martedì 17 marzo 2009

Sciascia, il «giallo» e la pittura

Pubblicato da Stilos (La Sicilia) con il titolo «La
tentazione di Zefer compie otto movimenti»
il 27/11/2001

Si trova anche nel mio libro Sotto la protezione di Artemide Diana, Rubbettino, 2009.

Le regole del “giallo” e l’escamotage
della pittura in Sciascia

di Jacqueline Spaccini


Nel suo “Breve storia del romanzo poliziesco” (in Cruciverba, Adelphi, 1988), Leonardo Sciascia riassume le regole di un genere, il giallo classico, oggi ampiamente ibridato con l’horror, il fantastico e lo storico.
Nel momento in cui scrive il suo saggio, gli appassionati di questa letteratura sono ancora dai più considerati lettori (e scrittori) di serie B; se chi legge (e scrive) polizieschi è anche lettore/autore di narrativa “seria”, la sua appare essere un’eccentrica passione. A distanza di tredici anni [quest'articolo è del 2001, N.d.A.], è la letteratura che tira di più; chi la legge (e la scrive) non si sente più un infiltrato al desco, ed anzi esce allo scoperto, nobilitato: dalla serie cadetta è stato promosso in quella maggiore, può persino lottare per lo scudetto.
Non credo proprio che Sciascia si sentisse uno scrittore mortificante, anzi; quindi quando afferma che “la lettura di un poliziesco è, nel senso più proprio della parola, passatempo”, sembrerebbe non nutrire sentimenti di elemosina, limitandosi ad una mera constatazione. Ma se così fosse, tale affermazione riguarderebbe abbastanza lapalissianamente tutte le altre letture; senonché, Sciascia precisa che, allorquando il tempo non è più portatore di pensieri, il pensiero fugge, la mente diventa una sorta di tabula rasa, in una condizione di beata passività. Certo, giusto il lasso di tempo che la lettura occupa, poi si torna alla vita di sempre. Quindi il primo punto sembra essere questo: il giallo intrattiene, col suo giusto grado di tensione, ma non porta né riflessione né arricchimento.

Sciascia insiste sulla “condizione di assoluto riposo intellettuale”, da parte del lettore evidentemente, perché la lettura possa essere per davvero un passatempo. Infatti, se l’intreccio di un giallo si apparentasse troppo al reale quotidiano, la lettura si rivelerebbe meno divertente, comporterebbe elementi di pathos, di angoscia. Ne consegue che, a rigore, le opere di Stephen King o di Patricia Highsmith non rientrano nella categoria descritta dallo scrittore di Racalmuto.
Ora, un punto sul quale non mi sento per nulla in sintonia con la sua “anamnesi familiare” è proprio quello che riguarda lo stato di passività e di riposo intellettuale del lettore. Comincerei da ciò che sta a monte della convinzione sciasciana: la nozione di tempo. Per lo scrittore siciliano, durante la lettura di un giallo, il tempo “non è più scandito da condizioni e condizionamenti”. Orbene, si dà il caso che la prima condizione, canonica, direi sine qua non, di un giallo d.o.c. è il rinvenimento di un cadavere (e quindi l’esistenza di un assassino e di un assassinato). In Genesi di un poema, Edgar Allan Poe ha scritto che per la risoluzione del mistero, bisogna procedere “con la precisione e la rigorosa logica di un problema matematico”. Nel 1928, lo statunitense William Huntington Wright, più noto con lo pseudonimo di Van Dine, il fortunato autore di una serie di romanzi con protagonista il detective Philo Vance, stabilisce venti regole per il poliziesco, tra le quali il gioco intellettuale, e paziente, che lo scrittore ingaggia con il lettore, una sorta di partita a scacchi con regole prestabilite cui entrambi debbono sottostare. Oggi lo si definirebbe il “patto narrativo” che un autore scambia col suo lettore, condizione gravida di tutta una serie di condizionamenti. I romanzi di Van Dine si fondano su una serie di condizioni obbligatorie cui è costretto per primo lo scrittore di gialli: la precisione e il rigore matematici augurati da Poe, il nodo del romanzo consistente più nell’inchiesta che nel mistero, per esempio.

