martedì 30 giugno 2009

Scrittrici italiane dimenticate. Un passo indietro.




Un passo indietro, un passo avanti e poi l'oblìo
di Jacqueline Spaccini


Francesco De Nicola e Pier Antonio Zannoni (a cura di). La fama e il silenzio. Scrittrici dimenticate del primo Novecento. Venezia, Marsilio, 2002, 85 p., 11€50


Questo agile ma pregnante volume che contiene le relazioni presentate in un convegno genovese nell'ormai lontano 2001, mi dà l'opportunità di presentare (e soffermarmi su) alcune notevoli scrittrici italiane del primo Novecento. Sono otto e oggetto di studio da parte di specialisti, poco o per nulla lette da un più vasto pubblico.

Cominciamo con il citare quelle - sempre di italiane si tratta - che non sono dentro questo libro, in quanto famose (Poi vi porrò una domanda):


(Nella foto: una giovanissima Sibilla Aleramo)


Matilde Serao
Grazia Deledda
Ada Negri
Elsa Morante
Anna Banti
Sibilla Aleramo
Fausta Cialente
Alba De Cespedes
Gianna Manzini
Annamaria Ortese
Natalia Ginzburg
Maria Bellonci
Lalla Romano
Amelia Rosselli
Maria Luisa Spaziani
Margherita Guidacci
Dacia Maraini.

Non vi ho tirato fuori Gaspara Stampa e Vittoria Colonna. Vi ho fornito un elenco succinto di alcune delle maggiori scrittrici tra la fine dell'800 e la fine del '900. Rileggete i nomi.

Ed ecco la domanda: Chi leggete? Chi avete letto (magari a scuola, per obbligo)? Chi apprendete esistere qui, per la prima volta?

Ci sono buone possibilità che il 90% di voi abbia letto (o stia leggendo) almeno un romanzo di Elsa Morante e di Dacia Maraini, conosca i nomi della Serao, Negri e Deledda (premio nobel 1926) e/o le abbia lette nelle antologie scolastiche, abbia infine vagamente sentito parlare di Sibilla Aleramo, Lalla Romano e la Spaziani (magari in riferimento a Montale)...

Nel caso in cui le conosciate tutte, vorrà dire che:
a) avete più di 40 anni;
b) siete femministe (o lo siete state);
c) siete proff;
d) siete accanite lettrici;
e) tutte e quattro le cose qui sopra (o 3 su 4).

Scherzi a parte, si fa un gran parlare di scrittura femminile che non viene letta, di scrittrici italiane che vengono sacrificate, per poi accorgersi che noi per prime leggiamo Woolf, Dickinson, Austen, Lessing, Plath, Munro, Berberova, Allende, Serrano, Sebold, Nothomb, Duras, Fielding, Kinsella, Higgins Clark, Vargas, Kristof e chi più ne ha, più ne metta. Tutte straniere, insomma.



(il disegno Donna che prega è di Carla Massimetti clicca qui per vedere il suo album di chine)


Per cui adesso passo a parlare di scrittrici di cui probabilmente NON avete mai sentito parlare.
Quelle del libro, appunto. Piccolo riassunto degli interventi genovesi (mi limiterò a segnalare qualcosa, non riporterò approfonditamente le critiche altrui, né sicuramente metterò le mie, non avendo ancora letto i libri di cui si parla).
A me è venuta voglia di leggerle, queste scrittrici (alcune le conoscevo già, a dire il vero), e ho già ordinato alcuni romanzi.

Chissà che non venga la stessa voglia anche a voi, uomini o donne che leggete...

1. Annie Vivanti[1]

Intraprendente scrittrice (1868-1942), nata a Londra, figlia di un mantovano mazziniano e di una tedesca, poliglotta, a poco più di vent'anni va a conoscere Carducci. Gossip di fine Ottocento per la liaison (pare assolutamente casta) tra la minorenne e il Vate di trent'anni più anziano.
Lei gli sottopone le sue poesie, lui le confeziona la prefazione (Lyricae, 1890). L'affetto resterà per tutta la vita, ma lei sposa due anni dopo un giornalista irlandese, John Chartres, e con lui si trasferisce negli Stati Uniti. È la madre della celebre violinista Vivien Chartres, cui dedicò tutta la sua vita, sacrificandole il suo talento di romanziera. Pubblicò comunque varie opere, tra le quali I Divoratori e Naja tripudians. Già da tempo vedova, alla notizia della scomparsa della figlia sotto i bombardamenti londinesi, rientra in Italia. Perseguitata e come inglese e come ebrea, conosce a Torino una miserevole fine nel 1942.
A proposito di Naja tripudians (1921), nome di un cobra egiziano: è la storia di "due fanciulle giovani e ingenue, vissute in un chiuso ambiente di provincia [che] vengono convinte da una pseudo aristocratica a passare qualche giorno nella sua bella casa londinese. Ma quando le fanciulle arrivano cariche dei loro sogni e delle loro attese trovano ad aspettarle una ben diversa realtà. Imbottite di cocaina e seviziate capiscono di essere finite in una casa di piacere da cui per loro sarà impossibile fuggire" (p. 17).

2. Willy Dias (1872-1956) e 3. Flavia Steno (1877-1946) sono accomunate in un unico articolo [2] e il motivo è chiaro: hanno condiviso moltissime cose insieme. Intanto, hanno assunto tutte e due uno pseudonimo: Willy si chiama in realtà Fortuna (o Fortunata?) Morpurgo e Flavia altri non è che Amelia Cottini Osta; la prima è nata a Trieste, la seconda a Lugano, ma entrambe svolgono la loro attività a Genova.
Poi hanno lavorato come giornaliste e insieme fondato il settimanale femminile La Chiosa (1919-1927), che verrà chiuso dal regime fascista in quanto considerato "pericoloso". Scrivono anche una commedia a quattro mani, Il triste gioco (1918). Due donne coraggiose (riguardo alle vicende belliche), apparentemente le solite scritttrici di letteratura rosa, di romanzi d'appendice (a Il gioiello sinistro della Steno sarà ispirato il film omonimo, del '17, per la regia di Eleuterio Rodolfi). Il romanzo forse più significativo di Willy Dias è Il sentiero fra le pietre (1940) sull'inutilità della guerra, ma è anche una prova narrativa in cui si mettono in discussione le classi sociali (la protagonista, Novella, è un'orfana accolta per carità in una famiglia borghese che si scopre poi figlia di un nobile piemontese morto in combattimento). Per Flavia Steno, il romanzo più rappresentativo è Sissignora (ne fu tratto un film, nel '41 con la bellissima Maria Denis), la storia di Cristina. Melò rosa con lieto fine? Mica tanto, la protagonista muore improvvisamente. Scrive De Nicola: "questi due libri [...] raccontano senza remore e con forti accenti critici le ingiustizie e i malesseri di una società per nulla rosa" (p. 30).

