavano più lingue con persone diverse (a Schaffhausen, credo. Comunque nella Svizzera tedesca). Lui per primo, ad esempio, s'era ritrovato a parlare in italiano col figlio, in italiano e svizzero-tedesco con la fidanzata del figlio, in italiano e portoghese con il padre della fidanzata del figlio, in italiano, spagnolo e svizzero-tedesco con i docenti della fidanzata del figlio (svizzeri, ma proff di spagnolo); il figlio parlava in svizzero-tedesco con la fidanzata e il padre di lei, in italiano con suo padre, in spagnolo, svizzero-tedesco e italiano coi docenti, in spagnolo con l'amica della fidanzata, etc.

Per dire. Diciamo allora che tutti quanti si arrangino con almeno tre lingue possono definirsi plurilingui(1). L'importante è che si sappia capire bene quanto viene detto e agevolmente quel che si va a comunicare.


Passiamo alle istruzioni per l'uso.

Mettiamo un papà e una mamma di lingua diversa che allevano un figlio nel Paese di uno dei due oppure in un terzo Paese, la cui lingua non appartiene a nessuno dei due.
Che fare?

Trasmettere (non si tratta di insegnare!) le proprie lingue (e - eventualmente - lasciare che la scuola e la società - i sistemi extrafamiliari, insomma - si occupino di insegnare quella del territorio)?
De Rosa (ed io con lui) non ha dubbi: .
Sì, anche se molti genitori temono di "sovraesporre" i loro figli a un eccesso di informazioni. Ci son passata anch'io, ma la risposta è: state tranquilli, il cervello di un bimbo sa molto bene riceverle, queste informazioni, ma soprattutto sa bene [dove] stoccarle (ogni cosa al suo posto in un cassetto o dossier che dir si voglia virtuale) e riutilizzarle al momento giusto.

Ha solo bisogno di tempo. Un po' più di tempo di un altro bimbo che apprende una sola lingua. Per questo motivo (qui parlo io, non De Rosa), i bambini esposti a più lingue simultaneamente spesso parlano più tardi degli altri. Ma non hanno ritardi intellettuali!

Alcuni bimbi poi sembrano non apprendere nulla della lingua del genitore-ospite. Non è così, è che il bimbo non trova "ragione" di utilizzare una lingua che non condivide con nessun altro (a parte il genitore). Il figlio di due miei amici, ad esempio, è stato esposto al francese fin dalla nascita, ma viveva a Roma. A sei anni, si è stabilito per un periodo di vacanza nel paese dei nonni paterni, in Francia. I nonni parlavano esclusivamente francese (anche volendo, non capivano l'italiano). Il bimbo si espresse in perfetto francese. Ma sia plauso anche alla nonna, che decise qualche anno dopo di apprendere l'italiano in una età non confortevole per l'apprendimento delle lingue.

Se un bambino apprende simultaneamente due lingue, quale sarà la lingua madre?

Qui De Rosa non ha dubbi (io, qualcuno, sì): quella della madre. Quella del padre sarà la lingua padre. Ma entrambe saranno da considerarsi "prima lingua". In realtà, come scrive lui stesso poco dopo, c'è sempre una delle due lingue che sarà considerata forte e l'altra debole, cioè quella più e quella meno condivisa. Questo per i bilingui.
Per i tri- o quadri-lingui, esiste anche e soprattutto la nozione di lingua sociale. La lingua diventa una sorta di meccanismo intercambiabile.


La lingua cosiddetta debole dev'essere sempre sostenuta anche quando è parlata soltanto all'interno delle pareti domestiche?

, certo. Non deve assolutamente regredire, mai. Alcuni anni fa, una mia coetanea figlia di un'italiana e di un francese, mi confidò - con eccessiva fierezza - che sua mamma non le aveva insegnato una parola di italiano (noi due parlavamo in francese).
Provai molta pena per lei. Aveva perso una grande opportunità.