E. A. Poe
Nel momento in cui un lettore accetta le regole del gioco proposte dall’autore del giallo che sta leggendo, egli ha a sua disposizione giusto il tempo (cioè le pagine che restano) di risolvere l’enigma, prima che sia troppo tardi. Sta qui la posta in gioco, nella sfida che il giocatore 2 (il lettore) raccoglie, confidando nell’onestà del giocatore 1 (l’autore): risolvere il mistero con l’aiuto degli elementi che gli sono via via offerti.
E’ il motivo per il quale il lettore di Agata Christie s’appresta a leggere i suoi romanzi con un sentimento misto di sfida e di scacco: egli sa che l’autore è di quelli che tradiscono il patto, che imbrogliano le carte in modo da lasciare il lettore (in versione detective) totalmente disorientato e confuso, al contrario di quello naïf o passivo, lui, piacevolmente sorpreso. Ad ogni buon conto, siamo lontani da qualsivoglia nozione di “deregolamentazione” del tempo: non soltanto il tempo non è più un flusso emotivo e indistinto, ma è addirittura razionalissimo e contato.
La ricerca della Lettera rubata
Sciascia non accorda una grande importanza all’elemento “mistero”, che è invece principale in altri autori e che ha permesso, se mi è concesso di anticipare, la dilatazione odierna dei confini del genere. In principio era un racconto di Poe: di già, nella Lettera rubata, veniva affrontata la nozione di mistero come enigma da risolvere (chi non ricorda quello che aveva nell’orangutan la sua risoluzione?) con il solo ausilio del ragionamento, ma faccio allusione all’altrettanto famoso Ritratto ovale, in cui fa il suo ingresso l’elemento fantastico. Il potere orrifico che al protgonista del racconto suscita spavento è rappresentato da un dipinto che ritrae una bellissima fanciulla. La risoluzione dell’enigma misterioso che racchiude il ritratto è la lezione di Poe di cui occorre far tesoro: il quadro è elemento che nasconde un segreto; questo segreto fonda e struttura l’intreccio del racconto; sulla rivelazione del segreto, sull’agnizione finale (qui, la vita trasferita alla materia inerte), si chiude il racconto stesso con un coup de théâtre.
Appresa la lezione, sia pure in ritardo, l’elemento pittorico (che si tratti di quadro o di pittore) diventerà elemento di escamotage nei gialli, affiancandosi spesso ad un altro nuovo ingrediente: la storia. Fermo restando la continuazione di un filone classico (che la linea di Lucarelli rappresenta a buon diritto), dal 1988, anno di pubblicazione del Nome della rosa di Umberto Eco, si assiste a un fiorire di gialli a sfondo storico, soprattutto in Francia (Lebigre), in Inghilterra (Peters) e in Spagna (Perez-Reverte), ma ci sono eccellenti esempi anche in Italia (Evangelisti, Rebulla). Al definitivo imbroglio di frontiere, bisognerebbe altresì aggiungere il contributo dell’elemento fantascientifico con una conseguente precipitazione dell’intrigo verso il “noir”.
Derogazioni a parte, e tornando all’elemento pittorico – anche come segno di mystère – che più mi interessa qui, c’è da ritenere un’altra osservazione di Sciascia: “[vi sono] romanzi che di poliziesco hanno soltanto la tecnica: quella tecnica che non permette al lettore di abbandonare il libro a metà, di non chiuderlo se non dopo aver letto l’ultima riga”. E’ un’annotazione importante, perché essa mi permette di introdurre un romanzo di Sciascia, Todo modo (1974, Einaudi), per dimostrare che Sciascia è colui che continua il giallo (o poliziesco che dir si voglia) nel segno della tecnica per un finale a “soluzione aperta”. Almeno negli intenti.
Invero, non è la prima prova di quel che la critica francese ha definito “conte moral et policier”: erano già apparsi Il giorno della civetta (1961), Il consiglio d’Egitto (1963), A ciascuno il suo (1966) e il Il contesto (1971). Polizieschi, questi romanzi lo sono per il tessuto narrativo che si sviluppa come una lunga inchiesta, la maggior parte delle volte destinata a sfociare nel nulla. Il detective professionista (come il capitano del Giorno della civetta o il commissario Rogas del Contesto) o quello che lo è suo malgrado (come il filologo del Consiglio d’Egitto) sono alla ricerca della verità, ma una volta trovata non servirà a granché. Insomma, se sono polizieschi – sia pure alla lontana – lo sono per il carattere investigativo e per lo spirito di localizzazione e rivelazione che anima i protagonisti, ma essi hanno anche un carattere morale come sostrato didattico che rinvia allo Zadig di Voltaire, forse il primo poliziesco (se si esclude l’Edipo Re).
Prima di introdurre la materia narrativa di Todo modo, vorrei attirare l’attenzione di chi legge queste righe su di un elemento paratestuale, nient’affatto trascurabile, presente nella prima edizione italiana. Nel riquadro centrale della copertina einaudiana, vi è raffigurato un quadro del manierista Rutilio Manetti (1571-1639): La tentazione di sant’Antonio. Il lettore l’ignora ancora, ma in questo quadro è la chiave (simbolica) del romanzo di Sciascia. Vi si vede il santo occupato a leggere; dietro di lui, il diavolo sta tentandolo, ma è un diavolo atipico, con un paio d’occhiali, simbolo della più perniciosa delle tentazioni: il peccato del sapere, principale inganno dell’intelletto.


il pittore Fabrizio Clerici
Nel romanzo, il quadro si trova nella cappella dell’Eremo di Zafer (in Sicilia e non a Siena, dov’è realmente conservato; Sciascia l’aveva conosciuto grazie all’amico pittore Fabrizio Clerici) e rappresenta “san Zafer” (e non sant’Antonio). Così li descrive il narratore omodiegetico: “un santo scuro e barbuto, un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata, (…) gli occhiali a pince-nez.” Il diavolo, cui gli occhiali attribuiscono “un che di misterioso e di pauroso”, rimanda all’altro protagonista, don Gaetano, gestore dell’Eremo. E’ proprio il sacerdote a spiegare il valore di quegli occhiali: “il santo non ha più buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse leggerà il Corano o sant’Anselmo o sant’Agostino.” “Ahimè, che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta…”, conclude don Gaetano, citando alcuni versi del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni.
Si tratta di una copia, naturalmente, ma giacché il quadro, che esiste realmente, viene spostato dall’autore in un luogo falso, anzi inesistente nel senso stretto del termine (Zafer è Zafferana Etnea), è evidente che il soggetto di questa Tentazione di Manetti dev’essere portatore di un significato, o per restare più vicini a Sciascia, d’un indizio rivelatore.