4. Paola Drigo[3] (1876-1938) è soprattutto l'autrice di Maria Zef (che ho subito ordinato), da cui furono tratti due film (nel '53 e nell'81). Pubblicato nel 1937, un anno prima della sua morte, questo romanzo "racconta una tragedia avvenuta e consumata entro l'orizzonte di un contesto subalterno, misero, colpito in tutti i sensi dal bisogno" (p. 37). Si parla di violenza sessuale, da parte di uno zio (Barba Zef) sulla nipote, Mariute, la protagonista, dopo che costui aveva già abusato della madre della fanciulla. Si parla di malattie veneree e di uccisioni.

5. Amalia Guglielminetti (1881-1941) non è una sconosciuta.
Non come (non tanto quanto) coloro che la precedono qui sopra. Scrive di lei (mi riferisco sempre al libro che ha occasionato questo post) il cugino Marziano Guglielminetti, noto critico scomparso anzitempo, nel 2006. Definita scrittrice uterina, ma anche soave - a seguito della sua prima prova poetica, Vergini folli; di lei è nota innanzitutto la relazione (ignoro se sessuale, sentimentale o puramente letteraria: non ho letto le lettere) con Guido Gozzano. Poi c'è la sua storia con Pitigrilli , il processo, la falsificazione delle lettere, il Fascismo e l'Antifascismo, la contestazione di Amalia nei confronti di Gozzano cui rimprovera "una mascolinità non virile" (p. 44). Lascia la poesia, diventa narratrice; esce distrutta dal processo di cui sopra, solo Massimo Bontempelli le resterà accanto, come i veri amici fanno. Amalia anticipa Coco Chanel, Amalia scrive un romanzo, La rivincita del maschio, nel '23, in cui il maschio sadico e perverso viene ucciso da una delle sue amanti, lesbica. La Guglielminetti è debordante e non trova abbastanza spazio in questo mio post.


6. Marise Ferro (1907-1991) è un'altra ligure, sposatasi due volte con due mostri della letteratura italiana: prima con Guido Piovene e poi con Carlo Bo. Tanto per dire: le donne che stanno un passo indietro. È stata giornalista, saggista, traduttrice e narratrice. L'ultimo suo romanzo (pubblicato nel 1978) è La sconosciuta. Come pubblicista ha scritto un saggio dal titolo La donna dal sesso debole all'unisex (Rizzoli, 1970). Suo alter ego sarà il personaggio di Irene in un dittico di romanzi pubblicati tra il '72 e il '74.
Scrive di lei Monica Cedrola, relatrice dell'intervento genovese: "malgrado la Ferro tragga spesso ispirazione per le sue opere dalla vita reale, l'elemento autobiografico appare sottilmente filtrato dal garbo [...]; si tratta di un velato autobiografismo: quella stessa finzione velata destinata a non svelare la reale realtà dei personaggi e delle circostanze..."(p. 55). Cosa di cui ho più volte parlato in questo blog.

7. Paola Masino (1908-1989) Di Paola Masino[4], dirò pochissimo. Sta conoscendo una lenta ma indubbia risalita nell'olimpo letterario. Ciò è dovuto in gran parte a studiosi come Marinella Mascia Galateria, a Marina Morbiducci [5] e all'opera infaticabile del nipote, Alvise Memmo, ugualmente erede e curatore del patrimonio letterario di Bontempelli, compagno di Paola Masino.
Ricordo solo i suoi romanzi: Monte Ignoso (1931), Periferia (1933) e Nascita e morte della massaia (1945).
Di lei qui - vorrei scrivere qualcosa anch'io - prossimamente: dopo essermi lungamente e dettagliatamente occupata di Bontempelli, è tempo che passi a Paola. Mi limito a ricordare lo sprezzo delle convenzioni borghesi, quando ventenne andò a convivere con Massimo, di trent'anni più grande; quando condivise il bene e il male, la vita facile e quella da reclusa (soprattutto dopo il '48), l'assistenza prestata fino alla fine al suo compagno gravemente ammalato. Fino allo sfinimento.


8. Irene Brin [6]. Pseudonimo di Maria Vittoria Rossi (1914-1969). Colei che nel mondo della letteratura italiana ha avuto una "discontinua cittadinanza" (p. 65), cambiando molte volte nom de plume: Marlene, Oriane, Mariù, è stata anche la Contessa Clara Ràdjanny von Skévitch, maestra del bon ton negli anni Cinquanta dalle pagine di una rivista in cui si finse anziana nobildonna. Attenta osservatrice della quotidianità, ironica, intellettualmente curiosa, la ricordiamo per i racconti raccolti sotto il titolo Olga a Belgrado (1943).


[Jacqueline Spaccini, Saint-Cloud, 30.06.2009]

* * *
Rimando a questa biblioteca di scrittrici italiane di Donne e Conoscenza Storica.
Consiglio altresì questo bel sito dedicato alla letteratura rosa e alle scrittrici dimenticate.
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[1] Riassumo dall'articolo di Mirella Serri.
[2] A firma di Francesco De Nicola (uno dei due curatori del libro).
[3] L'articolo è di Elvio Guagnini.
[4] Nel libro è presentata da Giuliano Manacorda.
[5] Di recente, presso l'Istituto Italiano di Cultura di Grenoble (Francia), Marina Morbiducci ha parlato di Paola Masino (clicca qui).
[6] L'intervento nel libro è di Federica Merlanti.




martedì 23 giugno 2009

Aspetti del postmoderno letterario: quando l'autore diventa personaggio

Quando l'autore diventa un personaggio
(ovvero siamo tutti postmoderni)


di
Jacqueline Spaccini




Alessandro Iovinelli. L'autore e il personaggio. L'opera metabiografica nella narrativa italiana degli ultimi trent'anni.
Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2005, 472 p., 36€.
ISBN 9788849812282

* * *

Alessandro Iovinelli è un critico atipico. Nasce come poeta, si fa romanziere, poi novellista. Segue un corso di giornalismo, lavora per Avvenimenti, si fa critico. Ma anche professore, prima al liceo e poi nelle università croate e francesi. Intraprende un'attività di traduttore dopo aver fatto l'editore, finendo funzionario di Stato, vale a dire Addetto Culturale presso il MAE.
Scrive e legge. Legge e scrive. Organizza eventi culturali di spessore in Italia per l'Unesco (sua per esempio l'invenzione, ideazione e programmazione della Giornata mondiale della Poesia e il portale Babele poetica con poesie di tutto il mondo) e all'Estero per l'Ambasciata d'Italia. Ma ha un difetto: è un uomo schivo.