Le persone spesso non si rendono conto che l'acquisizione di una lingua non prevede l'immagazzinamento e sfruttamento di un patrimonio lessicale e basta. Non si tratta di saper salutare qualcuno, parlare al telefono o acquistare i biglietti di aereo senza problemi.
Insieme con la lingua si prende un pacchetto di emozioni, cultura, modi di pensare, di fare, di gestire e gesticolare, un humour, un carattere, punti di vista.

Come si fa a educare i propri figli in modo plurilingue, e soprattutto in maniera armonica?

Nemmeno per l'autore, Raffaele De Rosa, esistono ricette magiche. Tuttavia vi sono alcune linee di condotta che possono essere messe concretamente in atto. Cito:

"In tutte le famiglie esistono delle lingue usate per le relazioni primarie fin dai primi mesi di vita del bambino da persone che in qualche modo hanno un ruolo affettivo importante. Ecco una serie di lingue importanti per le relazioni primarie tra adulti e bambini nei primi 3-4 anni di vita:

- la lingua materna. Secondo alcuni studi il bambino è in grado di distinguere il tono della voce e gli stati d'animo della madre fin dai primi mesi dopo il concepimento in grembo.

- la lingua paterna. Anche il padre può interagire con il bambino fin dai primi mesi dopo il concepimento, in ogni caso fin dalla nascita il bambino è in grado di distinguere anche la sua voce.

- la lingua dei nonni. Essa subentra in genere in un secondo momento ed è influenzata dall'intensità dei contatti tra il bambino e i nonni stessi.

- la lingua della baby-sitter. Essa è generalmente legata a una figura presente nella vita del bambino piuttosto precocemente ed è subordinata alla presenza o meno dei genitori e dei nonni.

- la lingua dei fratelli/delle sorelle. Generalmente si tratta delle lingua adottata dai fratelli e dalle sorelle più grandi.

- la lingua della maestra/del maestro. Si tratta della prima lingua scolastica, spesso il primo contatto linguistico con una persona estranea alla famiglia del bambino" (p. 46).


Aneddoto finale


Ultimamente, mentre riempiva il suo dossier di candidatura per l'ESEC (l'École Supérieure d'Études Cinématographiques de Paris), mio figlio mi ha chiesto (in italiano): "Mamma, mi viene chiesto di dire che cosa penso di apportare con la mia persona al corso di studi. Che rispondo?"
Gli ho detto: "Scrivi: MA DIFFÉRENCE CULTURELLE".

La mia differenza culturale.



_______
(1) Secondo i puristi dell'Accademia della Crusca, il plurale di plurilingue è ammesso per il sostantivo, ma non per l'aggettivo. Clicca qui.





domenica 24 gennaio 2010

PAUL AUSTER il viaggio di Anna Blume et alia















Ludwig Meidner, Paysage d'Apocalypse (Berlin, Nationalgalerie, 1913)
La foto è prelevata dal sito internet www.madinin-arte.net

Cose che avevo scritto un po' di tempo fa...
Non è stato facile, questo libro (in italiano: Nel paese delle ultime cose). L'ho dovuto riprendere in mano tre volte, per entrarci dentro.
Iniziavo, leggevo le prime righe e qualcosa in esso mi respingeva.
Complice forse la copertina della versione francese (il titolo originale è In the Country of Last Things), sentivo che mi attendeva qualcosa di forte, di ostico, qualcosa che richiedeva ben più dell'amorevole attenzione cui dedico alla lettura.

Frettolosamente, dicevo: Non mi prende, stavolta, Paul Auster (foto).

Ma poi, a distanza di qualche mese mi imponevo di riaprire le pagine di questo romanzo: Non è possibile. Non può NON piacermi. Amo tutto, di Auster...

Ho preso una scorciatoia dell'intelletto. Ho deciso di leggerlo come se dovessi tradurlo in italiano. E il primo incanto s'è sciolto come un grappolo d'uva moscato in bocca: le parole. Curate, precise, per nulla arzigogolate. Parole che non lasciavano scelta: prendere o lasciare. Auster non giocava con la metaletteratura com'era solito fare; non faceva il verso compiaciuto a se stesso dell'estrema sua intellettualità.