Per lo scrittore siciliano, quattro sono le regole fondamentali per la costruzione di un buon giallo: “il porsi del problema; la presentazione degli indizi essenziali alla sua soluzione; lo sviluppo dell’inchiesta fino alla soluzione; la discussione sugli indizi in quanto prove e la dimostrazione che attraverso quelle prove si arriva alla prova definitiva della colpevolezza di uno dei personaggi del libro”. Ricordo di sfuggita che Sciascia è però ammiratore di Gadda, autore del “più assoluto giallo che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione”, pensando a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957, Garzanti). Al cinema il romanzo fu trasposto col titolo “Un maledetto imbroglio”, per la regia di quel genio che fu Pietro Germi; il regista genovese optò per il finale chiuso, con tanto di arresto di colpevole, scelta che mandò Gadda su tutte le furie.
dal film Todo modo di Elio Petri (1976)
Tornando a Todo modo, il protagonista di cui il lettore ignorerà finanche il nome, è pittore di fama. Fin dal suo arrivo all’Eremo, fa la conoscenza del gestore del luogo, don Gaetano, uno strano prete che esercita subito su di lui un’ambigua influenza: da una parte, il protagonista lo disprezza (in ragione dell’aspetto lucrativo e sordamente politico degli “esercizi spirituali” da lui gestiti nell’eremo); dall’altra, ne ammira l’intelligenza e la cultura. Ben presto, un primo delitto è commesso: qualcuno ha sparato al senatore Michelozzi, uccidendolo. L’arrivo della polizia non impedisce un secondo assassinio: è la volta dell’avvocato Voltrano, precipitato dalla sua camera situata all’ottavo piano. Due omicidi apparentemente inesplicabili. La polizia non riesce a trovare un solido “mobile” in grado di spiegarne la natura, mentre il prete e il pittore si lanciano messaggi velati, ciascuno volendo far comprendere all’altro di sapere chi ne è il responsabile. L’assenza di ogni indizio lascia però il lettore completamente all’oscuro. Un pomeriggio, al vecchio mulino, don Gaetano viene ritrovato cadavere, ucciso dal proiettile di una pistola. Suicidio o terzo delitto? In assenza di movente, il caso è archiviato.
In realtà, il romanzo è zeppo di indizi. Ma è indubbio ch’essi sono presentati sotto una forma più letteraria che poliziesca. Al lettore è richiesta una seconda lettura. Eccola, in otto movimenti: a) all’inizio del romanzo, il pittore dichiara, apparentemente a sproposito, d’essere “pronto a ripetere, a moltiplicare, quando sarebbe scattato, quando avre[bbe] potuto farlo scattare, il [s]uo atto di libertà”; b) don Gaetano porta occhiali che sono “la copia esatta di quelli del diavolo”; c) il primo omicidio segue una cena nel corso della quale la vittima (Michelozzi) e don Gaetano avevano avuto contrasti mascherati da “un rimbalzo di citazioni, come una partita di ping-pong”; d) la seconda vittima (Voltrano) si trovava alla sinistra di Michelozzi, nel momento in cui il senatore veniva ucciso ed aveva sospettato che “qualcuno si [fosse] insinuato tra lui e Michelozzi”, dando a intendere di aver riconosciuto l’assassino; e) a proposito dei primi cristiani, don Gaetano richiama Tertulliano, che voleva difenderli, concludendo in tal modo: “aveva torto Tertulliano a chiedervi [a voi non cristiani] di non temerci, a rassicurarvi”, perché il mondo “è l’orlo dell’abisso. L’abisso invoca l’abisso, il terrore invoca il terrore”. Al pittore, confessa altresì che la mancata scoperta dell’assassino gli è indifferente; f) il pittore afferma di aver trovato “la soluzione del problema netta e quasi ovvia” nella Lettera rubata di Poe; g) “che pasticcio”, dice il ministro al giudice Scalambri, quando viene rinvenuto il primo cadavere; “un pasticcio”, ripete il procuratore al ministro, facendo eco al romanzo di Gadda; h) il romanzo si chiude su un lungo brano, tratto da I sotterranei del Vaticano di André Gide.
Ne conseguirebbe – come ha ben osservato il critico letterario Nicolò Mineo – che il responsabile dei primi due omicidi è don Gaetano, ucciso a sua volta dal pittore. La risposta di quest’ultimo al procuratore Scalambri che gli chiede un alibi, “Dov’è che te ne sei andato?” “A uccidere don Gaetano”, a mo’ di boutade paradossale, sarebbe nei fatti una confessione.

Rutilio Manetti: La Tentazione di S. Antonio (1620, particolare)
La soluzione è dunque introdotta dal quadro di Manetti, come embrayeur o escamotage e spiegata alfine alla luce delle pagine di Gide, in cui Lafcadio uccide senza movente, in nome dell’atto gratuito, effetto senza causa, quell’atto che fa saltare l’anello della catena delle conseguenze: “un seul acte libre et, par contagion, tout ce qui est de l’homme est liberté”, concludeva Lafcadio. Fin dalle prime pagine, il pittore annuncia al lettore ch’egli è pronto a innescare il suo atto gratuito, in nome di quella libertà cui tutto ha sacrificato (“mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura”). Che don Gaetano sia esplicitamente assimilato al demone peggiore, quello dell’intelligenza e della cultura, è detto più volte nel romanzo. Né manca una timida identificazione del pittore con il Cristo (laico, certo), e che come il Cristo viene tentato dalla cattiveria lucida del prete: “non vi tenterebbe l’idea di dipingere un Cristo?”, respinta dal pittore, sia pure a malincuore.
Ho detto prima che se l’avvio della narrazione giallistica, l’escamotage, cui ricorre Sciascia è il dipinto di Manetti, la conclusione/soluzione è però nella letteratura. E’ tempo di richiamare Poe e la sua Lettera rubata, cui ho accennato più sopra, non per ricordare l’arcinoto ragionamento seguito dal cavaliere Auguste Dupin per trovare la soluzione, ma per insistere sulla portata della letteratura in questo poliziesco sui generis, nel senso che è la letteratura che spiega tutto, anche se non va al di là della scoperta, della notifica insomma, giacché quand’anche rivelazione, epifania, la letteratura è assolutamente impotente nella risoluzione dei drammi della vita sociale. [Jacqueline Spaccini]
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Pubblicato da Stilos (La Sicilia) con il titolo «La
tentazione di Zefer compie otto movimenti»
il 27/11/2001

venerdì 6 marzo 2009

Il concetto di motivazione


Sei motivato oppure no?