(Debbo proprio spiegare perché ho messo Corto Maltese?)

E allora quest'uomo che non usa i gomiti per farsi avanti e anzi preferisce nel caso fare un passo indietro, ha scritto un saggio dal quale non si può prescindere se si fa (o si vuole fare) critica letteraria. La domanda attorno alla quale fa perno tutto il libro è la seguente: che fine ha fatto l'autore, si chiede Iovinelli, è per davvero morto o non si è per caso trasformato in qualcosa d'altro?

Il fatto è che l'autore, signori miei lettori, è un mutante.

A. Iovinelli nel suo studio zagabrese

E il critico, il nostro, è un deduttivo.
Sicché come si conviene a un critico strutturalista (convertitosi narratologo) apre il libro con un capitolo che introduce al tema del dibattere: la teoria della morte dell'autore di Roland Barthes, il dibattito sulla biografia [sì, perché spessissimo un autore diventa personaggio quando si fa oggetto di una (auto)biografia], con tutta la problematica sulla metafiction e i paradigmi della nuova critica letteraria.
Iovinelli è critico coscienzioso: riporta tutto tutto tutto quanto - in merito - conti per davvero.

Nel secondo capitolo, Iovinelli passa ad analizzare profondamente i vari tipi di biografie letterarie - perché c'è stata una evoluzione considerevole negli anni -, soprattutto a partire dagli anni '70, quando il biografo di routine è stato sostituito dal giornalista-critico-futuro autore (altro mutante).

Davide Lajolo

È cambiato il taglio (basta con l'incipit alla "XY nacque a Vattelapesca nell'anno quello-lì"), la prosa si è fatta agile, a tratti divertita, la storia ha inizio in medias res, talvolta addirittura in punto di morte con la biografia che va à reculons. E allora abbiamo Davide Lajolo per esempio che fa la biografia del suo amico Pavese e inventa per il suo libro un titolo che avrà un successo straordinario: Il vizio assurdo (antifrasticamente, rispetto alla vicenda umana di Cesare - per esprimere l'amore per la vita).

Ma poi a volersi far biografo si prova anche il romanziere. Proiezione identitaria? Identificazione? Semplice ammirazione? Fatto sta che per un Tobino che idealizza Dante Alighieri c'è una Rasy che nella sua Ada Negri ritrova la nonna e la Ginzburg che prosegue la sua vita in quella da lei narrata della famiglia Manzoni...

Natalia e Leone Ginzburg

Ma come sono descritti poi questi autori? Come si fanno personaggi? Sono solo silhouette, stereotipi a memoria scolastica o riescono ad essere di carne e di sangue, a prendere persino un po' di adipe attraverso altrui parole? Diventano per davvero personaggi o l'effetto è lo stesso di quando vediamo un attore famoso e non smettiamo di pensare: Quello è George Clooney, George Clooney, Clooney e non riusciamo a memorizzare nemmeno il nome del personaggio - faccio un esempio - Fred Friendly? [1].


Dipende. Da che dipende?
Dipende da due cose, osserva Iovinelli. La prima condizione è che il biografato sia qualcuno con una forte sostanza di vita (i troppo eterei non funzionano); la seconda (conclusiva o disgiuntiva, come le congiunzioni) è quanto si sente libero il biografo. C'è quello che racconta la storia di un autore di cui si sa poco o nulla (largo margine di manovra) e quello che invece opta per un autore-personaggio dai mille aneddoti. Ce n'è per tutti i gusti.

Ma al nostro critico interessano le strategie narrative. Entrare nei segreti della narrazione. Il dietro-le-quinte linguistico. E allora un capitolo intero è dedicato a Pietro Citati: a lui come autore e critico, agli incipit delle sue opere (Citati ha scritto le biografie di Proust, Goethe, Kafka...), ai problemi posti dalla letteratura metaletteraria, cioè all'opera letteraria che parla della letteratura, che si cita addosso - direbbe Woody Allen, ma anche alla scrittura ipertestuale, al paratesto e l'intertesto, tutte cose affascinantissime - che si sia genettiani convinti, o che non si sappia nemmeno di che cosa sto parlando.

Perché la scrittura del critico prende. È colto ma non pedante, profondo senza annoiare.
E poi c'è tutta la seconda parte del saggio che farà la gioia degli studiosi (anche di quelli agli inizi di carriera, dei laureandi insomma); è talmente complessa che mi limito a dirvi: cliccate qui, c'è l'indice dei capitoli e dei paragrafi.

L'ultima parte poi, è un saggio nel saggio: tutto dedicato all'opera di Antonio Tabucchi (ma anche a Pessoa) e alle questioni del postmoderno letterario.


A. Iovinelli e A, Tabucchi a Aix-en-Provence
durante il conferimento del doctorat honoris causa
allo scrittore (2007)



Un libro di riferimento, da consultare di continuo. Un libro prezioso, insomma.
[Jacqueline Spaccini]

Saint-Cloud, 23.06.2009


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[1] Non vi viene in mente? Si tratta del personaggio del giornalista in Good Night and Good Luck (2005) per la regia dello stesso Clooney.

Predrag Matvejevic, viaggiatore disperso?