Questa Anna Blume, a dire il vero, non è per nulla simpatica. E la quasi totale assenza di dialoghi (il romanzo è narrato sotto forma di diario su un improvvisato quadernetto destinato a un suo ex amore ancora nel suo cuore - a noi lettori -) all'inizio infastidisce.

Ma è nella crudezza del taglio semantico, nella totale riluttanza a commuoverci che sta la carta vincente di questo anomalo romanzo. All'inizio ci si chiede se non ci si debba attendere la rivelazione di un Paese nascosto, qualcosa da scrostare dietro la storiella del Paese senza nome in cui vive prigioniera Anna: sarà la rappresentazione dell'URSS staliniana? O forse un qualunque Stato ove governi dittatoriali si avvicendano affamando i loro cittadini? Tutto è surreale? Una fiaba amara? Fantapolitica? Esse est percipi, alla Berkeley? Nulla è esistito se svanisce?

Macché, macché. Non ha nessuna importanza tutto ciò.
Che questa storia sia nata da un evento reale o da un incubo austeriano, quel che conta è Altrove.
E' nell'essenza stessa dell'umano esistere. E delle relazioni terrene.
E' una sorta di ipotesi ragionata sull'homo hominis lupus: in un Paese in cui si uccide per una crosta di pane e che quando il pane non c'è più, si mangiano topi con ancora i peli addosso e quando anche i topi vengono meno si smembrano corpi umani che non sono ancora cadaveri, c'è ancora posto per la filosofia, l'amore, l'Idea?

Si può restare uomini e donne degni di questo nome?

Se no, che cosa si diventa? L'abisso ha una fine o è incalcolabile?
E se, invece, a dispetto di ogni logica, c'è spazio per un sì, come avviene ciò - e soprattutto attraverso quale forza eversiva, tale da superare la insopprimibile prepotenza della fame e dell'abbrutimento, la sopraffazione prevaricatrice della sopravvivenza (nel romanzo ci sono anche le sette suicide, ma non anticipo troppo) -?

Il romanzo ha una trama forte, spiazzante, ma perfettamente coerente. Ad Anna si affiancheranno numerosi compagni di viaggio (la maggior parte di essi si perderà per strada): Isabella, Sam, Victoria, Boris, Willy, Bogat, Ferdinand (notate l'eterogeneità dei nomi. Attraverso di loro, Auster abbraccia lingue e Paesi a noi noti). E' un mondo in cui i libri sono buoni per riscaldare e vanno bene per il braciere, tanto vi fa freddo.

Ma nonostante tutto, sopravvivono solo coloro che coltivano una speranza: quella di andarsene, ma anche quella di sentire di non appartenere a nessun luogo.

In un passaggio del libro, Anna dice di Boris Stepanovich: "assumeva il ruolo del clown, del brigante e del filosofo, ma più lo conoscevo, più percepivo tali ruoli come aspetti di un'unica personalità che sfruttava le sue svariate armi nel tentativo di riportarmi alla vita. Siamo diventati cari amici, e verso Boris conservo un debito grande per la sua compassione, per gli attacchi obliqui e persistenti che lanciava contro i bastioni della mia tristezza" (traduco all'impronta).

Oppure, altrove: "Era come essere un confessore, diceva [Sam, n.d.r.], e poco a poco si è messo a misurare tutto il bene che si fa quando si permette alla gente di sfogarsi - quel salutare effetto di pronunciare le parole, di lasciarle uscire. Parole che raccontano quel che è successo a ciascuno di noi. [...] Farsi passare per un dottore gli aveva improvvisamente dato accesso ai pensieri intimi degli altri, e questi pensieri cominciavano ora a far parte di lui. Il suo mondo interiore è diventato più vasto [...]".

La speranza fa ripartire. Anche se tutto non è null'altro che illusione.

La fine è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arriva il momento in cui ti rendi conto che non ce la farai mai. Può darsi che tu sia costretto a fermarti, ma allora sarà perché hai poco tempo davanti a te. Ti fermi, ma questo non significa che sei arrivato fino in fondo.