Preambolo


Se ho intrapreso simile lavoro è perché sono io stessa la prima ad esserne motivata. Confesso fin d'ora che i paragrafi più sinceri e probabilmente i più contraddittori sono quelli dedicati alla trasversalità del concetto di motivazione, alla sua transumanza dal campo psicologico a quello pedagogico-didattico così come la problematizzazione dell'universo insegnamento/ apprendimento.

Genealogia

La nozione di motivazione appartiene al terreno della psicologia. Viene dal latino motus ( = movimento) e indica l'influenza dei processi che determinano e dirigono il comportamento umano: questa è forse l'unica definizione sulla quale tutti gli psicologi moderni potrebbero essere d'accordo.

*Motivazione*. Difficile trovare un sinonimo valido. Paul Diel (1947) per esempio cercò di reperirne uno universalista, in grado cioè di riunirne tutte le componenti. Invano.


Si è cercato di darle come appoggio sintagmi e altre parole quali: *forza vitale*, *eccitabilità*, *desiderio essenziale*, *reattività*, *appetito* (in senso figurato, ovviamente).
A consultare l'edizione del '62[1], si troverebbero persino *mistero inesplicabile* e *morale* scritti in stampatello... Resta comunque, il libro di Diel, di riferimento, di certo non il primo, ma comunque uno dei testi dai quali partire e attraverso i quali esaminare più dappresso il successo di tale concetto, il suo sviluppo (negli anni '80, oserei dire una "fioritura") e i diversi percorsi scientifici intrapresi.

La principale domanda attorno alla quale ci si è intellettualmente azzuffati dall'inizio del XX secolo[2] riguarda la natura stessa del concetto: la motivazione è una disposizione psicofisica innata nell'uomo oppure è del tutto debitrice della cultura e per ciò stesso dell'habitat sociale?
Se McDougall (An Introduction to Social Psychology, 1908) era dalla parte degli inneisti ante litteram, Dewey (The later Works, 1925) non poteva fare astrazione dalle relazioni che intervengono tra organismo e ambiente per risolvere la questione.

Seguendo una linea diacronica, potrei allora riassumere la storia che la definizione di tale nozione "moderna" ha conosciuto, mostrando alcuni esempi, a volte rigorosi e a volte vaghi, scientifici e
non scientifici. Di certo in contrasto tra loro.
Ecco la lista:

MOTIVAZIONE

Tutto quel che attiva e dirige il comportamento [Diel, 1947]

n.f. (1923; presente nei dizionari dal 1845, dal versbo motivare). 1. Filos. Relazione di un atto coi motivi che lo spiegano o lo giustificano a posteriori. [...] 3. Psicol. Azione delle forze (coscienti e non coscienti) che determinano il comportamento (senza nessuna considerazione morale) [Dictionnaire Petit Robert, ristampa del 1982]

La motivazione è inserita all'interno delle operazioni mentali che regolano lo sviluppo dell'intelligenza [Piaget, Autobiographie, 1976]

Interesse intellettuale [Ausbel, Educational Psychology: A Cognitive View, 1978]

Insieme dei fattori che possono aumentare o diminuire la forza dell'attività di un individuo [Pontecorvo, 1987]


Insieme dei fattori dinamici che orientano l'azione di un individuo verso uno scopo prefisso, che determinano la sua condotta e provocano in lui un comportamento dato o modificano lo schema del suo comportamento presente [Trésor de la langue française, 2009]

Insomma, la motivazione sembra essere all'inizio una pulsione, poi un bisogno, se non uno stimolo. Oggi sembra essere un insieme di fattori che dirigono i comportamenti di un individuo (la motivazione non sembre essere collettiva).

Che cosa constatiamo?

a1) la motivazione genera un comportamento
a2) tale comportamento non ha carattere contemplativo
a3) non può agire su di noi senza farci a nostra volta agire
a4) ci orienta verso una (e una sola) direzione.

Allora mi chiedo se:

b1) la persona motivata che si muove verso una direzione (un obiettivo) segua delle regole di dinamogenesi aventi un carattere innato (teoria cognitivista) o appreso (teoria comportamentalista)
b2) la direzione presa presuppone sempre uno scopo oppure no.

A tale proposito (b2), mi chiedo anche quale sia il peso valorizzante di tale scopo.
Se si accetta l'ineluttibilità di uno scopo nelle nostre azioni, ma anche (l'eventualità) che esso non sia raggiunto, nondimeno la motivazione conserverà interamente a mio avviso il suo valore positivo, giacché essa non coincide con la realizzazione del suo oggetto. Inoltre, è possibile che la tensione verso l'oggetto-desiderio non metta in luce l'intenzione (lo scopo) di soddisfarla.
Quante volte infatti abbiamo sentito dire: Non so che cosa mi spinga a fare ciò!
Pur volendo affermare l'esistenza di uno scopo, insisto sul fatto che questo possa restare nascosto, sottointeso, ignoto perlomeno a livello di coscienza.

Resta il fatto che la motivazione - che nasca da uno slancio biologico o psicologico - può tradursi in realtà oppure restare una mera potenzialità (qualora la finalità verso la quale è tesa non si renda manifesta all'attante).