Predrag Matvejevic. Tra asilo e esilio. Romanzo epistolare. Roma, Meltemi editore, 1998, 250 pp. Traduzione dal croato e dal russo di L. Costantini ed Egi Volterrani.
ISBN 88-11-86479-41-7


* * *

N
on ci si lasci ingannare dall'aspetto severo del libro, un saggio politico e sociologico che riflette in itinere le esperienze di viaggio dello scrittore nella ex-Unione Sovietica.
Non ci si lasci fuorviare dal numero di lettere e di evocazioni letterarie che quest'opera racchiude.

Certo, Tra asilo e esilio è anche questo.

Ma Predrag Matvejevic, metà russo metà croato, questo viaggiatore disperso, ha scritto un romanzo. Come una freccia che fa vibrare la corda del suo arco, esso trasporta anche noi nelle terre evocate da Lev Tolstoj e Fedor Dostojevskij, offrendoci lo struggente abbandono di luoghi, traditi dai governi, i partiti, le ideologie.

Come dimenticare infatti i passaggi che rievocano l'unica stanza, ambiente sporco e disadorno di Odessa, dinazi al cui mare Matvejevic, per non cadere vittima della disperazione, riesce infine a trovarle un argomento contro; quel mare raccontatogli dal padre esule Vsevolod Nikolajevic, il mare, l'unica cosa a essere rimasta immutata nel tempo?

gulag siberiano

Un romanzo epistolare post litteram, rivisitato, lontanissimo dal Settecento francese: qui, protagonisti sono i luoghi, gli alberghi, le lande sorvolate a bordo di un disagevole Yak 40, l'umanità varia - dagli zelanti di partito ai perdenti, quelli che non sono mai saliti sul carro dei vincitori -.

Ci sono poi gli amici e gli imbroglioni, quelli (come Piotr) che gli chiedono di scrivere qualche riga sul pane e quegli altri (come un fotografo giorgiano) che srotolano mazzette di rubli per ottenere da lui una camicia e un pullover di pura lana.

Ci sono poi le sue lettere aperte, scritte ai rappresentanti dei governi totalitari per chiedere di rispettare la libertà di opinione, la vita stessa di poeti e intellettuali del calibro di Josep Brodskij, di Solzenycyn (cui non risparmia le critiche per il suo acceso nazionalismo), di Vaclav Havel.

Aleksandr Solzenycyn

Pervade il libro la presenza (e la stima) di quel Karlo Stajner, che dopo vent'anni di gulag, scriverà 7000 giorni in Siberia (Napoli, ed. Tullio Pironti, 1985), ove la memoria ha questo di sovrumano: Ricorda quel che ognuno di noi si sforzerebbe di dimenticare. Forte l'amicizia di Danilo Kiš (un altro autore che non conoscete? Leggete i suoi libri), ingiustamente attaccato dalla società degli scrittori di Belgrado, che Matvejevic strenuamente difenderà affinché non venga allontanato dalla vita culturale per vent'anni e più. La morte civile.
Lettere, lezioni di stile.

Danilo Kiš

E ancora, e infine: Matvejevic riflette sul concetto di "russità" e sul peso dell'ortodossia religiosa. Ci racconta la Russia bianca e la Russia rossa, l'Oriente e l'Occidente, i tamizdat, i samizdat e i neizdat; e nelle librerie, lo sgradevole odore di colla; le domande inquisitorie, il traumatismo armeno, le mille e una identità di questi popoli e l'oblomovismo...

Aleksandr Sergeevič Puškin

Diceva Puškin: Dio mio, com'è triste quella nostra Russia!
Aggiungo io: E com'è affascinante. [Jacqueline Spaccini]

Pubblicato da Avvenimenti l'8.04.1998



lunedì 22 giugno 2009

Boris Vian: la parola nel cuore

... à l'occasion du 50ème anniversaire de la mort de l'artiste

Boris Vian, la parola nel cuore

di
Jacqueline Spaccini






Boris Vian Non vorrei crepare (Je voudrais pas crever). Roma, Newton Compton, 1993, 89 pp. Traduzione di Gian Antonio Cibotto.

Je veux une vie en forme d'arête
Sur une assiette bleue
Je veux une vie en forme de chose
Au fond d'un machin tout seul

Voglio una vita a forma di spina
su un piatto azzurro
voglio una vita a forma di cosa
sul fondo di un coso solitario.



Insofferenza, sovente malcelata invidia, suscita chi troppo sa; figuriamoci chi troppo sa fare.
Così Boris Vian: romanziere, poeta, trombettista jazz, sceneggiatore, attore e autore di teatro. Traduttore (di chi, lo vedremo poi).
Bello (e grande amatore), Vian fa l'ingegnere per quasi tutta la sua breve vita (muore d'infarto a 39 anni, nel 1959).



Traduce in francese uno sconosciuto romanziere americano, Vernon Sullivan, che gli dà subito una grande popolarità. Si apprenderà in seguito che Sullivan altri non è che Vian stesso, autore in quindici giorni di J'irai cracher sur vos tombes, un best-seller french-yankee. Perché lui era così.

In italiano, viene tradotto nella seconda metà degli anni Sessanta (non tutto) e nel 1993, Newton Compton proporrà questa raccolta di poesie, tradotto da Gianni Antonio Cibotto (Rovigo, 1925).

Je mourrai d'une jambe arrachée
Par un rat géant jailli d'un trou géant

Morirò per una gamba amputata
da un topo gigante sbucato da una fogna gigante



Lingua scevra di orpelli la sua, forte di sapore, stordente di allitterazioni e di analogie insensate: colpisce le orecchie ancor prima della mente, ma alla fine - a sorpresa - è il cuore a esser conquistato.

J'aimerais
devenir un grand poète
[...]
[Mais] je songe trop à vivre
et je pense trop aux gens
pour être toujours content
de n'écrire que du vent,

Mi piacerebbe
diventare un grande poeta
ma penso troppo a vivere
penso troppo alla gente
per esser sempre contento
di non scrivere che vento.




E a dispetto di quanto afferma, il suo modo di pensare alla vita e a chi la popola, di consumare come il replicante di Blade Runner la sua candela da tutte e due le estremità, di consegnare la sua Weltanschauung alla lingua poetica che ne è il veicolo, vento non era e in esso non si disperse.

Probabilmente, maldestramente, in questa parte di mondo si è posato.
[Jacqueline Spaccini ]



Pubblicato da Avvenimenti il 31.05.2005


domenica 14 giugno 2009

Giovanna Romanelli: Omaggio a Cesare Pavese

Pavese nel centenario della nascita

Torino

Giovanna Romanelli

Omaggio a Cesare Pavese.

