Pavese nel centenario della nascita
Torino Giovanna Romanelli
Omaggio a Cesare Pavese.
Roma, Aracne editrice, 2008, pp. 139, 12€.
Presentazione di Eleonora Fiorani.
Prefazione di Gilles de Van.
ISBN 9788854815995
Il 2008 è stato l’anno in cui ricorreva il centenario della nascita di Cesare Pavese; l’editore Aracne l’onora con questo libro comprendente sei saggi che la studiosa Giovanna Romanelli ha scritti, tra il 2001 e il 2007, in occasione dei quaderni del CE.PA.M. voluti annualmente dall’Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo di Santo Stefano Belbo (di cui Romanelli è membro fin dai tempi in cui insegnava alla Sorbonne Nouvelle di Parigi). Ad essi si aggiunge un settimo contributo – inedito – su quella «trasversalità dei linguaggi» che negli anni sessanta permetterà a un musicista di avanguardia come Luigi Nono di trovare la sua ispirazione nei versi delle liriche pavesiane. In appendice, diciotto fotografie in bianco e nero e a colori – riguardanti Pavese, le persone a lui care e i suoi luoghi – corredano il volume.
Il fil rouge di questo Omaggio è facilmente rintracciabile, ed è la stessa Romanelli a indicarlo: «il progetto […] è pensato come un omaggio al grande scrittore piemontese attraverso la rivisitazione di un percorso […] con l’intento di sottolineare l’importanza e la complessità che la territorialità assume nella sua opera». Ai luoghi, reali e mitici, alle radici – le Langhe – di Cesare Pavese, al ruolo fondamentale della geografia letteraria (ma non solo letteraria) dell’autore piemontese sono dedicati tre capitoli del libro.
In Realtà e finzione, storia e mito nella geografia letteraria di Cesare Pavese, è detto in modo mirabile: «gli elementi dello spazio fisico in cui si svolge la narrazione non sono meri riferimenti geografici o descrittivi né metafore poetiche, ma si caricano di valenze simboliche e strutturano lo spazio di valori e sentimenti». Non luoghi divini o divinizzati, bensì spazi in cui la nostra esperienza si è forgiata, in cui la nostra personalità ha preso coscienza e consapevolezza di sé (la consciuousness di Cook, citata dall’autrice), universo (che sia di infima grandezza non conta) «modificato dalla nostra azione e dal quale siamo a nostra volta modificati» (p. 91).
L’acquisizione di tale presa di coscienza mi fa tornare alla mente l’Erlebnis traumatizzata, contrapposta all’Erfahrung (perduta e innocente), di Walter Benjamin. Si pensi alla collina come la vede il protagonista Corrado nell’incipit della Casa in collina (1948), luogo mitizzato, che fonde in sé l’immagine della sua infanzia e quella del suo presente – rifugio dalla guerra, i cui bagliori giungono sì, ma di lontano. Si vada poi alle ultime pagine, laddove palese è l’amara constatazione che tutto è illusione e se la collina rappresenta ancora l’antico conforto, nondimeno l’esperienza della guerra condurrà il protagonista – insieme con la riappropriazione della propria identità – a un senso di amara e solitaria (e perciò ancor più tristemente inutile) sconfitta. Tale è la guerra.
Nel 1949, Einaudi dà alle stampe la trilogia de La bella estate, grazie alla quale l’anno successivo Pavese vincerà lo Strega prima di suicidarsi. In Pavese e l’altrove impossibile, Giovanna Romanelli analizza ancora una volta la rappresentazione del territorio nella narrativa, ma per sottolinearne il valore in primo luogo «autonomo». Torino, poi le Langhe e poi ancora Torino: «Torino è dunque punto di partenza del percorso artistico ed esistenziale di Pavese, ma anche punto di approdo, come suggerisce lo stesso scrittore quando afferma che (…) è “luogo da cui si torna” e “luogo dove si tornerà”» (p. 52). Il fatto è che parlare del territorio significa parlare della propria identità, se in una pagina del suo diario troviamo scritto: «Che tutte le mie immagini non siano altro che uno sfaccettamento ingegnoso dell’immagine fondamentale: quale il mio paese tale io?» (Il mestiere di vivere, 11.X.1935).