Itinerari

Se la prima domanda che gli psicologi si sono posti è stata che cos'è la motivazione?, ha fatto séguito prontamente una più complessa, vale a dire: la motivazione è qualcosa di conscio - e dunque intenzionale - oppure no?
Le due risposte - tanto la positiva quanto la negativa - hanno condotto a un primo crocevia:
1. se la motivazione è intenzionale, occorrerà prendere in conto una finalità (= siamo spinti ad agire perché vogliamo realizzare qualcosa);
2. se invece la motivazione è inintenzionale e nasce da un mero bisogno (= ho fame e questo bisogno mi spinge a mangiare), allora non soltanto la motivazione non ha finalità se non nell'ordine della soddisfazione di una esigenza primaria e immediata, ma apparterà al campo della fisiologia e non già della psicologia.


Donde una nuova biforcazione: la motivazione è un prodotto dell'istinto oppure della cultura?
Per il momento, do per certa la prima ipotesi: se l'uomo mangia, beve e dorme (i cosiddetti bisogni primordiali), è perché è l'istinto che lo spinge a farlo. Bisogna perciò credere che la motivazione appartenga alla spera dei bisogni fisiologici che occorre immediatamente soddisfare?
Nulla hanno a che vederci esigenze secondarie, esigenze non- e/sse[stiste]nziali?
E come dar conto di quelli che rifiutano di mangiare (digiuni di protesta, per ragioni politiche, ad es.)?
Prendiamo ora in considerazione la seconda ipotesi: orbene, nell'accezione d'uso, la parola cultura è in antonimia con tutto ciò che è primordiale, senza premeditazione, biologicamente comune a tutti. Se andiamo a guardare nel mondo animale, l'istinto di conservazione della specie spinge le madri a essere protettrici verso i loro piccoli: il loro istinto materno sembrerebbe essere pre-determinato e non il risultato di una scelta deliberata e individuale[3].
Donde la conseguenza seguente: ogni motivazione - in quanto figlia della sua cultura - è cosciente.
Ma siamo sicuri che attribuiamo a tale termine lo stesso valore semantico?
Essere cosciente della realtà: appartiene alla sfera della coscienza razionale e morale oppure di quella intuitiva e sensoriale della realtà? Quel che voglio sottolineare qui, sia pure di passaggio, è che la motivazione può essere cosciente senza consapevolezza d'essere tale.
In tal modo, potremmo spiegare perché a volte si fanno le cose senza che ci sia apparentemente un motivo - né tantomeno una motivazione - per farlo. In realtà, il motivo esiste, ma allo stato latente oppure cosciente nel senso di intuitivo, epidermico.
La linea spartiacque della disputa potrebbe essere - a mio avviso - non nella presa di coscienza (nell'assenza di tale presa di coscienza) delle ragioni di un'azione prima di intraprenderla o durante l'atto, bensì nel fatto che si tratta sempre di una libera scelta (in/cosciente, im/mediata) che mette il soggetto in movimento col lo scopo di realizzare tale elemento, talvolta di chiarire in primo luogo a se stesso il sentimento che lo agita.


Il costruttivismo piagetiano fece porre un'altra domanda: qual è il peso dell'ambiente nell'insorgenza dei fattori motivanti?
Ancora nel 1986, circola l'idea (Murray in: Alcuni concetti fondamentali per una psicologia della personalità, in Caprari G.V. e Luccio R. (1986) (a cura di). Teorie della personalità) che la motivazione dipende dalle influenze esogene dell'ambiente che ci circonda (ambiente in quanto stimolo esterno). Orbene, tutto sembrerebbe confermare questa affermazione: chi non ricorda il caso degli enfants sauvages alla Mowgli, quei ragazzi ritrovati nella giungla che non avevano il dono della parola a causa del lungo periodo passato tra gli animali (lupi o primati) della foresta?

Pur disponendo di organi fonatori, infatti, questi esseri non avevano imparato a parlare. Per esprimersi, ricorrevano ai gesti o a urli (e non urla) inarticolati per imitazione; d'altronde, l'assenza di umani attorno che insegnassero il linguaggio verbale da imitare, proibiva loro di ricorrervi [4].
E come spiegare il caso contrario, quello di individui che non avendo ricevuto stimolo alcuno dall'ambiente in cui sono cresciuti hanno poi saputo (da perfetti autodidatti) mettere a profitto le loro motivazioni [5]?
Endler aggira il dilemma motivazione esogena/motivazione endogena preoccupandosi di come le persone e le situazioni interagiscano nella promozione/inibizione del comportamento (ci torno più avanti, laddove parlerò del rapporto discenti/docenti).


Recentemente, gli psicologi hanno spostato il loro interesse (motivazionale?) verso la personalità [6]. Tuttavia, mi chiedo: se la motivazione si ricollega alla personalità, in quanto l'obiettivo da perseguire costituisce la realizzazione del nostro essere soggettivo, quando addirittura non si identifica alla personalità (Hamilton, Strutture e processi cognitivi della motivazione e della personalità, 1987), allora lo sforzo di dare una definizione il più possibile sistematica e coerente non diventa sempre meno obiettiva e generale bensì sempre più individuale e complessa, e in ultima analisi, lo sforzo vano?

Mi rendo conto che a questo punto ci si aspetta di conoscere quale sia la mia posizione a tal proposito. A dire il vero, dopo aver letto una gran quantità di testi che certificavano la natura probatoria or dell'una or dell'altra posizione al riguardo del concetto di motivazione, dopo tanti anni di pratica personale sul terreno, la ragione mi fa dare torto e ragione a tutti.
Il fatto è che si lavora su un terreno magmatico, e che troppo spesso si fa scientismo invece che scienza. Siamo nel campo delle ipotesi, nulla ha carattere di assoluta oggettività.