Roma, Aracne editrice, 2008, pp. 139, 12€.

Presentazione di Eleonora Fiorani.

Prefazione di Gilles de Van.

ISBN 9788854815995



Il 2008 è stato l’anno in cui ricorreva il centenario della nascita di Cesare Pavese; l’editore Aracne l’onora con questo libro comprendente sei saggi che la studiosa Giovanna Romanelli ha scritti, tra il 2001 e il 2007, in occasione dei quaderni del CE.PA.M. voluti annualmente dall’Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo di Santo Stefano Belbo (di cui Romanelli è membro fin dai tempi in cui insegnava alla Sorbonne Nouvelle di Parigi). Ad essi si aggiunge un settimo contributo – inedito – su quella «trasversalità dei linguaggi» che negli anni sessanta permetterà a un musicista di avanguardia come Luigi Nono di trovare la sua ispirazione nei versi delle liriche pavesiane. In appendice, diciotto fotografie in bianco e nero e a colori – riguardanti Pavese, le persone a lui care e i suoi luoghi – corredano il volume.

Il fil rouge di questo Omaggio è facilmente rintracciabile, ed è la stessa Romanelli a indicarlo: «il progetto […] è pensato come un omaggio al grande scrittore piemontese attraverso la rivisitazione di un percorso […] con l’intento di sottolineare l’importanza e la complessità che la territorialità assume nella sua opera». Ai luoghi, reali e mitici, alle radici – le Langhe – di Cesare Pavese, al ruolo fondamentale della geografia letteraria (ma non solo letteraria) dell’autore piemontese sono dedicati tre capitoli del libro.

In Realtà e finzione, storia e mito nella geografia letteraria di Cesare Pavese, è detto in modo mirabile: «gli elementi dello spazio fisico in cui si svolge la narrazione non sono meri riferimenti geografici o descrittivi né metafore poetiche, ma si caricano di valenze simboliche e strutturano lo spazio di valori e sentimenti». Non luoghi divini o divinizzati, bensì spazi in cui la nostra esperienza si è forgiata, in cui la nostra personalità ha preso coscienza e consapevolezza di sé (la consciuousness di Cook, citata dall’autrice), universo (che sia di infima grandezza non conta) «modificato dalla nostra azione e dal quale siamo a nostra volta modificati» (p. 91).

L’acquisizione di tale presa di coscienza mi fa tornare alla mente l’Erlebnis traumatizzata, contrapposta all’Erfahrung (perduta e innocente), di Walter Benjamin. Si pensi alla collina come la vede il protagonista Corrado nell’incipit della Casa in collina (1948), luogo mitizzato, che fonde in sé l’immagine della sua infanzia e quella del suo presente – rifugio dalla guerra, i cui bagliori giungono sì, ma di lontano. Si vada poi alle ultime pagine, laddove palese è l’amara constatazione che tutto è illusione e se la collina rappresenta ancora l’antico conforto, nondimeno l’esperienza della guerra condurrà il protagonista – insieme con la riappropriazione della propria identità – a un senso di amara e solitaria (e perciò ancor più tristemente inutile) sconfitta. Tale è la guerra.

Nel 1949, Einaudi dà alle stampe la trilogia de La bella estate, grazie alla quale l’anno successivo Pavese vincerà lo Strega prima di suicidarsi. In Pavese e l’altrove impossibile, Giovanna Romanelli analizza ancora una volta la rappresentazione del territorio nella narrativa, ma per sottolinearne il valore in primo luogo «autonomo». Torino, poi le Langhe e poi ancora Torino: «Torino è dunque punto di partenza del percorso artistico ed esistenziale di Pavese, ma anche punto di approdo, come suggerisce lo stesso scrittore quando afferma che (…) è “luogo da cui si torna” e “luogo dove si tornerà”» (p. 52). Il fatto è che parlare del territorio significa parlare della propria identità, se in una pagina del suo diario troviamo scritto: «Che tutte le mie immagini non siano altro che uno sfaccettamento ingegnoso dell’immagine fondamentale: quale il mio paese tale io?» (Il mestiere di vivere, 11.X.1935).

Se la campagna appare come il luogo in cui è radicato il nostro essere (Oreste e Pieretto) e la città può rinviarci l’immagine di un territorio assolutamente estraneo, nemico – e per ciò stesso negativo (Ginia), la studiosa fa una riflessione che mi sento di condividere appieno: «Il viaggio verso la campagna si configura come un ritorno alle proprie origini in cerca d’identità e di “risposte”: “Noi siamo scemi, - diceva Pieretto – cerchiamo giorno e notte il segreto della campagna, e il segreto l’abbiamo qui dentro”; ma i luoghi sono ormai divenuti opachi e all’uomo che li interroga essi non comunicano più nulla. Il territorio non riesce più a mediare le relazioni sociali, perché l’individuo che vi ritorna è nel frattempo mutato, perciò i luoghi sognati da lontano, pur conservando una forte carica attrattiva, si presentano diversi allo sguardo, che non vi ritrova più le tracce familiari. L’uomo e il territorio non parlano più lo stesso linguaggio» (p. 60).

E Romanelli non può non approdare a La luna e i falò (1950). Lo fa nel saggio Ai confini della vita: paesaggio e viaggio nell’ultimo Pavese. In quello che fu l’ultimo romanzo dello scrittore, il protagonista Anguilla «opera attraverso tre livelli semantici che interagiscono» osserva Giovanna Romanelli « e che hanno nell’azione il riferimento unitario: a) “l’azione in atto”, cioè il ritorno di Anguilla dall’America; b) “l’azione ricostituita” ovvero la rievocazione di tutto ciò che egli ha fatto quando era ragazzo; c) “l’azione anticipata”, quello che il protagonista si accinge a fare o ha in progetto di fare» (p. 106).

E costui – personaggio poderoso, personaggio forte e insieme fragilizzato – cerca se stesso, per questo è tornato da Oakland, attraversando paesi e colline. Di tutto questo spazio che Anguilla «somatizza», l’unico espace heureux – lo spazio felice bachelardiano citato dalla studiosa – è costituito dalla casa di Nuto, il falegname del Salto, odorosa di gerani rossi e fresca di legno appena tagliato. Senza casa né radici; convoco appositamente parole che provengono da altre lingue: Anguilla finisce per riconoscere la sua posizione di outsider, di étrange étranger (strano straniero = estraneo). Sicché dopo aver chiuso il cerchio dei ricordi e della ricerca sospesa di sé e degli altri, ripartirà verso un altrove che ugualmente lo vedrà “impartecipe” attore e attento osservatore del mondo.