Se la campagna appare come il luogo in cui è radicato il nostro essere (Oreste e Pieretto) e la città può rinviarci l’immagine di un territorio assolutamente estraneo, nemico – e per ciò stesso negativo (Ginia), la studiosa fa una riflessione che mi sento di condividere appieno: «Il viaggio verso la campagna si configura come un ritorno alle proprie origini in cerca d’identità e di “risposte”: “Noi siamo scemi, - diceva Pieretto – cerchiamo giorno e notte il segreto della campagna, e il segreto l’abbiamo qui dentro”; ma i luoghi sono ormai divenuti opachi e all’uomo che li interroga essi non comunicano più nulla. Il territorio non riesce più a mediare le relazioni sociali, perché l’individuo che vi ritorna è nel frattempo mutato, perciò i luoghi sognati da lontano, pur conservando una forte carica attrattiva, si presentano diversi allo sguardo, che non vi ritrova più le tracce familiari. L’uomo e il territorio non parlano più lo stesso linguaggio» (p. 60).
E Romanelli non può non approdare a La luna e i falò (1950). Lo fa nel saggio Ai confini della vita: paesaggio e viaggio nell’ultimo Pavese. In quello che fu l’ultimo romanzo dello scrittore, il protagonista Anguilla «opera attraverso tre livelli semantici che interagiscono» osserva Giovanna Romanelli « e che hanno nell’azione il riferimento unitario: a) “l’azione in atto”, cioè il ritorno di Anguilla dall’America; b) “l’azione ricostituita” ovvero la rievocazione di tutto ciò che egli ha fatto quando era ragazzo; c) “l’azione anticipata”, quello che il protagonista si accinge a fare o ha in progetto di fare» (p. 106).
E costui – personaggio poderoso, personaggio forte e insieme fragilizzato – cerca se stesso, per questo è tornato da Oakland, attraversando paesi e colline. Di tutto questo spazio che Anguilla «somatizza», l’unico espace heureux – lo spazio felice bachelardiano citato dalla studiosa – è costituito dalla casa di Nuto, il falegname del Salto, odorosa di gerani rossi e fresca di legno appena tagliato. Senza casa né radici; convoco appositamente parole che provengono da altre lingue: Anguilla finisce per riconoscere la sua posizione di outsider, di étrange étranger (strano straniero = estraneo). Sicché dopo aver chiuso il cerchio dei ricordi e della ricerca sospesa di sé e degli altri, ripartirà verso un altrove che ugualmente lo vedrà “impartecipe” attore e attento osservatore del mondo.
Un mondo che Pavese intende restituire grazie alla parola, è oggetto del saggio La “parola nuova” nella ricerca letteraria di Cesare Pavese in cui la studiosa milanese riflette mirabilmente sulla continua ricerca di una lingua letteraria aderente alla realtà e quindi riproducibile senza balbettii di sorta. Lo scopo dello scrittore è quello di costruire un nuovo mondo e migliore; per attuarlo, le parole debbono essere nette, solide e nude; il mestiere di scrivere è quello di scavarle fino in fondo, fino a farle divenire sostanza delle cose che esprimono. Romanelli compara la di lui ricerca a quella che fu dell’Alfieri – un altro piemontese – e ripercorre il problema del linguaggio pavesiano attraverso l’analisi di Ciau Masino (romanzo composto nei primi anni ’30, ma pubblicato postumo nel ’68). Dialetto avito e lingua italiana sono i due aspetti di un’unica realtà, ma il dialetto è percepito «come elemento di identità, di appartenenza e allo stesso tempo di distinzione» (p. 42), scrive la studiosa, anche se poi – aggiungo io – i personaggi che appartengono ai ceti umili tentano di esprimersi in lingua italiana per elevarsi dalla propria condizione, affinché si veda il meno possibile la loro subalternità sociale, mentre i personaggi abbienti non si fanno riguardo di passare dall’italiano al dialetto e viceversa.
In Walt Whitman: alle radici della poetica di Cesare Pavese, Giovanna Romanelli ci offre una personale rilettura di quella tesi di laurea, al fine di ri(n)tracciare l’itinerario poetico pavesiano. Innanzitutto, un po’ di storia: nonostante la bravura dello studente, la proposta di una tesi su Whitman viene subito rifiutata dal professore di letteratura inglese, mentre viene accolta da quello di letteratura francese. I motivi sono semplici: siamo nel 1930, il regime fascista non vede di buon occhio studi su letterature straniere – in particolar modo, anglosassoni –. L’analisi e l’interpretazione della poesia whitmaniana sono al centro della tesi, cosa di cui Pavese va molto fiero se ad Antonio Chiuminatto – un americano di origini piemontesi, cui s’era rivolto per avere materiale su Whitman in lingua originale – scriverà: «Lei non sa, sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia» (p. 19).