Tuttavia, alcune cose mi sono chiare. Mi pare che si possa affermare che:

- non esiste concetto di motivazione puro, coerente, unico e consolidato;

- la motivazione umana al suo massimo grado, espressione di un desiderio psicologico, non può che essere libera e cosciente e che la nozione di motivazione primaria (cioè immediatamente soddisfacibile come pulsione fisiologica) scivoli piuttosto verso il concetto di bisogno;

- qualunque posizione si prenda di fronte alle ipotesi degli psicologi, tutto è da ridiscutere quando si affronta il concetto di motivazione in ambiente scolastico, cioè nell'universo dell'insegnamento/apprendimento.

Sthépanie Blake, Je veux pas aller à l'école, Ecole des loisirs, 2007 (copertina)

Trasversalità


Il funzionamento della motivazione negli esseri umani è trasferibile ai meccanismi di apprendimento di una lingua straniera? Perché questo è quel che mi interessa.
Ricordiamo subito quale sono i rischi di un travaso nudo e crudo di un concetto dall'universo delle ipotesi psicologiche - ove francamente tutto è possibile - a quello della pedagogia didattica [8].
Mi spiego: ci si dà tanta pena di adattare quel che viene da fuori, da altrove, per applicarlo in un campo che ha forse altri bisogni, diverse esigenze, addirittura altri destinatari, altri contenuti e obiettivi.

La nozione di motivazione fa il suo ingresso nell'universo didattico con l'approccio audio-orale (sic!) che si richiama allo psicologo americano Skinner. Fatta a pezzettini, ritrova la sua unità nelle tre parole chiave del behaviourismo (o comportamentismo) : stimolo-risposta-rinforzo
(Oggi, nel 2009 - quando trascrivo queste righe risalenti a 13 anni fa - è un approccio che va forte con gli animali da compagnia che vanno rieducati).
Questo stesso concetto, trasformato e utilizzato per la causa meccanicistica, finisce per snaturarsi: la motivazione non è più l'espressione di una scelta, frutto di una volontà libera, bensì il riflesso di un condizionamento, il risultato di un "ammaestramento", di una manipolazione che ricorre all'artificiale anche per quel che potrebbe risultare da una serie di atti naturali.
Nel momento in cui la creatività del discente è interdetta e lo sviluppo della sua personalità negata, la pratica dei laboratori linguistici ha finito con il riprodurre qualcosa, ma a produrre? Niente (o poca cosa).


Infatti, anche se si ammettesse che gli individui sono in genere spinti (a fare qualcosa) da uno stimolo (endo- e/o eso-geno) a fornire una risposta (un comportamento in actu) e che ogni genere di motivazione è rafforzata/indebolita dal consenso/rifiuto dell'ambiente circostante, sembrerebbe che i risultati ottenuti dall'applicazione delle teorie skinneriane alla didattica delle lingue straniere siano stati obiettivamente esigui. E soprattutto sterili.
Altra domanda: se ad assicurare l'apprendimento di una lingua straniera (ma i comportamentalisti propongono gli stessi modelli che un bimbo si fa della sua lingua materna), che cosa ne è dell'acquisizione?
Accettando la teoria krasheniana, fondata sull'opposizione tra le nozioni di apprendimento e quelle di acquisizione, si dovrà confrontarla con la nozione di motivazione che si vuole accettare e prendere in considerazione le conseguenze.

(All'epoca ero) in sintonia con le idee di Krashen. Riassumendo:

OGGETTO:
ACQUISIZIONE -- non-cosciente e non-riflettuto APPRENDIMENTO -- cosciente e riflettuto
AGENTE:
essere umano in contesto non determinato discente adolescente/adulto contesto istituzionale
CARATTERE:
nessuna correzione sistematica etero- e auto-correttivo


Torneremo a questo schema quando affronterò la questione dell'influsso dell'ambiente scolastico al riguardo della demotivazione presso lo studente.
Tuttavia, occorre tener conto che si accetta che la motivazione per essere tale debba essere volontaria, libera da costrizione e senza finalità immediate, allora sarà difficile conciliarla con la nozione di apprendimento che si è vista qui sopra. Bisognerà dunque abbandonare l'idea che tale nozione possa avere la stessa connotazione nel campo dell'istruzione e prendere in considerazione altre vie oppure darle altre sfumature.


Problematica all'interno del rapporto motivazione-insegnamento

Bisogna oppure no considerare la nostra specificità?
È banale ripetere che:

a) il concetto di motivazione ha a che fare con le persone (i discenti) che potrebbero benissimo non essere motivati ad apprendere quel che i docenti indicano come loro bisogni?
b) l'ambiente in cui la motivazione dovrebbe trovare il suo sviluppo è un luogo costrittivo (la scuola come edificio e come istituzione) e dunque sgradevole, noioso, faticoso, decisamente non-motivante?
c) la lingua straniera in quanto tale va appresa in tempi stretti e in luogo in cui tale lingua non è parlata, dunque un obbligo il cui beneficio si vedrà (se si vedrà) alla distanza, pertanto dove c'è obbligo (superfluo, assurdo, agli occhi di un discente demotivato) non c'è scelta?[9]
d) il docente può influenzare - volente o nolente - la qualità della motivazione dei suoi studenti?