Un mondo che Pavese intende restituire grazie alla parola, è oggetto del saggio La “parola nuova” nella ricerca letteraria di Cesare Pavese in cui la studiosa milanese riflette mirabilmente sulla continua ricerca di una lingua letteraria aderente alla realtà e quindi riproducibile senza balbettii di sorta. Lo scopo dello scrittore è quello di costruire un nuovo mondo e migliore; per attuarlo, le parole debbono essere nette, solide e nude; il mestiere di scrivere è quello di scavarle fino in fondo, fino a farle divenire sostanza delle cose che esprimono. Romanelli compara la di lui ricerca a quella che fu dell’Alfieri – un altro piemontese – e ripercorre il problema del linguaggio pavesiano attraverso l’analisi di Ciau Masino (romanzo composto nei primi anni ’30, ma pubblicato postumo nel ’68). Dialetto avito e lingua italiana sono i due aspetti di un’unica realtà, ma il dialetto è percepito «come elemento di identità, di appartenenza e allo stesso tempo di distinzione» (p. 42), scrive la studiosa, anche se poi – aggiungo io – i personaggi che appartengono ai ceti umili tentano di esprimersi in lingua italiana per elevarsi dalla propria condizione, affinché si veda il meno possibile la loro subalternità sociale, mentre i personaggi abbienti non si fanno riguardo di passare dall’italiano al dialetto e viceversa.

In Walt Whitman: alle radici della poetica di Cesare Pavese, Giovanna Romanelli ci offre una personale rilettura di quella tesi di laurea, al fine di ri(n)tracciare l’itinerario poetico pavesiano. Innanzitutto, un po’ di storia: nonostante la bravura dello studente, la proposta di una tesi su Whitman viene subito rifiutata dal professore di letteratura inglese, mentre viene accolta da quello di letteratura francese. I motivi sono semplici: siamo nel 1930, il regime fascista non vede di buon occhio studi su letterature straniere – in particolar modo, anglosassoni –. L’analisi e l’interpretazione della poesia whitmaniana sono al centro della tesi, cosa di cui Pavese va molto fiero se ad Antonio Chiuminatto – un americano di origini piemontesi, cui s’era rivolto per avere materiale su Whitman in lingua originale – scriverà: «Lei non sa, sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia» (p. 19).

Il poeta americano non sarà un caso isolato; fin dall’anno successivo alla sua tesi di laurea, Pavese si dedicherà – e per il resto della sua vita – alla traduzione di testi inglesi e americani: Melville, Dickens, Dos Passos, Joyce, Steinbeck, Defoe – tra gli altri. Ma perché proprio Walt Whitman? Perché era conosciuto in Europa attraverso le traduzioni francesi, perché «in lui [Pavese] vede il poeta che meglio ha saputo interpretare l’esigenza dell’America che […] ricerca con consapevolezza e determinazione una propria identità culturale, politica, sociale. Egli incarna l’esigenza di democrazia e di libertà, anche quella del verso libero, libero anche dalle costrizioni della tradizione e della retorica classica» (p. 21). Non solo per questo, certo: Romanelli scopre infatti corrispondenze poetiche e proiezioni identitarie che consiglio di non perdere ai lettori di questo libro.

Solitario, Pavese, ma fino a un certo punto: quanti ricordano che lo scrittore piemontese scrisse un romanzo a quattro mani con la scrittrice Bianca Garufi? Ne La compiutezza di un incompiuto: intorno a Fuoco grande, Giovanna Romanelli ce ne racconta genesi e intreccio. Segretaria generale della casa editrice Einaudi a Roma, Bianca Garufi conosce Cesare Pavese nel 1945, e subito ne diviene la musa – come riscontrabile nel canzoniere La terra e la morte di quello stesso anno. Il romanzo sarà pubblicato nel 1959 su indicazione di Italo Calvino, con un titolo scelto dall’editore (Fuoco grande) che scarta l’originale pavesiano (Viaggio nel sangue). Undici capitoli, quelli pari – di azione – scritti da Garufi e aventi per narratrice autodiegetica Silvia, quelli dispari – di riflessione – scritti da Pavese e aventi per protagonista anche qui autodiegetico Giovanni. È la storia di una coppia e delle sue vicende, ma narrata seguendo i punti di vista contrastanti dei due personaggi sui medesimi fatti. È una storia i cui antefatti vanno indotti da quel che vien taciuto o da qualche velata allusione disseminata nel testo. Ma la maestria della studiosa milanese sta – parlandoci del romanzo – nel trasportarci verso altri lidi, ben più importanti: quelli di Eros e di Thanatos, attraverso una fine analisi testuale. Perizia che trova la sua più compiuta realizzazione nello stile di Romanelli, il quale rinuncia ad essere tradizionalmente didattico per farsi empaticamente esplicativo. Tant’è che la sua descrizione del rapporto osmotico in cui stanno vita e letteratura pavesiane scende pian piano verso un ade di pensieri lucidi sui contrasti aggrovigliati dello scrittore piemontese per riemergerne, risolutamente, dipanatrice di enigmi.

Chiude la raccolta di saggi uno scritto inedito, come si è detto, sull’estro che le liriche pavesiane hanno ispirato su certa musica di avanguardia: Trasversalità dei linguaggi: Luigi Nono e Cesare Pavese ovvero delle affinità elettive. La studiosa milanese riferisce della predilezione che attestano i numerosi volumi di e su Pavese conservati da Nono nella sua biblioteca veneziana e riporta finanche gli schemi del compositore a testimonianza delle affinità poesia-musica con lo scrittore. Eppure, si chiede Romanelli, quali motivazioni spingono Luigi Nono ad utilizzare la poesia di Pavese nelle sue composizioni? Intanto bisogna dire che il musicista soggiorna a Torino nel 1954, anno in cui ha occasione di conoscere e stimare Giulio Einaudi, Italo Calvino e Massimo Mila insieme con l’ambiente culturale che era stato quello frequentato da Pavese. Poi, proprio come Pavese, Nono ha un rapporto fortemente conflittuale con il PCI al quale è iscritto e come Pavese sente «la missione artistica come vero e proprio engagement, impegno a trasformare il mondo, a migliorarlo attraverso l’etica della Bellezza» (pp. 131-132); per tacere della sperimentazione linguistica per l’uno e musicale per l’altro.