E il romanzo non finisce qui. Non con questa frase finale.

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Mi accorgo, rileggendo, che non sono riuscita minimamente a restituire la graffiata dolorosa con la quale questo libro mi ha lacerata. Darò la colpa a Chopin, che mi ha fatto compagnia mentre buttavo giù queste righe.





photo by @rteJS - dipinto di Alice Nieri

Io l'avrei tradotto così, In the Country of Last Things, il romanzo di Paul Auster. Invece qui in Francia si è optato per Le voyage d'Anna Blume.

E' la terza volta che riprendo in mano questo libro: l'incipit è difficile, duro, pieno di muri ad angolo e anche un poco sbrecciati, di quelli che ti feriscono le mani.

E allora faccio esercizio di traduzione on line, all'impronta, per invogliare chi legge a prenderlo in mano (magari otterrò l'effetto contrario, chissà).

* * *
"Sono le ultime cose, ha scritto lei. Una dopo l'altra svaniscono e non riappaiono mai. Posso parlarti di quelle che ho visto, di quelle che non ci sono più, ma temo di non avere tempo. Accade tutto troppo in fretta, ora, e non riesco più a seguirle.
Non mi aspetto che tu capisca. Non hai visto nulla di tutto ciò e anche se ci provassi non sapresti immaginartelo. Sono le ultime cose. Un giorno, una casa si trova qui e l'indomani è scomparsa. Una via che hai percorso ieri, oggi non c'è più. Persino il clima cambia di continuo. Un giorno di sole seguito da uno di pioggia, un giorno di neve seguito da uno di nebbia, il caldo e poi il fresco, prima il vento e poi la calma piatta, a un periodo di freddo terribile segue oggi - in pieno inverno - un pomeriggio di luce profumata, calda abbastanza per indossare appena un pulloverino. Quando si abita in città si impara a non contare su nulla. Chiudiamo gli occhi per un attimo, ci voltiamo per guardare qualche altra cosa ed ecco che quel che avevamo davanti, d'improvviso è svanito. Nulla dura, capisci, nemmeno i pensieri che ci portiamo dentro. Non ti venga in mente di perdere tempo a ricercarli: quando una cosa è andata, è per sempre.
E' così che vivo, proseguiva nella sua lettera. Non mangio quasi; appena il giusto per continuare a mettere un piede avanti all'altro, non di più. Talvolta la mia debolezza è tale che ho l'impressione che non riuscirò mai a fare il passo successivo. Ma ci riesco. Nonostante i cedimenti, continuo ad andare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene."
(traduzione dal francese che traduce dall'americano a mia cura)

* * *

Ho trovato - più tardi - lo stesso incipit in traduzione italiana dall'americano (a cura di Monica Sperandini). Paul Auster, Nel paese delle ultime cose. Torino, Einaudi, 2003, 8€50.

E allora lo posto qui, a confronto.

* * *
Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano piú. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono piú, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo cosí velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro.

Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e anche se ci provassi non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è li e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste piú. Persino il tempo è in un flusso costante. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, il caldo e poi il freddo, il vento e poi la calma, un periodo di freddo pungente e poi oggi, nel mezzo dell'inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da far sudare. Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa che era dinnanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.

Ecco come vivo, continuava la sua lettera. Mangio poco. Quel tanto che basta per tirare avanti passo dopo passo, e niente piú. Talvolta mi assale la debolezza, e sento che non riuscirò a muovere il prossimo passo. Ma me la cavo. Nonostante gli sbandamenti riesco a tirare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene.

* * *


Mr. Vertigo.
Questo è uno dei tanti libri di Paul Auster che ho amato.

All'epoca (1994), non scriveva proprio nel suo stile inconfondibile (penso al Libro delle illusioni e alla Trilogia newyorkese, ad esempio), ma era già lui.

Di questo romanzo, serberò per me una frase, scritta su di un bigliettino, da Maestro Yehudi alla sua Mrs Witherspoon che sposerà un altro:

Dovunque andrai, ci sarò anch'io.