Conseguentemente, la domanda che mi pongo è questa: a scuola, che tipo di motivazione ci può essere?
Ai giorni nostri [ricordo, scrivo negli anni Novanta del secolo scorso], si insiste molto sulla motivazione strettamente legata all'emotività del discente. Finanche alla sua personalità.
A tal proposito, gli educatori (Ames e Ames: Research on motivation in education: Vol. 1. Student motivation, 1984; Johnson e Johnson: Learning Togheter/Circles of Learning, 1987) prevedono tre motivazioni possibili per un discente in ambiente scolastico. Le metto di seguito:

1. FATTORE MOTIVAZIONALE; 2. COMPORTAMENTO; 3. MOTIVAZIONE (tipo di)

1. a. confronto-scontro sociale
2.a. i discenti lavorano gli uni contro gli altri per un buon voto o un premio
3.a. di competizione

1.b. riconoscimento in un gruppo con cui condividere un sentimento di responsabilità
2.b. gli studenti lavorano insieme per raggiungere un risultato, uno scopo comune
3.b. di cooperazione

1.c. rinforzo, allargamento e miglioramento delle proprie competenze
2.c. ognuno lavora per il proprio obiettivo personale
3.c. dell'individuo


Difficile affermare che nessuna di queste motivazioni siapresente nel discente; anzi, talvolta capita che nello stesso soggetto possano trovar posto tutte e tre (certo, non simultaneamente).

Ora, qual è la buona motivazione, quella giusta, quella da assecondare o da promuovere?
Secondo Nicholls (Learning and motivation in the classroom, 1983), l'apprendimento fondato su una motivazione competitiva (1,2,3.a) non permette al discente di "assaporare" il gusto, il piacere della conoscenza del sapere... Gagné (The Conditions of Learning, 1970) osserva invece che una motivazione così può essere ben utilizzata nel processo educativo... Parecchi pedagoghi americani (ovvio, americani) non giudicano in maniera negativa il bisogno della riuscita sociale[10] da parte del discente-individuo. La motivazione di cooperazione (1,2,3.b) è generalmente percepita come stadio evolutivo del discente (soprattutto a livello infantile e adolescenziale), in grado di consentirgli l'inserimento in un microcosmo sociale particolare quale è quello della scuola. Per la motivazione individualista (1,2,3.c) tornano gli stessi dubbi che per la motivazione competitiva.

Tornando a quel che si diceva poc'anzi a proposito della distinzione tra acquisizione e apprendimento (la teoria di Krashen), credo che il suddetto problema sia un falso problema.
Perché?
Se si tratta di acquisizione (e io do per scontato che essa possa esistere anche in ambiente scolastico), ce se ne accorge solo quando i fattori motivazionali hanno già operato, la motivazione si è messa in moto, l'obiettivo è stato raggiunto. Che importanza può avere il tipo di motivazione intervenuto nel processo (e nelle tecniche messe in gioco) di acquisizione?
Se si tratta di apprendimento (solo in ambito scolastico, in tal caso), i tre fattori motivazionali saranno probabilmente intervenuti in un momento preciso del processo [11].

In effetti, è davvero indispensabile essere motivati per impare?

Per impare (spesso a memoria) alcune pagine di avvenimenti storici di tale o talaltro secolo, non bisognerà forzatamente scomodare la motivazione interiore! Basterà avvicinarsi allo studio in modo sistematico e dare alla memoria (anche emozionale) il tempo di assimilare date, personaggi, situazioni. L'apprendimento di questo tipo richiede un risultato a breve scadenza, né motivante né motivato ( a meno che il discente non sia cinestetico. Rimando ad articoli afferenti). Diverso discorso è da farsi qualora l'apprendimento richieda una riflessione personale attorno a una problematica, un'opinione oggettiva oppure annotazioni critiche. Tuttavia, laddove una motivazione interna o esplicita sia assente, il docente potrà svolgere - in qualche modo - funzione di succedaneo. D'altronde, non si sottolineerà mai abbastanza quanto la condotta errata di un docente possa mortificare e svuotare una disponibilità motivazionale presente in un discente [12].

In un articolo apparso nel 1990 [FDM 231; oggi in: Babel en éducation], Jean Janitza insiste sul concetto di "guida" strategica e tattica (p. 44) da parte dell'insegnante, in grado di favorire la presa di coscienza di tale attività psicologica che è - in natura - interna e volontaria. Ma se questa attività si rivela non avere soluzioni precofenzionate, lo stesso non può dirsi per la strategia che un docente può adottare. Si tratta di attivare e direzionare il comportamento motivazionale latente in ogni discente. Sì, ma come?

Conosciamo bene i danni causati dall'effetto Pigmalione: Galatea (maschio o femmina che sia) impara per (af)filiazione, per l'amore (ideale, nella migliore delle ipotesi) che porta verso il suo insegnante (raro, ma accade). Non è che sia sempre colpa del docente; anzi, può essere che nonostante il suo "sottrarsi", lo se non gli studenti abbiano visto in lui quell'immagine simbolica con funzione di fare che nessun altro riveste in quel momento nel loro mondo. In presenza di una situazione di questo genere, il docente in posizione di padrone assoluto del destino culturale - ma soprattutto emotivo - dei suoi allievi, e nel contempo deve sopportare un peso che si fa sempre più ... pesante. Soprattutto quando il docente non riesce a controllare il suo doppio piano [13]. La maggior parte delle volte è a questo punto che si pone la questione deontologica, sulla quale non mi attardo, esulando da questo studio.

Il mio testo si soffermava a lungo sulla scuola di Lozanov, in Bulgaria, e su un'iniziativa chiamata suggestopedagogia (Scuola di Sofia). Chi vuole, clicchi qui per vedere di che si tratta.