E tanto altro vi sarebbe da dire, ma preferisco concludere con quest’osservazione del prefatore Gilles de Van: «Non abbiamo ancora esaurito il lavoro letterario di Pavese, e probabilmente come capita con i grandi, questa ricerca non finirà mai, ma intanto su questa strada, il lavoro di Giovanna Romanelli segna una utile e preziosa tappa».

Ben più che un semplice omaggio a Cesare Pavese, mi pare.

[Jacqueline Spaccini]



Pubblicato da Le colline di Pavese, Santo Stefano Belbo, Centro Pavesiano Museo casa natale, A. 32, n° 122, aprile 2009, pp. 9-11.

giovedì 11 giugno 2009

Mario Nolano o la pittura segreta


AVVERTENZA: I quadri che accompagnano questa mia nota non sono quelli di cui essa stessa tratta. Ma serviranno ugualmente a evocare l'affascinante palette coloristica dell'artista.


Figure e colori di Mario Nolano
ovvero
La pittura enigmatica

Le riproduzioni sono by Laura Ongari, le pubblico su gentile concessione dell'artista Mario Nolano, e non possono essere utilizzate altrove.



Nelle opere che vanno dal 1980 al 1990, la serie di immagini – tutte figurative – del pittore Mario Nolano riproduce regolarmente navi approdate su spiagge silenti.

Ignoriamo se la loro sia una sosta momentanea, se una volta consegnate le casse di quei pesci pescati al largo ripartiranno o se resteranno a imputridirsi della salsedine corrosiva. Sappiamo solo che là stanno, nel momento in cui leggiamo l’opera.

Leggiamo, certo, giacché i quadri raccontano storie da interpretare, sicché a torto o a ragione li si «narrativizza» in un’ekphrasis di emozioni razionali (non è un ossimoro) che dal pittore rimbalzano allo spettatore.


Certo, possibilità di diafonia nel silenzioso passaggio ce ne sono, tant’è che lo scambio potrebbe non essere osmotico; pur tuttavia, il transito che avrà luogo sarà per il fruitore della tela un arricchimento e comunque un’agnizione: un quadro riflette come uno specchio quel che è in noi e a noi rivela segnali di nostre irresolutezze.



Le navi, si diceva: fisiche e simboliche, solitarie o in coppia, all’interno di paesaggi rarefatti o in compagnia di esseri umani; navi. Simbolicamente, rappresentano il viaggio verso la vita e con essa l’ignoto; una fiducia intrepida verso il futuro prossimo a venire. Ma sono navi immobili, quelle di Nolano: immense nature morte, monocromatiche e indifferenti a quel che le circonda. L’interpretazione ottimistica si fa cauta, allora. E che cosa dunque le attornia?

La tecnica metafisica di cui si avvale l’artista ci offre un contorno di ombrelloni da gazebo somiglianti a steli di fiori di carta o a funghi stilizzati; oggetti demandati all’altrui protezione, ma qui splendide anime abbandonate. A chiudere il tutto, ci sono i colori: forti, intensi; rossi più forti di quelli di De Chirico, redivivi rossi van Eyck, rossi che richiamano il colore del sangue vivo. E le navi giacenti sulla rena sono più sole che mai, come le celebri barche di Van Gogh.

Metafisica iconica o meno, la simbologia richiama i pensieri all’ordine: altrove, una nave poggia su una spiaggia di gauguiniana memoria: un prato verde smeraldo, ma a scacchi come la partita della vita. E se una palla riposa inutilizzata da un canto, un bimbo osserva la nave-vita tenendosi ben saldo al palo di un cavallino da giostra: fissa il bimbo, la vita vera, ché la sua è ancora di sogno (i vessilli di Klee custodiscono la sua libertà), in un’infanzia che non prevede ancora dolori, ma già invita allo sguardo. Un palloncino gonfiato ad elio, come un sole si staglia nell’angolo in alto a destra: è una speranza se il sogno coincide con la realtà oppure anche qui occorre ravvisare l’ennesima illusione, l’ennesimo disinganno?



Il colore che Nolano pianifica nelle sue tele è sapientemente dosato, controllato, diremmo «dominato». L’intento è razionale anche se traspare l’emotiva predilezione per certi blu, gialli, per certi rossi e verdi di espressionistica memoria, scelti ad esaltare e insieme a pacare asprezze e passioni, slanci vitali e amare introspezioni. Come nell’altalena di sfumature che le onde di quel mare nel suo agitarsi restituiscono agli occhi: dal lilla parmense al viola cupo di qua da un mare verde come un prato smeraldo in una notte senza stelle.

Dalla metà degli anni Novanta, Nolano propone ritratti, anzi volti e mezzibusti di donna. Sono un omaggio alle figure picassiane con in più (il nuovo) quei colori che ormai travalicano l’amato espressionismo: siamo già nel postmoderno. Le lacrime di una donna sono marcate dal bistro nerastro che cola lungo le guance formando un compasso, forse un pendolo, comunque una misura, giacché anche il dolore – c’è un anello magrittiano sospeso davanti a lei – come le parole spiegazzate che le affollano la testa, anche il dolore, dicevamo, ha un termine.

Durante il periodo che si è aperto nel 2000, Nolano abbandona a mano a mano le tecniche cubiste e non solo nel ritrarre i volti di donna. Resta un residuo di scomposizione, ma esso si è affrancato dallo spezzettamento di rigorosa geometria per mutarsi in composta elaborazione. Cerchiamo con gli occhi gli oggetti: il campanile-obelisco è pur sempre un parallelepipedo sormontato da una piramide egizia, ma pacato è il suo esserci. Si erge come certezza, come faro è punto di riferimento, granitico compagno delle fronde di salici cipressini o della chioma d’un domestico arancio da giardino. Gli alberi si addomesticano, si fanno bidimensionali, non appartengono più all’ordine del metafisico dechirichiano e si allineano leggeri come pali lungo il sentiero dell’ideale…

Gli esseri umani sono ripresi frontalmente, pressoché fissi nella postura. Sono – come tutta la pittura di Nolano – doppiamente interpretabili. Mostrano la parte frontale di sé in un atto di lealtà (ecco, mi/ti mostro per quello che sono/che sei – senza infingimenti) oppure nella rappresentazione di sé nascondono il lato oscuro che li perseguita (ti faccio vedere solo ciò che voglio e il resto lo tengo per me)?