Il poeta americano non sarà un caso isolato; fin dall’anno successivo alla sua tesi di laurea, Pavese si dedicherà – e per il resto della sua vita – alla traduzione di testi inglesi e americani: Melville, Dickens, Dos Passos, Joyce, Steinbeck, Defoe – tra gli altri. Ma perché proprio Walt Whitman? Perché era conosciuto in Europa attraverso le traduzioni francesi, perché «in lui [Pavese] vede il poeta che meglio ha saputo interpretare l’esigenza dell’America che […] ricerca con consapevolezza e determinazione una propria identità culturale, politica, sociale. Egli incarna l’esigenza di democrazia e di libertà, anche quella del verso libero, libero anche dalle costrizioni della tradizione e della retorica classica» (p. 21). Non solo per questo, certo: Romanelli scopre infatti corrispondenze poetiche e proiezioni identitarie che consiglio di non perdere ai lettori di questo libro.
Solitario, Pavese, ma fino a un certo punto: quanti ricordano che lo scrittore piemontese scrisse un romanzo a quattro mani con la scrittrice Bianca Garufi? Ne La compiutezza di un incompiuto: intorno a Fuoco grande, Giovanna Romanelli ce ne racconta genesi e intreccio. Segretaria generale della casa editrice Einaudi a Roma, Bianca Garufi conosce Cesare Pavese nel 1945, e subito ne diviene la musa – come riscontrabile nel canzoniere La terra e la morte di quello stesso anno. Il romanzo sarà pubblicato nel 1959 su indicazione di Italo Calvino, con un titolo scelto dall’editore (Fuoco grande) che scarta l’originale pavesiano (Viaggio nel sangue). Undici capitoli, quelli pari – di azione – scritti da Garufi e aventi per narratrice autodiegetica Silvia, quelli dispari – di riflessione – scritti da Pavese e aventi per protagonista anche qui autodiegetico Giovanni. È la storia di una coppia e delle sue vicende, ma narrata seguendo i punti di vista contrastanti dei due personaggi sui medesimi fatti. È una storia i cui antefatti vanno indotti da quel che vien taciuto o da qualche velata allusione disseminata nel testo. Ma la maestria della studiosa milanese sta – parlandoci del romanzo – nel trasportarci verso altri lidi, ben più importanti: quelli di Eros e di Thanatos, attraverso una fine analisi testuale. Perizia che trova la sua più compiuta realizzazione nello stile di Romanelli, il quale rinuncia ad essere tradizionalmente didattico per farsi empaticamente esplicativo. Tant’è che la sua descrizione del rapporto osmotico in cui stanno vita e letteratura pavesiane scende pian piano verso un ade di pensieri lucidi sui contrasti aggrovigliati dello scrittore piemontese per riemergerne, risolutamente, dipanatrice di enigmi.
Chiude la raccolta di saggi uno scritto inedito, come si è detto, sull’estro che le liriche pavesiane hanno ispirato su certa musica di avanguardia: Trasversalità dei linguaggi: Luigi Nono e Cesare Pavese ovvero delle affinità elettive. La studiosa milanese riferisce della predilezione che attestano i numerosi volumi di e su Pavese conservati da Nono nella sua biblioteca veneziana e riporta finanche gli schemi del compositore a testimonianza delle affinità poesia-musica con lo scrittore. Eppure, si chiede Romanelli, quali motivazioni spingono Luigi Nono ad utilizzare la poesia di Pavese nelle sue composizioni? Intanto bisogna dire che il musicista soggiorna a Torino nel 1954, anno in cui ha occasione di conoscere e stimare Giulio Einaudi, Italo Calvino e Massimo Mila insieme con l’ambiente culturale che era stato quello frequentato da Pavese. Poi, proprio come Pavese, Nono ha un rapporto fortemente conflittuale con il PCI al quale è iscritto e come Pavese sente «la missione artistica come vero e proprio engagement, impegno a trasformare il mondo, a migliorarlo attraverso l’etica della Bellezza» (pp. 131-132); per tacere della sperimentazione linguistica per l’uno e musicale per l’altro.
E tanto altro vi sarebbe da dire, ma preferisco concludere con quest’osservazione del prefatore Gilles de Van: «Non abbiamo ancora esaurito il lavoro letterario di Pavese, e probabilmente come capita con i grandi, questa ricerca non finirà mai, ma intanto su questa strada, il lavoro di Giovanna Romanelli segna una utile e preziosa tappa».
Ben più che un semplice omaggio a Cesare Pavese, mi pare.
[Jacqueline Spaccini]
Pubblicato da Le colline di Pavese, Santo Stefano Belbo, Centro Pavesiano Museo casa natale, A. 32, n° 122, aprile 2009, pp. 9-11.