In conclusione, se abbiamo come primo e ultimo obiettivo quello di insegnare e dunque di far apprendere, di far acquisire (nel mio caso, una lingua straniera), ma soprattutto di trasmettere (in osmosi) il nostro sapere (nel senso di un sapere personalmente metabolizzato), il nostro universo culturale, metteremo a profitto tutte le "armi" di cui disporremo. Il lavoro resta di tipo artigianale. Si fallisce spesso l'obiettivo immediato, ma si recupera altrettanto spesso nel tempo. La guida tessuta con la nostra voce, i gesti, persino la posizione nello spazio, composta della nostra capacità di metterci all'ascolto dei suggerimenti sovente involontari dei discenti così come delle loro reazioni (che sono altrettante risposte), incamerando la trasmissione del sapere insieme con i procedimenti tecnici di trasmissione del saper fare, è indice da parte nostra del rispetto della loro personalità?
Mi pongo la domanda. E non dimentico che ci sono leggi inafferrabili e impietose come quelle dell'inconscio. Il nostro e il loro. Certo queste ultime due righe - tredici anni fa - non le scrissi. Non le pensavo. Allora ero convinta che il razionale vincesse sempre sull'irrazionale.



A proposito: c'era una domanda rimasta in sospeso, la cui risposta è un po' troppo lunga per la me di oggi. La domanda era questa: è davvero indispensabile essere motivati per impare?
La risposta è semplice: per apprendere no, per acquisire (per imparare forever) sì.
Jacqueline Spaccini



testo scritto in occasione di un seminario di Linguistica
à Paris III Sorbonne Nouvelle (gennaio 1996)

©Jacqueline Spaccini - Université de Caen -
Tous droits réservés 2009


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Note:
Questo saggio è stato oggetto di un seminario (Parigi, 1996) all'interno della preparazione di un D.E.A. [oggi si dice MASTER 2] in Didactologie con il prof. Paul Galisson e il coordinamento della prof. Danièle Lévy. Questo mio testo è autotradotto dal francese.

[1] Paul Diel, Psychologie de la motivation. Paris, PUF, 1947-1962, pp. 323
[2] Per le mie considerazioni, ho preso in considerazione la scuola angloamericana (Atkinson, Bruner, Hull, Hunt, Maslow, Ausbel, Ball, Bandura, Bloom, Dewey, Harlow, Skinner), la scuola francofona (Diel, Piaget, Nuttin), la scuola italiana (Caprara, Montuschi, Petracchi, Pontecorvo, Scurati). I testi inglesi sono stati letti nella traduzione italiana.
[3] Ma anche lì, si direbbe che i progressi dell'etozoologia cominciano a smentire tale verità rivelata. Si veda l'indifferenza - se non la "crudeltà" - di certi animali al riguardo dei loro piccoli e della loro sorte, anche nel momento del bisogno.
[4] Tuttavia, qualcosa di innato deve pur esserci se ci sono le scimmie "intelligenti" come Koko, Sarah, Elizabeth, stimolate e motivate ad apprendere il linguaggio verbale, ma sprovviste di organi in grado di facilitare tale realizzazione.
[5] Il primo nome che mi viene in mente è quello dello scrittore marocchino Mohamed Choukri, analfabeta fino a vent'anni e due volte candidato al premio Nobel per la Letteratura. Ma gli esempi sono molteplici.
[6] Personalità intesa come la somma di tutti gli agenti - innati e cognitivi - che contribuiscono alla formazione della persona.
[7] I sostenitori dell'una e dell'altra teoria dichiarano tutti di portare prove "scientifiche" a sostegno delle loro tesi.
[8] A proposito del malinteso didattica/pedagogia, P. Charaudeau osserva: "[la didattica] ha un punto di vista esterno su un oggetto che è costituito dal risultato degli atti d'insegnamento, per la [pedagogia], il punto di vista è interno su un oggetto che è costituito dalla propria pratica di trasmissione" (FDM n° 253, pp. 47-48, sono io che traduco). E ancora: "Poiché questi due campi non si sono ben differenziati, si assista a una interazione reciproca e un po' caotica." Donde i termini usati da Charaudeau di "didattica pedagogizzata" o di "pedagogia didatticizzata" (ib., p. 48). Francamente, non riesco a far meno dell'una affrontando l'altra e viceversa.
[9] Tanto più che la diffusa opinione secondo la quale un bagno linguistico promuove la motivazione ad apprendere una lingua straniera cozza contro la libertà del discente di rifiutare il contatto con la lingua/cultura mirata e per ciò stesso di rifiutarne l'acquisizione o apprendimento che dir si voglia.
[10] Non bisogna dimenticare (né sottovalutare) il valore estremamente positivo che una certa cultura americana attribuisce alla riuscita sociale del cittadino e più in generale dell'individuo.
[11] Una stessa disciplina può favorire i tre momenti, lungo il suo percorso. Per esempio: 1. motivazione cooperativa - in una ricerca collettiva; 2. motivazione competitiva - in una verifica grammaticale sui verbi o sui numeri, in una gara a esclusione valutativa per cui un solo allievo riceverà un premio o un buon voto; 3. motivazione individualista - in una dissertazione letteraria o la redazione di un componimento poetico, molto personale, e così via.
[12] Mi è capitato di chiedere a un docente - all'epoca - molto più esperto di me una lista di testi che potessero aiutarmi in questa ricerca. Mi ha risposto - non senza ragione - che non riusciva a capire il motivo di questa mia ricerca, in particolare al riguardo della mancanza di motivazione negli studenti. Sono motivati, loro! Sono gli insegnanti, semmai, che bisognerebbe motivare, fu la sua conclusione.
[13] Secondo piano: "il primo copre la suggestione diretta, cosciente e spesso verbalizzata. Il suggestionatore (terapeuta o docente) non è normalmente cosciente delle manifestazioni del proprio doppio piano" (double plan). [Galisson: 1983]

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REFERENZE BIBLIOGRAFICHE

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