Le persone, si diceva: quella che stringe il tubetto di colore e mostra gli stracci del mestiere cari al pittore, ha un cuore, ma il meccanismo interno contiene una sorta di stomaco (orologio razionale?) rinchiuso in uno scrigno geometrico visibile solo per chi guarda dal di qua della tela. Un palloncino se ne vola via verso l’etere che più non è lontano e le nuvole come pecorelle addolciscono quel cielo altrimenti superbamente indifferente.

Tornano alberi e palloncini in un’opera che prediligiamo, Nuova vita. È una vita nuova a due, che tanto Gauguin ci ricorda. Torna la persona dallo scrigno razionale e a fianco ne ha un’altra che però s’offre inaccessibile quanto alle sue viscere, ché sono vuote – e dunque mute – all’umano comprendere.

C’è una coppa da champagne, in basso: si brinda alla nuova vita o ci si ubriaca nella superficialità del vivere quotidiano? E sarà poi questo il senso? Lo sguardo speranzoso della figura di sinistra (per chi guarda), insieme timido e guardingo sembrerebbe dire: Vedremo.

Jacqueline Spaccini

Zagabria, 29 dicembre 2005


martedì 9 giugno 2009

A Buridano

La recensione alla raccolta di poesie è pubblicata qui con il titolo: L'abilità dell'inabitabile

Jean Dubuffet, L'âne égaré (L'asino smarrito, 1959)

A Buridano

Forse io non so scegliere
e potrei un giorno morirne,
sei tu a affermarlo
e ne sembri convinto,
rimarrei qui forse a aspettare
che la scelta si compisse da sé,
sei tu a insegnarlo
e non ne hai alcun dubbio,
e alla fine vincerebbe la fame
o una forma mortale di inedia,
sei tu a ricordarlo
lo ripeti e lo scrivi,
ma che dire del violento tepore del fieno
nella notte o la mattina d'inverno,
che sai dirmi del suo folle profumo
a insinuarsi nel sonno più ottuso
su, prova a dirmi dell'urgente colore
che si strugge in quei due cumuli accesi
e non si può che toccare, annusare
riguardare, riguardare
senza osare scegliere mai.
Mia Lecomte

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A Giovanni Buridano, filosofo medievale, è attribuito il paradosso secondo il quale se un asino venisse costretto a scegliere tra due cumuli identici di fieno, nell'incertezza finirebbe per morire di fame (Nota di Mia Lecomte).

Mia Lecomte. Terra di risulta (poesie). Milano, La Vita felice, 2009, 10€00
Nota critica di Gabriela Fantato.

lunedì 1 giugno 2009

Quel giorno che incontrai Vesna Parun

Quel giorno che incontrai Vesna Parun


Ho avuto la fortuna di conoscere Vesna Parun nel 1996, a Zagabria, dopo due anni di vani e reiterati tentativi. Nel suo appartamento di Dubrava, uno dei quartieri periferici della città, non c'era telefono. E se c'era, lei non rispondeva.

moj Zagreb

Un giorno presi coraggio: bussai a lungo alla sua porta e suonai al suo campanello. Niente.

Non so se Vesna fosse assente o se fingesse di esserlo. Fatto sta che nessuno rispose. Allora me ne andai, non senza aver prima incastrato una lettera scritta da me nello stipite verde della sua porta.

Mi telefonò qualche giorno dopo, guardinga, un po' sospettosa, per fissare un appuntamento. Il luogo prescelto doveva essere una no man's land, la sala di lettura della médiathèque dell'Institut Culturel Français, all'angolo della Preradoviceva.

Preradoviceva.
La médiathèque è all'angolo di sinistra, in fondo
La foto è di Mihael Mafy (album web)


Portai un'orchidea bianca, sperando che un fiore, offerto da una donna a un'altra donna, potesse rassicurarla sulle mie intenzioni. Non vidi la bellissima donna raffigurata nelle pagine di una delle sue raccolte poetiche più belle, Ukleti dažd.

Mi si fece incontro un'anziana signora al contrario, alta e appesantita, con una sciarpa a proteggere dalla vista altrui una malattia che le deformava il collo. Ma la passione che ha contraddistinto la vita di donna e di poeta di Vesna Parun (classe 1922) ne illuminava ancora gli occhi. Il suo incipit mi parve senza appello: Le concederò al massimo mezz'ora e non rilascerò nessuna intervista.

Quel ristorantino sulla Teslina

Ma, per davvero, io non volevo un'intervista da lei. Volevo "succhiarle" di dosso qualcosa per poter meglio tradurre una manciata di sue poesie.
E l'orchidea deve poi aver compiuto un piccolo miracolo.

Restammo a parlare per cinque ore di seguito, prima in biblioteca poi nel chiuso di un ristorantino lì vicino, mentre lei assaggiava un piatto di verdura fritta e io stavo ad ascoltarla con solo una birra davanti.

Quando la riaccompagnai a casa, un tizio a bordo di una vettura sportiva si divertì a rasentare sprezzantemente la mia auto che sostava nel piazzale di Vite Velebita.

Ho continuato a scrivere a Vesna, senza poterla rivedere. Chissà forse un giorno ritroveranno le mie lettere in uno dei suoi famosi sacchi di plastica neri, quelli che lei dice di conservare perché anche i topi che infestano la sua casa debbono pur campare.


L'intervista non l'ho mai fatta. Il libro con traduzioni mie delle poesie sue, l'ho pubblicato.
Mi fu detto che ne era contenta.

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Vesna Parun. Né sogno né cigno. [Ni san ni labud]. Caserta, Editrice Spring, 1999. Prefazione di Predrag Matvejevic. Traduzione dal serbocroato e nota critica di Jacqueline Spaccini.
Sue poesie tradotte da me sono consultabili qui e qui. Ma anche qui.